Le elezioni presidenziali in Turchia si avvicinano – mancano pochi mesi – e la domanda su cosa abbia in testa Erdogan per risalire nei sondaggi e vincerle è, per gli analisti, inevitabile.
La domanda non può prescindere da una sua derivata, tanto ovvia quanto poco presente nell’informazione corrente, posto che la Turchia è in balia di un’asfissiante crisi economica, con una inflazione galoppante che aliena le simpatie al presidente in carica: cosa ha in tasca, oltre che in testa, Erdogan per evitare di portare al voto un Paese in ginocchio?
Nelle tasche di Erdogan
La risposta può essere quantificata in 25 miliardi di dollari. Si tratta di prestiti già assicurati alla Turchia dal Qatar, antico alleato di Erdogan, per un totale di dieci miliardi. Un analogo importo gli è stato garantito dagli Emirati Arabi Uniti, altri 5 miliardi dall’Arabia Saudita: ossia proprio dai nemici storici del Qatar e, sino a ieri, della stessa Turchia.
Ovviamente si tratta di prestiti a tasso agevolato, pur sempre prestiti da restituire. Ma nelle condizioni in cui versa la Turchia è indiscutibile che “a caval prestato non si possa guardare in bocca”.
L’ingresso dell’Arabia Saudita tra i sovvenzionatori fa sperare ad Erdogan che presto arrivi l’incontro con l’egiziano al-Sisi, satellite saudita. Economicamente l’Egitto sta pure peggio della Turchia, ma, probabilmente, quel Paese costituisce un mercato importante per l’export turco e soprattutto un simbolo di assoluto rilievo politico.
Ai tempi in cui Erdogan si ergeva a smanioso Califfo dell’Islam politico e quindi leader della Fratellanza Musulmana, con l’appoggio economico del Qatar, voleva apparire l’erede del presidente egiziano Morsi, rovesciato dal golpe di al-Sisi. Un incontro con al-Sisi segnerebbe quindi – agli occhi di molti turchi e non solo – il ritorno in società del nuovo Erdogan, un leader internazionale capace di ricostruire buone relazioni, se non con tutti, con molti.
Per un pezzo di Siria
Eccoci, dunque, a cosa abbia in testa Erdogan. È noto che il leader turco – diversi autori l’hanno scritto su queste pagine -, ben prima dell’attentato terroristico verificatosi ad Istanbul il 14 novembre scorso e di cui il leader ha attribuito la paternità alle cellule del Pkk basate in Siria, abbia annunciato al mondo la volontà di occupare una striscia di territorio siriano confinante con quello turco profonda circa 30 chilometri.
Il piano di occupazione è pronto da tempo, annunciato e preceduto da infiniti attacchi ai centri abitati e alle basi militari dei curdi, sino a sfiorare persino le basi militari degli Stati Uniti, alleati dei curdi: questi ultimi, in quella parte della Siria, hanno di fatto acquisito una quasi autonomia o autogoverno, sostenuto appunto da Washington e dall’alleanza anti-Isis.
Fonti molto vicine ad Erdogan, lasciando intendere che qualcosa sta bollendo in pentola, hanno ammesso, per la prima volta, che la situazione siriana è assai atipica: quel territorio è sottoposto a tre autorità, ossia a quella siriana – nella cosiddetta «Siria utile» di Bashar al-Assad che controlla i territori che ospitano le grandi città di Damasco, Homs, Hama, Latakia e Aleppo -, quella appunto curda che controlla il nord-est della Siria insieme agli americani, e quindi la fascia già da tempo sotto controllo turco, di per sé già sottoposta a misure congiunte di sicurezza, che nessuno rispetta.
La sommaria ricostruzione dell’intricato quadro serve a far capire perché Erdogan abbia indicato la disponibilità ad incontrarsi anche col suo arcinemico, al-Assad, dicendo che in politica non possono esistere i risentimenti personali.
Dopo essere stati stretti alleati – Erdogan e al-Assad – sono diventati nemici giurati nel 2011, quando il leader turco ha sostenuto la rimozione del «criminale di Damasco». Nuovo cambio di faccia?
La reazione di Damasco all’offerta turca è stata dapprima cauta: il governo siriano di Damasco parla di una sola soluzione possibile, ossia il ritorno di tutta la precedente Siria sotto il suo controllo, negando di avere interesse a fare piaceri ad Erdogan. Ma è proprio così?
Ora sembra che gli interessi possano essere contemperati. Lo indicherebbe soprattutto la visita ad Ankara del viceministro degli esteri russo, Sergey Vershinin, che recentemente ha incrementato la propria presenza militare nel nord della Siria. Difficile dire con precisione a cosa si stia lavorando.
La diplomazia di Ankara ha posto in cima alle sue preoccupazioni la stabilità dell’area, aggiungendo però che con la controparte russa si sta parlando anche di Ucraina, Libia e di questioni bilaterali.
Sembra il tavolo giusto per il dare e l’avere e colpisce che la questione dell’assetto costituzionale siriano, da tempo caduta nel dimenticatoio della diplomazia, riemerga proprio mentre si tratta anche, contestualmente, con Washington, contraria all’intervento di terra turco in Siria, ma favorevole alla soluzione della questione posta dalla Turchia ai fini dell’ingresso della Finlandia e della Svezia nella NATO.
Si sta preparando un veloce compromesso? Può essere! L’autonomia curda – inserita nella costituzione siriana – restituirebbe ad al-Assad la sua formale sovranità sulla zona, ai curdi lascerebbe una parvenza di autonomia ma limitata dal pattugliamento russo nella zona calda al confine con la Turchia che darebbe ad Erdogan la soddisfazione di aver smontato la presenza nemica ai propri confini meridionali. Resterebbero ovviamente da chiarire le modalità della presenza americana accanto ai curdi. Sono i nodi intorno ai quali possono avvenire scambi di cortesie su altri scenari.
Profughi siriani in Turchia
Resta la questione dei profughi siriani in Turchia, che tanto tormentano il candidato Erdogan. Nei suoi, veri o presunti, sogni imperiali, Erdogan li voleva nel corridoio curdo-siriano: quel corridoio di 30 chilometri che intendeva – e che ancora intende – occupare, in modo da liberarsene e farne un cuscinetto di separazione tra il fianco sud della Turchia e la zona controllata dai curdi siriani.
Nella tempesta economica che avvolge la Turchia, tre milioni di immigrati siriani sono divenuti per molti turchi un “fardello” insopportabile, un problema sociale ma anche politico, soprattutto alla vigilia del voto. Erdogan sa che l’opposizione repubblicana – nazionalista quanto lui! – ha presentato un piano di rimpatrio dei profughi in caso di vittoria: una manovra da compiersi in due anni.
Erdogan aveva accolto i siriani dalla guerra con lauta contribuzione europea – purché gli esuli non arrivassero in Europa -, quando il satrapo si atteggiava a paladino dei musulmani oppressi da al-Assad. Ma ora non può presentarsi al voto con questo fardello sul suo conto politico.
Deportazioni
Emerge proprio ora un report di Human Rights Watch che denuncia Erdogan per aver deportato, nelle ultime settimane e con la forza, centinaia di profughi siriani verso il nord della Siria. Il leader turco lo nega e assicura che il suo piano è sempre stato – e resterà – fondato sul rimpatrio volontario.
Ma tutti sanno che ciò è impossibile, sia dalla Turchia che dal Libano, perché nessun siriano ha voglia di rientrare in un Paese in cui sa di essere arrestato o giustiziato.
Il muro del silenzio consente tuttavia ad Erdogan di sostenere che dal 2016 a oggi sono già 500.000 i siriani rientrati “volontariamente” in patria. Si tratta di una tesi inverosimile. Ora e per la prima volta, emergono le conferme della deportazione forzata.
Le offre l’autorevolissimo sito al-Monitor: sotto ovvia richiesta di anonimato, un giovane ha dichiarato di aver firmato il modulo di rientro volontario dopo essere stato arrestato senza motivo e picchiato duramente al commissariato di Gazantiep, al confine tra Turchia e Siria.
Un altro giovane, che frequentava l’università di Hasan Kalyoncu, ha raccontato che sua madre è stata arrestata perché lui non era stato trovato in casa quando gli agenti erano venuti a cercarlo: accorso al Direttorato di Giustizia e quindi al Dipartimento per l’immigrazione, la madre è stata liberata mentre lui è stato arrestato e quindi deportato forzatamente.
L’autonomia curda in Siria aveva un nome, Rojava (in curdo “Occidente”): il suo punto di forza, il suo indiscutibile valore, era di non proporsi come esclusivamente curda, bensì multietnica, rispettosa della pluralità della popolazione, non soltanto curda, ma anche araba, turcomanna e altro ancora.
Strategie nebulose
Cosa ci sia precisamente nella testa di Erdogan non è ancora, secondo me, ben chiaro, ma cosa ci sia nel pensiero della coalizione occidentale anti-Isis, certamente parte di questi possibili negoziati, appare ancor più nebuloso.
A questa parte del mondo dovrebbe invece apparire ormai chiaro che la ricetta migliore per battere il terrorismo non è affidarsi ai satrapi e ai loro nazionalismi estremi, semmai è favorire la ricostruzione di Stati plurali, multietnici e multiconfessionali, magari partendo da basi federali, per sanare le ferite del passato recente e guardare al futuro.
Purtroppo, non mi sembra che questo disegno stia nella testa di alcun soggetto politico che conta, neppure l’Europa.