Nelle scorse settimane è uscito un interessante libro[1] per la piccola casa editrice Zikkaron in cui si traduce un’opera – Olocausto e Nakba. Per una nuova grammatica del trauma[2] della Columbia University Press a cura di Amos Goldberg e Bashir Bashir – che ha conosciuto diverse edizioni in inglese, in ebraico[3] ed ora conosce anche una traduzione parziale in arabo. È un testo, scritto da autori israeliani e ebrei e palestinesi, che invita a riflettere sul conflitto Israele-Palestina con la lente della ricostruzione storica e con alcuni strumenti – storici, psicologici, sociologici, letterari – tra cui quello della ‘dislocazione empatica’ che cerca di far spazio al proprio e all’altrui trauma storico. Si tratta di uno studio, certo criticabile, ma che si rivela prezioso per poter pensare diversamente i presupposti del conflitto e quindi per fornire possibili chiavi di lettura – meno violente – per il presente e il futuro. Lo presentiamo con una serie di domande ad uno dei curatori Alessandro Barchi, invitando alla lettura diretta (Fabrizio Mandreoli).
- Quale è il tentativo di questo libro?
In una intervista del 2015 rilasciata al giornale Haaretz, Bashir racconta: “Amos ed io abbiamo cercato di […] offrire un’alternativa al modo tradizionale di affrontare la questione Israele -Palestina […] e ci ostiniamo a chiamarla “nuova grammatica morale e storica” evitando di “avviarsi in un’impresa che parli di convivenza o […] di uguaglianza, spesso proposto da partiti come Meretz o i Laburisti, che preservavano [di fatto] l’asimmetria fondamentale tra ebrei e arabi”. Nell’introduzione al libro essi individuano le narrazioni della Shoah e Nakba come il campo della loro indagine per “mitigare, o comunque mettere in discussione e […] trascendere i confini binari e dicotomici che queste due narrazioni nazionali impongono alla storia, alla memoria e all’identità, per considerarle nel loro insieme”.
In altri termini, propongono “un altro registro della storia e della memoria, che onori l’unicità di ogni evento, le sue circostanze e conseguenze, le differenze, ma offra anche un quadro storico e concettuale comune, all’interno del quale possano essere trattate entrambe le narrazioni.”
E si chiedono se è “possibile offrire una lettura che non veda l’Olocausto e la Nakba unicamente come traumi e ricordi non comparabili (come è nell’impostazione dominante)”. Essi propongono così un tentativo di sintassi e una grammatica dove le due tragedie possono essere – nella loro differenza e nell’incomparabilità della Shoah – considerate interconnesse: una connessione che si dimostra istruttiva e produttiva sul piano storico, politico ed etico” (pp. 28-29).
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- Innanzitutto, chi sono Bashir Bashir e Amos Goldberg?
Bashir, palestinese israeliano, un teorico politico presso l’Open University of Israel, e Goldberg, ebreo israeliano, storico della Shoah presso l’Università Ebraica, sono entrambi ricercatori senior presso il Van Leer Jerusalem Institute. Interessante non è solo il loro background accademico, ma anche il modo in cui ciascuno di loro è arrivato a questo lavoro, che ha determinato la loro successiva carriera e prospettive.
Bashir, per esempio, compie gli studi all’Università Ebraica di Gerusalemme e alla London School of Economics, poi ottiene borse di studio post-dottorato in Canada e in Germania. Era ben avviato ad una carriera internazionale fuori di Israele, e concentrato in questioni filosofiche e teoriche come il liberalismo, la teoria democratica e il multiculturalismo, senza alcun collegamento con la Palestina.
Ma poi ha scoperto di essere “incapace di nascondere la sua rabbia […] non potevo sopportare di parlare, insegnare e ricercare la filosofia politica distaccata dal regime razzista molto brutale, coloniale e oppressivo che sperimentavo ogni volta che attraversavo l’aeroporto [Ben-Gurion] o attraversavo i checkpoint e guidavo lungo il […] muro di separazione”. Lo stesso si può dire di Goldberg, studioso dell’Olocausto, che – senza poter entrare qui nei dettagli – ha conosciuto un progressivo cambiamento di orizzonti e di significati lungo il proprio cammino di ricerca.
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- Quali sono le narrazioni che si scontrano frontalmente quando si parla di Palestina Israele?
In primo luogo la narrazione nazionalista palestinese, che si costruisce all’interno della più ampia cornice coloniale (p. 27) e che “vede il sionismo principalmente – e, nella maggior parte dei casi, esclusivamente – come insediamento coloniale, e lo stato di Israele come l’ultimo dei regimi coloniali che, a causa di circostanze storiche specifiche come la Shoah, è riuscito a sfuggire ai processi di decolonizzazione sperimentati dal resto del mondo”.
Secondo tale narrazione: “il sionismo nacque all’interno dell’errata mentalità colonialista della Dichiarazione di Balfour (1917) e ha continuato a commettere tutti i crimini dell’insediamento coloniale che tende, per sua stessa natura ed essenza, apertamente o nascostamente, consciamente o inconsciamente, a impadronirsi del territorio degli abitanti originari tramite la loro espulsione o addirittura la loro eliminazione… la Nakba è un ulteriore esempio (sebbene particolarmente protratto) dei crimini dell’insediamento coloniale europeo e la memoria della Shoah serve a rafforzare la discutibile alleanza tra il sionismo e il mondo occidentale che ha condotto all’espropriazione dei palestinesi” (p. 27).
Accanto a questa si ha la narrazione ebraica sionista, ovviamente del tutto diversa. Questa “si basa sulla meta-narrazione della Shoah, che è diventata in larga misura centrale ed egemonica dell’intero Occidente. Essa sottolinea che gli ebrei sono stati le vittime principali dei nazisti, l’incarnazione del male più orribile e radicale della storia moderna. L’uccisione di massa degli ebrei è stato il risultato più estremo dell’antisemitismo, la conseguenza della lunga storia dell’odio nei confronti degli ebrei nell’Europa cristiana […] senza eguali nella storia umana […] in questa narrazione questi eventi hanno unicamente dimostrato la necessità di uno Stato ebraico, di fatto giustificando il sionismo. Essa vede l’istituzione dello stato di Israele [come] il risarcimento del debito inevitabile e doveroso spettante alle vittime del nazismo” (pp. 27-28).
Una differente narrazione quali problemi deve affrontare?
Una nuova possibile narrazione deve affrontare almeno due grandi asimmetrie. La prima: la Shoah è un evento che si è concluso nel passato.
Ciò non significa togliere ciò che di unico ed incomparabile c’è in quell’evento “di enormi proporzioni nella storia moderna” che ha segnato Israele e il mondo intero, che è divenuto “il simbolo supremo della malvagità e della criminalità umana …e che funge da «memoria globale» e da pietra di paragone di ogni crimine contro l’umanità”. Inoltre, per “la grande maggioranza degli ebrei israeliani […] la Shoah [… giustifica la loro posizione sionista in favore di uno stato nazionale ebraico nella terra di Israele/Palestina”, per cui “qualsiasi paragone della Shoah con un altro evento, e specialmente con la Nakba, è suscettibile di essere percepito da molti ebrei e da altri come una banalizzazione riduttiva, di cattivo gusto e persino moralmente e politicamente discutibile” tanto più che “i sopravvissuti dell’Olocausto portano ancora le cicatrici di questo terribile trauma sui propri corpi e anime”.
Ciò detto però, per gli autori va anche riconosciuto che oggi “la maggior parte degli ebrei vive in condizioni storiche completamente diverse e migliori […]: Israele è uno stato ben consolidato, in possesso di armi nucleari, e gli ebrei costituiscono uno dei gruppi etnici di maggior successo negli Stati Uniti. Anche l’antisemitismo “nonostante gli oscuri avvertimenti di un «nuovo antisemitismo»” non è paragonabile “a quello di prima della Seconda guerra mondiale, almeno in Europa e negli Stati Uniti […] Gli ebrei, come individui e come gruppo organizzato in istituzioni collettive… sono ben lontani dall’essere impotenti soggetti storici, come lo erano stati durante il periodo nazista” (pp. 30-31). In tale quadro va invece ricordato che la Nakba è, per così dire, un evento che continua nella storia presente di espulsioni e sottrazioni di terra.
La seconda asimmetria consiste, a ben vedere, nel fatto che “i palestinesi non hanno alcuna responsabilità per l’Olocausto, accaduto in Europa. Al contrario, il sionismo e lo stato di Israele hanno generato gli eventi della Nakba e ne sono stati pienamente coinvolti […] hanno provocato la distruzione nazionale palestinese […] del 1947-1948, […] l’espulsione o la fuga di molti palestinesi e la creazione di 750.000 rifugiati, […] impedendone il ritorno, e ha parimenti approvato la […] confisca di tutte le terre e le proprietà abbandonate dai rifugiati (Legge sulle proprietà degli assenti e dei presenti-assenti)” ha imposto “il dominio militare dal 1948 al 1966” ai palestinesi “ che “subiscono ancor oggi discriminazioni”.
Lo stato di Israele dal 1967 […] mediante un regime di occupazione discriminatorio e opprimente priva i palestinesi della maggior parte dei loro diritti individuali e collettivi. Il sionismo e lo stato di Israele sono i primi responsabili della catastrofe dei palestinesi, della loro frammentazione e sofferenza”.
Questi eventi collocano perciò gli ebrei e i palestinesi in posizioni politiche e morali diverse, rendendo estremamente difficile dar luogo ad un dialogo congiunto ed egualitario in un contesto così asimmetrico (pp. 31-32). Inoltre, va aggiunto come per diversi per ricercatori e studiosi ebrei quali Idith Zertal, Moshe Zuckermann e Avraham Burg, il sionismo e lo stato di Israele hanno fatto, nel corso degli anni, un uso politico, spesso troppo disinvolto, della memoria della Shoah.
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- Quali gli strumenti principali utilizzati dagli autori?
Possiamo dire che gli autori a questo punto, di fronte alla situazione per certi versi ormai incancrenita in due narrazioni contrapposte che bloccano ogni tentativo di lettura diversa, propongono tre registri: culturale, storico ed etico politico.
Molto importante è quello culturale perché mostra quanto l’idea di leggere insieme Shoah e Nakba in realtà non sia del tutto nuova, come se fosse un’invenzione recente degli autori senza fondamento storico. Infatti, risulta storicamente corretto riconoscere la presenza di questa lettura lungo la storia dei due popoli, mentre è storicamente scorretto escludere questa lettura dalla storia passata, un’operazione che cancella artificialmente un pezzo della intrecciata storia culturale di questi due popoli. Anche gli altri due registri sono in realtà fondamentali.
Per esempio, attraverso il registro storico, gli autori mostrano come un altro punto di contatto fra le due tragedie sta nel fatto che tutte e due sono conseguenze del processo dell’eliminazione delle minoranze che ha caratterizzato diversi fenomeni nazionalisti estremisti e assolutistici europei a favore del progetto di uno stato nazione etnico omogeneo e intollerante. Si tratta di un processo europeo nel quale il nazismo stesso ha trovato alcune delle sue pretese giustificazioni. Tale processo ha prodotto prima la Shoah e di conseguenza la Nakba.
Qui è bene ricordare il pensiero del Rabbi Radler Feldman (conosciuto come rabbi Binyamin) e la sua scelta sionista totalmente opposta al sionismo revisionista di oggi, che voleva porsi al fianco del mondo arabo palestinese contro il colonialismo europeo. Tornando al registro culturale, gli autori mostrano attraverso esempi della letteratura, ma non solo, come tutte e due le parti abbiano autori che parlano di entrambe le tragedie e le pongano tra loro in una qualche relazione.
Alcuni autori ebrei si spingono addirittura ad applicare il linguaggio e le immagini della Shoah alla Nakba: “negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale e all’Olocausto, molti ebrei avvertirono in modo acuto il legame tra i due eventi, così vicini nel tempo e parti di un unico deposito di immagini storiche e morali […] l’immagine del rifugiato perseguitato che gli ebrei portarono con sé dall’Europa si è risvegliata per molti – sia in modo fugace e accidentale, sia consapevolmente e in modo riflessivo – in relazione ai profughi arabi del 1948 […] Un caso emblematico è quello di Golda Meir (Meyerson), uno dei leader del Yishuv tra i più interventisti. Il 6 maggio 1948, in seguito a una visita alla zona araba di Haifa, pochi giorni dopo la sua conquista, la fuga e l’espulsione della popolazione araba della città, Meir dichiarò all’esecutivo dell’Agenzia Ebraica che «c’erano case dove erano rimasti il caffè e il pane arabo sul tavolo, e non ho potuto evitare [di pensare] che questa era stata in effetti la stessa scena in molte città ebraiche [cioè in Europa durante la Seconda guerra mondiale]».
Ma Golda Meir sembra fermarsi qui, non ricavando nessuna conseguenza di ordine morale o politico. Altri autori che percepiscono la somiglianza delle due tragedie vanno oltre e ne ricavano conseguenze diverse.
“Eliezer Pra’i (in seguito Peri), curatore del quotidiano del Mapam ha scritto: «Tra i migliori dei nostri compagni si è insinuato il pensiero che forse è possibile conseguire il nostro radicamento nella terra di Israele dal punto di vista politico anche con mezzi nazi-hitleriani»” Così anche Aharon Cisling, rappresentante del Mapam “Anche gli ebrei hanno commesso atti nazisti»”. “Nel 1956, Yehoshua Radler-Feldman (R. Binyamin) … in un articolo appello immaginario dal titolo Al nostro fratello infiltrato, pubblicato sulla rivista della Associazione Ihud” utilizza il registro semantico – col quale venivano definiti “i sopravvissuti dell’Olocausto che arrivarono in Palestina dall’Europa […] “colui che ascende” – per i rifugiati palestinesi che cercavano di tornare alle loro case e villaggi”.
Bashir e Goldberg citano anche altri autori, ma basti ricordare qui soltanto Avot Yeshurun, ebreo ucraino emigrato in Palestina nel 1925, il quale nel 1958 scrive la “sua seconda opera, Hanmakah (Ragionamento), che contiene le seguenti frasi: “L’Olocausto degli ebrei d’Europa e l’Olocausto degli arabi della terra di Israele sono un unico Olocausto del popolo ebraico. Entrambi ci guardano dritto in volto. Queste sono le mie parole”.
Non sono mai state scritte in ebraico parole più potenti su questo argomento. Come hanno dimostrato Hannan Hever e Michael Gluzman, la base morale della posizione di Yeshurun era di un profondo impegno empatico, che egli considerava espressione dell’etica ebraica diasporica tradizionale.
Tra gli intellettuali palestinesi Bashir e Goldberg ricordano alcuni autori degli anni ’60: “Rashid Hussein (1963) si occupa proprio del dialogo tra l’Olocausto e la Nakba. Ma l’esempio più famoso è costituito dal romanzo Ritorno a Haifa (1969), di Ghassan Kanafani – uno dei più eminenti intellettuali palestinesi – che accomuna una famiglia di sopravvissuti all’Olocausto e una famiglia di rifugiati palestinesi […] Il racconto giunge a un vicolo cieco e termina con il padre, Said, che afferma che la situazione può essere risolta solo con la guerra ed esprime la speranza che l’altro suo figlio entri nei ranghi del movimento di liberazione palestinese”.
Altri autori importanti ricordati sono Mahmoud Darwish, Susan Abulhawa, Rabai al-Mahdoun. Elias Khoury, ed infine Edward Said. Quest’ultimo “coglie appieno la complessità della connessione fra le due storie e la trama intrecciata delle due memorie traumatiche, arrivando addirittura a suggerire un approccio che ci consente di andare oltre l’inevitabilità della violenza a cui è pervenuto Kanafani”.
Said, ne La questione palestinese del 1979, scrive che, da una parte i palestinesi hanno avuto a che fare con l’invasione coloniale del loro paese da parte di Israele, ma dall’altra hanno avuto a che fare con il più complesso nemico dal punto di vista etico e morale: ossia gli ebrei, con alle spalle la loro lunga storia di perseguitati, di vittime del terrore e di una violenza inaudita.
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- Alcuni punti per una prima conclusione?
Ne ricordo solo due schematicamente:
- Il libro va alla ricerca, trova e riprende pensieri del passato e riesce a formulare una “grammatica e sintassi nuova delle due tragedie”. In questo senso è sato definito un testo pioneristico. Ne consegue che per volontà dichiarata dai due autori, si pone all’inizio di un percorso e non al termine della ricerca di una narrazione nuova nella quale Shoah e Nakba non rappresentino più le narrazioni contrapposte per due nazionalismi destinati solo allo scontro e all’eliminazione dell’altro, ma possono essere percepite nella loro complessa relazione.
- Come tale, questa nuova, auspicata, narrazione si espone a critiche. Ne segnalo due. La prima, già messa in evidenza nella postfazione di Jaqueline Rose, apprezza positivamente lo sforzo di trovare le connessioni fra le due tragedie che non sfocia certo nell’equipararle, tenendole distinte, tuttavia contesta che la Shoah – a differenza della Nakba che continua – possa essere semplicemente relegata nel passato, infatti le conseguenze di quel trauma persistono a tutt’oggi nelle generazioni degli ebrei che non hanno vissuto personalmente la Shoah (pp 455-458). La seconda possibile critica al testo riguarda il sionismo che paradossalmente, non va dimenticato, per diversi autori nasce a ben vedere in ambiente cristiano, al contrario dell’antisionismo che nasce invece in ambiente ebraico (e qui trova la posizione più netta che si oppone al sionismo). Ciò detto, si dovrebbe però parlare al plurale di sionismi, in quanto non esiste un pensiero sionista unico. La discussione all’interno del mondo ebraico sionista ha, infatti, visto posizioni completamente diverse e addirittura opposte, basti pensare al sionismo di Buber (che parla di due stati), a quello di Rabbi Feldmann.
Tutto ciò mostra, solo per accenni, la grande ricchezza e profondità di pensiero che caratterizza questo volume, che speriamo possa suscitare un dibattito costruttivo di cui oggi abbiamo estremo bisogno.
Una nota. Si tratta certo di un testo molto impegnativo che sfida molti luoghi comuni e narrazioni consolidate in un momento in cui il conflitto si è fortemente riacceso.
Invitiamo, perciò, a farsi un’idea del libro attraverso una lettura attenta e, se possibile, non pregiudiziale. Invito che nasce dalla volontà di pensare le cose altrimenti visto che il modo attuale di narrare e vivere il conflitto, con le relative storie, sembra riuscire a sfociare solo in una – costantemente reiterata – escalation di violenza e morte, senza troppe prospettive di un futuro vivibile per tutti.
[1] https://www.zikkaron.com/prodotto/olocausto_nakba/
[2] https://cup.columbia.edu/book/the-holocaust-and-the-nakba/9780231182973
[3] https://www.vanleer.org.il/publication/%d7%94%d7%a9%d7%95%d7%90%d7%94-%d7%95%d7%94%d7%a0%d7%9b%d7%91%d7%94/
Dopo la diaspora del primo secolo le grandi potenze (compresa l’URSS) sponsorizzarono il ritorno del popolo di Israele nella terra che avevano dovuto lasciare diciassette secoli prima ma che nel frattempo aveva ospitato altri popoli: da qui il detto palestinese “la sposa era bella ma.. era già sposata”. L’orrore dei lager nazisti: culmine di secolari persecuzioni perpetrate nell’Europa cristiana, contribuì al successo del sionismo ma il conto lo dovette pagare il popolo Palestinese che non aveva avuto nulla a che fare con l’antisemitismo (ne con l’antigiudaismo). In linea di massima un Popolo che si vede espropriare la terra ha diritto a difenderla o a cercare di riprendersela. Le guerre perse dai palestinesi appoggiati dal mondo Arabo nel 48 e nel 67 da un lato sono la causa della nakba ma sicuramente hanno scongiurato un altro genocidio e diaspora degli Ebrei. In Medio Oriente ragioni e torti di ambo le parti hanno prodotto un grumo indistricabile! C’è veramente grande bisogno di una nuova grammatica morale e storica per trattare i fatti accaduti in Palestina nell’ultimo secolo e cercare una soluzione che escluda ogni ulteriore catastrofe.
Finalmente!