Lesbo si libera dei profughi

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Le migliaia di profughi ammassati a Lesbo non ci sono più. Sono stati deportati in altre strutture di accoglienza. Non sono più una risorsa.

Cari fratelli e sorelle,
le onde del mare a Lesbo e nelle isole greche che guardano la Turchia sembrano altissime anche quando il mare è calmo e il sole alto sopra di noi. Già… onde invisibili che rendono impossibile la partenza ancor più degli attracchi.

A Lesbo negli ultimi mesi non arriva più nessuno. Soltanto 150 persone a differenza delle migliaia dei mesi precedenti, e sempre meno quelli che possono ripartire.

In queste settimane abbiamo potuto incontrare volontari e membri di associazioni greche che sostengono i profughi, come ascoltare la storia di tanti uomini e donne che sono approdati qua da lontano e – ciò che li annienta interiormente – non sanno se e semmai potranno riprendere il viaggio verso l’Europa oppure se saranno trattenuti ancora a lungo e addirittura respinti.

Ci sono realtà di accoglienza lodevoli che vivono in uno stile di condivisione e rimozione delle cause vicino al nostro ideale comunitario, ma sono rare e in genere non fanno clamore.

Le politiche non sono affatto inclusive, soprattutto dalle ultime elezioni governative e locali, tanto che esiste un chiaro progetto di liberare completamente l’isola dai profughi ritenuti affatto, e in nessun modo, una risorsa ma la causa dell’impoverimento complessivo delle isole del nord Egeo. Così la popolazione è divisa tra chi è mosso da pietà e dunque cristianamente sostiene e si prende cura di questi fratelli, e chi invece – la prevalenza dei locali – desidera che i profughi se ne vadano qualunque sia il metodo utilizzato: il riconoscimento dell’asilo politico, il permesso di lasciare l’isola e spostarsi in Atene, la detenzione in campi sempre più restrittivi e intenzionalmente privi dei più basilari diritti al fine di giungere al respingimento nelle nazioni di origine (Siria, Afghanistan, Libano, Iraq, Eritrea, Somalia, Congo, Nigeria, Sudan…) e scoraggiare ogni eventuale nuova ondata di profughi dalla Turchia.

Le onde sono altissime anche quando il mare è calmo. E questa settimana abbiamo avuto modo di sperimentarlo. Un conto è immaginarlo. Un conto è saperlo o sentirlo raccontare. Un altro è vederlo ed esserci, sentire il grido, l’ingiustizia e tutta l’impotenza dei poveri. Un vecchietto davanti ad un bar, parlando con altri profughi, si lascia andare a queste parole: «Ma quelli non sono uomini. Sono bestie».

È il pensiero serpeggiante in mezzo a tanta parvenza di normalità e di modernità. La gente, i ragazzi, gli anziani con facilità possono pensarlo e la polizia non esita ad applicare con criterio le pratiche adatte a chi purtroppo ha smesso di essere considerato uomo, fratello, amico…

Ci hanno respinto la richiesta di entrare nel campo così non potremo farlo se non furtivamente come abbiamo fatto alcune volte ma è rischioso; è zona militare e scatta immediato l’arresto. Per due volte siamo entrati ma sarà sempre più arduo. Le restrizioni aumentano ogni giorno. Vorremmo stare lì. Lí con la gente.

Vi racconto due episodi che fanno scendere l’inverno dentro. La mente si sbilancia nella storia dei decenni passati e d’improvviso hai il dubbio di essere finito proprio là…

Giovedì esce un post che il campo di Pikpa sarà evacuato immediatamente. A Pikpa ci sono i più vulnerabili (disabili, ammalati, minoranze discriminate, famiglie perseguitate, ammalati, omosessuali) e funziona bene: un villaggio di casette di legno dove la convivenza ha il sapore della fraternità; dove i greci e i profughi sono molto integrati. Si respira famiglia. Per questo dev’essere chiuso.

Arriviamo al campo. I militari hanno occupato l’area e, a ore, l’ordine di evacuazione, la “deportazione” (non viene un termine diverso). Nel frattempo una famiglia curda-irachena ci invita nella capanna dove vivono in 9. Da cinque anni sono profughi, tre dei quali a Lesbo con due richieste di asilo respinte. Perché? Come si fa?

Ci fanno entrare. A terra ci sediamo attorno ad una tavola imbandita – nonostante i militari alle porte – a festa. Tanta dignità. Tristezza e sorrisi. Dolore, stanchezza e resa. Mitezza e grande dignità. Sembra – ed è così – di essere durante l’ultima cena. Col Maestro, all’ultima cena. Pane fatto in casa, ceci e fagioli, benedetti e donati. Che cosa grande!

Quando usciamo, i militari erano andati via per tornare all’indomani. Sono le sette del mattino e arrivano tutti lì. Poliziotti, militari, sanitari, tenute antisommossa e anticovid. Strade sbarrate. Volontari, giornalisti e noi lontani, tenuti lontani. È l’alba quando bussano «dieci minuti per preparare tutto e andare. Vedrete vi aspetta un posto migliore».

L’inganno. Alle dodici, su pullman di linea riservati, sono deportati tutti 80. Scortati da volanti e camion militari dove i bagagli sono stati stipati. Destinazione Keratepe. Keratepe Refugees Camp.

L’inganno è consumato tra le lacrime di questa povera gente, la durezza dei militari, il silenzio dei volontari, l’indifferenza della città… poi, il giorno successivo. passando davanti al campo di Keratepe si vedono centinaia di persone ammassate ai cancelli di entrata. Non una rivolta in atto o un tentativo massivo di fuga, ma – grazie a Dio – la partenza dall’isola di chi ha ricevuto l’asilo.

Sorrisi amari. Abbracci commossi. C’è chi parte e i più che restano qui. I pullman lasciano il campo verso il porto e la nave. La polizia mi urla. La distanza era troppo poca tra me è loro, ma la scena era troppo bella per non essere lì.

Verso sera, la nave con 350 di loro se ne va! Li ho visti scrollarsi la polvere dai piedi prima di salirci su! Le onde sembrano essersi abbassate, sabato sera e almeno per un po’, un po’ come in quella notte lontana che il mare fece spazio agli assetati di libertà, che l’Egitto umiliò. Dio – sì, Dio – li liberò e, davanti, la promessa di una terra ricca di latte, miele e prosperità. Una promessa che si rinnova e chissà quanto tempo ancora a questa gente per approdarci davvero le mancherà!

Luca MorigiPadre Luca Morigi, già della famiglia francescana dei Frati minori conventuali, è ora presbitero della Chiesa bolognese. Appartenente all’Associazione Papa Giovanni XXIII, presta la sua opera come volontario del carcere. Rimarrà in Grecia fino a Natale.

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