Di recente il Libano è tornato alla ribalta sui media internazionali a causa della gravissima crisi economico-finanziaria che da quasi due anni attraversa il Paese. Eppure la resilienza del popolo libanese, antichissimo mosaico di fedi, confessioni e culture, stupisce anche in questa difficile congiuntura storica.
Per tornare alle origini di questo popolo così variegato e illuminarne un pezzetto di storia, quella della presenza cattolica, facciamo rotta verso Saïda, terza città del Libano a 40 km a sud-est di Beirut. A Saïda, l’antica Sidone, c’è una comunità Greco-Cattolica che costituisce una minoranza, assieme alla Cattolica Maronita e alla Cristiana Ortodossa, in un ambiente a prevalenza islamica sunnita, in minor parte sciita e drusa, a seconda delle località. Per contro, in alcune località limitrofe, come ad esempio Jezzine, una minoranza musulmana vive assieme alla maggioranza cristiana. La diocesi Greco-Cattolica Melchita di Saïda e Deir el Qamar ha un territorio che si estende per 1.300 kmq.
La comunità cristiana di Saïda risale alle origini stesse del cristianesimo: Cristo stesso «si diresse verso le parti di Tiro e Sidone» dove operò un miracolo per la donna cananea che aveva la figlia «crudelmente tormentata da un demonio» (Mt 15,21-28). Sulla strada da Gerusalemme a Roma, san Paolo fece una sosta di diversi giorni a Sidone, dove fu accolto dagli amici della comunità cristiana locale (At 27,3).
Incontriamo Élie Béchara Haddad, vescovo della diocesi di Saïda e Deir el Qamar e amministratore apostolico di Tiro, dove la sede episcopale è attualmente vacante. Nato nel 1960 e ordinato sacerdote nel 1986, monsignor Haddad ha conseguito il baccellierato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma e ha studiato diritto canonico e diritto civile presso l’Università Lateranense, conseguendo la laurea e il dottorato in utriusque iuris”. Dopo vari incarichi in seno alla Chiesa Greco-Cattolica, monsignor Haddad è stato consacrato vescovo il 24 marzo 2007 dal patriarca Gregorios III Laham (E. G.).
- Eccellenza, quanto sono cambiate le cose nella diocesi dal suo insediamento dal 2007 ad oggi?
Quando sono arrivato a Saïda, i cristiani stavano cominciando a tornare in diocesi dopo anni di allontanamento in seguito alla cosiddetta Guerra della montagna, un conflitto tra cristiani e musulmani drusi che interessò il distretto del Chouf nel 1982/1983.
Storicamente, le relazioni fra cristiani e non cristiani erano state complessivamente buone fino ad allora; in seguito a questo conflitto i cristiani abbandonarono la diocesi. I fedeli greco-cattolici erano circa 60.000 prima del 1982; in seguito, il 90% di loro fu completamente sradicato dalla regione in più ondate, dal 1982 al 1986. Molti si rifugiarono a Beirut o nelle zone di confine del Sud, alcuni emigrarono in Canada, in Australia o altrove. Quando gli ultimi cristiani fuggirono, le loro abitazioni vennero rase al suolo o occupate dalla popolazione di fede drusa.
Dopo la riconciliazione tra cristiani e drusi, a cui contribuì l’incontro nel 2001 tra il patriarca della Chiesa cattolica maronita card. Boutros Sfeir e il leader Druso Walid Jumblatt, iniziò il ritorno dei cristiani in diocesi: oggi, i villaggi di Saïda-est e Maghdouché sono ripopolati quasi al 100% e la regione del Chouf si ripopola progressivamente.
Al mio arrivo, ho continuato l’opera di ricostruzione avviata dal mio predecessore, Georges Kwaiter, vescovo della diocesi dal 1987 al 2006. Capii subito che la cosa difficile sarebbe stata non tanto ricostruire la pietra distrutta, quanto i cuori feriti dalla guerra civile: ricostruire la pietra era facile, ma sanare la diffidenza e il rancore tra le persone si rivelò molto faticoso.
Abbiamo dato vita ad alcuni gruppi misti di dialogo cristiano-musulmani, appoggiati al Centro di studi islamocristiani dell’Université Saint-Joseph, l’Università dei Gesuiti di Beirut che ha una sede anche a Saïda. Non è facile, ma stiamo continuando a portarli avanti. A mio avviso, il cosiddetto integralismo nasce dalla paura dell’altro, è un atto di autoprotezione psichica dall’altro. Quando la regione era controllata da Daesh non potevamo salutarci né parlarci, ora abbiamo ricominciato a darci il buongiorno, a farci visita gli uni gli altri, cristiani e musulmani.
Per quanto riguarda l’aiuto materiale alla popolazione, in diocesi abbiamo fondato una ONG, Ardy lel tanmiya (Nostra terra per lo sviluppo), per ottenere aiuti per la gente dalle ONG internazionali tramite un canale laico. Nella nostra ONG lavorano sia persone di fede cristiana che musulmana.
Riceviamo anche molti aiuti da organismi religiosi cattolici, in primis da ROACO, la Congregazione per le Chiese Orientali con sede in Vaticano, e poi da organismi come Caritas e Aiuto alla Chiesa che soffre, e da associazioni libanesi come Annas Linnas (La gente per la gente). Come si può vedere, organismi laici e religiosi si completano nell’aiuto alla popolazione bisognosa.
- Gli aiuti sono necessari a maggior ragione perché dal 2019 ad oggi in Libano è in atto una terribile crisi economica che, assieme alla pesante svalutazione monetaria, spinge i libanesi ad emigrare nuovamente, stavolta per cercare lavoro fuori. Come vanno le cose a questo proposito nella sua diocesi?
Qui in diocesi l’età media è alta, le famiglie sono composte in buona parte da persone in pensione. I giovani emigrano per poi tornare nell’età della pensione, perché qui si vive bene, il clima è buono, si vive con poco.
I giovani storicamente sono sempre emigrati, vanno e vengono a seconda delle occasioni, è un fenomeno fisiologico qui. Chi vive a Beirut non manca di tornare nel fine settimana, fatto salvo il periodo particolare che stiamo vivendo ora a causa della pandemia, che ha coinvolto anche il Libano.
- A proposito di pandemia, qual è la sua opinione in merito? In particolare, qual è il suo pensiero riguardo ai vaccini, di cui si sta discutendo molto attualmente?
La pandemia è una grande prova, ma ha un risvolto positivo, in quanto ci aiuta ad abbandonare l’individualismo e ad essere altruisti, a pensare non solo al nostro bene ma a quello degli altri: in questo senso il vaccino è una cosa buona, nel senso di premura e protezione dell’altro.
Se Gesù fosse qui ora, inviterebbe a vaccinarsi proprio per rispetto nei confronti dell’altro. D’altro canto, la pandemia ha anche la funzione di aiutarci ad affrontare la morte, che noi cristiani sappiamo essere un passaggio, invece che a rimuoverla, com’è ormai uso fare.
interessante