Il Libano e la crisi del khomeinismo

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Il giornale di Hezbollah dopo il cessate il fuoco in Libano ha intitolato: “Forti. Vittoriosi”. Questo titolo è molto grave, soprattutto leggendolo con gli occhi di chi, gli sciiti libanesi che hanno creduto in Hezbollah come arma del loro riscatto dopo tante discriminazioni, hanno perso tutto.

Hanno perso la casa, hanno perso un parente, hanno perso la terra, hanno perso letteralmente tutto. E il loro giornale intitola “Forti. Vittoriosi”.

Tanti commenti vengono fatti in queste ore, ma la verità nuda e cruda sembra essere che in due mesi è entrato in crisi il khomeinismo all’estero, dopo esserlo stato da tempo in Iran.

L’esportazione della rivoluzione iraniana, il mantra della conquista del mondo arabo da parte degli eredi dell’impero persiano rivestiti da teocratici esportatori del governo khomeinista, è andato  in difficoltà e non trova prospettive. È illusorio pensare che Tehran possa ricostruire Hezbollah, l’ala marciante della rivoluzione iraniana.

Questo è impossibile. Richiederebbe miliardi e miliardi di dollari che un Paese alle corde non può avere, soprattutto con Trump alle porte.

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Per il mondo arabo e islamico è finita un’epoca, questo non è un fatto libanese, è un fatto regionale. È l’ora dunque di una nuova proposta, che dia uno sbocco politico a centinaia di milioni di arabi.

A questo riguardo è interessante notare che mentre il giornale di Hezbollah intitolava così, il più importante giornale saudita di lingua inglese, Arab News, apriva con un titolo cubitale: il re inaugura il progetto di metropolitana di Riad.

Riad ha i soldi, ha vinto la sfida con l’Iran e può trattare la resa con l’ex nemico per limitare i danni di una possibile instabilità futura, ma non sembra avere idea di cosa dire per ciò che attiene alla politica, all’identità araba, al futuro. L’orizzonte resta nella metropolitana?

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Per capire meglio cosa manca, dobbiamo tornare ai giorni, non molto lontani ma completamente dimenticati, della visita a Beirut del Segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin.

Come tutti sanno il 27 novembre 2024 si è conclusa la pesantissima guerra totale tra Israele ed Hezbollah, il cui inizio come guerra totale viene posto a quel 27 settembre 2024 quando un raid israeliano distrusse il bunker di Hasan Nasrallah, eliminando lui e gran parte del vertice militare del suo partito.

In questi due mesi sarebbero stati colpiti dai bombardamenti, secondo la stampa libanese, 100mila palazzi, sarebbero morti 3500 libanesi, 1milione e 500mila cittadini – soprattutto di Beirut sud e del Libano meridionale – risultano sfollati. Nessuno al momento può dire quanti studenti libanesi possano frequentare l’anno scolastico appena cominciato.

La via d’uscita dalla guerra è stata un accordo che prevede un complesso e vasto meccanismo per mettere in atto quanto previsto dalla risoluzione 1701 delle Nazioni Unite, votata nel 2006, che prevedeva il ritiro di ogni miliziano e di ogni arma ad esclusione di quelle dell’esercito a 30 chilometri dal confine tra Israele e Libano, lì dove scorre il fiume Litani.

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Il Segretario di Stato Vaticano card. Parolin ha visitato Beirut dal 23 al 27 giugno 2024, dunque un arco molto, molto lungo di tempo, inconsuetamente lungo. Neanche l’inviato della Casa Bianca, Amos Hochstein, ha mai fatto una tappa così lunga a Beirut.

Nel secondo giorno del suo soggiorno, su iniziativa del Patriarcato maronita, è stato convocato un simposio interreligioso con i principali leader religiosi e politici del Paese. Nell’invito veniva ricordata l’importanza dell’applicazione delle risoluzioni dell’ONU sul Libano, con particolare riferimento all’ultima: la 1701.

La principale autorità della comunità religiosa sciita annunciava subito il suo forfait. Emanazione di Hezbollah, non apprezzava il riferimento all’ONU e le sue risoluzioni. Ma non è tutto.

Nessuno dei principali leader cristiani, né quelli contrari alla risoluzione dell’ONU, come ad esempio il capo del partito Aounista Gebran Bassil, né quelli favorevoli, si sono presentati. Tutta la galassia politica, cristiana in particolare, ha preferito inviare un rappresentante di minor livello.

Perché c’erano i propri giochi elettorali, le proprie alleanze in vista dell’elezione del nuovo presidente, che come è noto per vecchio patto deve essere un cristiano.

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Così si è persa l’occasione per unire le voci cristiane in favore di una risoluzione, la 1701, che oggi, mesi dopo, viene riesumata dal mondo per salvare quel che resta del Libano. Il non stupido negoziatore libanese, Nabih Berri, ha evitato il fracasso che avrebbe consentito solo a Israele di colpire dopo il cessate il fuoco sulla base di un documento bilaterale firmato con gli americani, riuscendo a ottenere che nel testo del cessate il fuoco venisse aggiunto che ognuno può reagire se aggredito.

È un fatto, ma anche  una piccola cosa. La sostanza è che nessuno ha una proposta per passare dall’epoca dello scontro militare, con un nemico troppo più forte come l’alleanza israelo-statunitense, ad un confronto politico, ossia quello delle idee. Che latitano. Ed è qui che il Libano avrebbe un ruolo da svolgere se avesse un ceto politico. Quello che, a modo mio, ho visto nella visita del cardinale Parolin. A quale Libano dedicava tanto tempo?

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Il Libano per mezzo secolo, fino al 1975, è stato il solo Paese arabo dove il nazionalismo non si è ammalato gravemente. Cristiani e musulmani insieme hanno prima respinto il colonialismo francese che voleva farne uno Stato per soli cristiani, poi hanno elaborato un sistema debole, non autoritario, un sistema fragile, come la libertà e la democrazia, nel quale comunque ognuno, ogni comunità aveva un ruolo accanto alle altre: è stato definito  il confessionalismo libanese.

Debole, brutto, lottizzatorio, ma invidiabile se posto al confronto del golpismo totalitario che ha preso l’Egitto con Nasser, la Libia con Gheddafi, la Siria con Assad, l’Iraq con Saddam.

Il problema del sistema libanese stava nel fatto che avrebbe dovuto saper dire che lottizzando le supreme magistrature repubblicane, dando ai cristiani il Presidente della Repubblica, ai sunniti il Presidente del Consiglio e agli sciiti il Presidente della Camera, non cancellava le differenze, vera causa di tante violenze, ma le esaltava, impedendo così che ognuno, senza più i vecchi riferimenti si scagliasse contro l’altro.

È questo il messaggio che il Libano ha portato per decenni a tutto il mondo: le differenze sono una ricchezza! Se si pensa a tanti conflitti in corso si capisce quanto il messaggio sia importante.

Ora però questo confessionalismo libanese ha mostrato la corda, arrivando a lottizzare anche gli uscieri dei ministeri. Dunque occorre aggiungere un nuovo propellente, portare il mondo arabo a riconoscere l’individuo senza voltare le spalle alle comunità.

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Alla ricerca di un loro rapporto con la modernità, gli arabi sanno che l’individuo nella loro cultura non c’è, non esiste. Neanche nella lingua esiste questo vocabolo, che si può dire solo con l’espressione “uno di una coppia”. Ora non si tratta di diventare individualisti, ma di mettere insieme il desiderio dei giovani di essere riconosciuti come singoli, con la cultura che si basa sulla tribù, o se si preferisce, sulla comunità.

Questo sistema è previsto dalla Costituzione Libanese, che già parla della possibilità di votare come si vota oggi, su base confessionale, ma per il Senato; mentre si voterebbe su base individuale, come votiamo noi, alla Camera. Così al Senato ci sarebbero i candidati maroniti, sunniti, sciiti e così via. Mentre alla Camera ci sarebbero i candidati socialisti, liberali, conservatori, reazionari, radicali e così via.

Il Senato impedirebbe di discriminare una comunità, la Camera farebbe esprimere gli individui, dando a loro i loro diritti. E per la prima volta nella storia araba ci sarebbero partiti interconfessionali, dove cristiani e musulmani diverrebbero “compagni” rispetto ad altri della loro comunità ma di diversa idea politica. Una vera rivoluzione.

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È così che il Libano tornerebbe a essere nel nuovo millennio ciò che è stato nell’Ottocento, un fattore di rivoluzione sociale, culturale, che saprebbe parlare col mondo e ricostruire il rapporto arabo con il mondo. Questa novità uscirebbe come una forza capace di avviare una rivoluzione di segno opposto a quello khomeinista, ma molto più forte di quella. Così facendo il mondo arabo diverrebbe il mondo delle diversità compatibili, un mondo pluralista.

È questo il modello che serve, la capacità di vivere insieme, stabilendo legami. È questo il messaggio che il Libano ha incarnato per un secolo e che Giovanni Paolo II aveva colto, tra i pochi, definendo il Libano un messaggio. E aveva ragione.

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2 Commenti

  1. Ernesto 29 novembre 2024
  2. Antoine Courban 29 novembre 2024

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