Maroun Al Ras, Sud Libano 22 ottobre
A due settimane dallo scoppio del conflitto tra Israele e Hamas, mentre incombe lo spettro dell’attacco israeliano via terra su Gaza e la milizia Palestinese rilascia i primi ostaggi, nei paesi sul confine con Israele regna il silenzio. Gli scontri tra miliziani di Hezbollah e soldati della Idf israeliana che si susseguono dall’inizio del conflitto attraverso la “Blue Line”, la linea di demarcazione stabilita dall’ONU tra i due Paesi, ad oggi hanno provocato alcune decine di vittime tra miliziani, soldati, alcuni civili fra cui un giornalista libanese.
Nel timore che i reciproci lanci di missili, razzi e droni attraverso il confine si trasformino in guerra aperta, e dunque nell’accensione di un nuovo fronte, migliaia di famiglie sono sfollate dal sud del Libano verso località meno esposte; le scuole sono chiuse da ormai dieci giorni. Anche dal lato israeliano interi villaggi sono stati evacuati, e chi ha deciso di restare passa le giornate nei rifugi antiaerei per paura di attacchi dal Libano.
Nella giornata di ieri la città di Kiryat Shmona, 22.000 abitanti, è stata evacuata, anche se molti dei residenti se n’erano andati prima. L’esercito israeliano ha completamente isolato la zona di confine e lo stesso ha fatto la sua controparte libanese: i soldati in forza ai checkpoint di Naqoura e Kafra, a sud di Tiro, capitale della regione Sud, sbarrano l’accesso all’area e rimandano indietro chiunque non abbia un lasciapassare dell’Esercito.
Assieme ad un collega francese ho appuntamento di primo mattino in un caffè di Tiro con un ex militante di Hezbollah. Da tempo ha lasciato la formazione per costruirsi una carriera ed una famiglia lontano da qui, conosce le lingue, ha viaggiato all’estero. Grazie alla sua conoscenza dei luoghi ed al suo minivan, mezzo di trasporto comunissimo in Libano, raggiungiamo i villaggi di confine senza che nessuno si accorga del nostro passaggio.
Attraversiamo Hariss, Tebnine, Yaroun, Bint Jbeil, ed ovunque si ripete la stessa scena: le strade sono vuote ed in giro non si vede nessuno. Arriviamo finalmente a Maroun Al Ras, fortino di Hezbollah in cima ad una collina a circa un chilometro dal confine, che offre una vista molto ampia sulla Blue Line e sul territorio israeliano.
Il villaggio è stato teatro di diversi scontri nei giorni scorsi. Secondo fonti interne, cinque miliziani di Hezbollah sono stati uccisi da un attacco israeliano lo scorso 17 ottobre; la notte successiva, un missile dell’IDF ha distrutto una statua del generale iraniano Qasem Soleimani nell’Iran Garden, un parco pubblico finanziato dall’Iran e simbolo dell’influenza iraniana sulla regione. La statua era stata eretta in onore di Soleimani, comandante delle milizie iraniane di Al Quds ucciso da un drone americano nel 2020, e la sua distruzione ha un alto valore simbolico per Israele.
A Maroun al Ras apparentemente tutto tace: nel silenzio surreale c’è solo un uomo che pascola le capre in cima alla collina, con cui il nostro “wasta” (letteralmente contatto, gancio, figura essenziale della società libanese) scambia qualche parola. Intanto alle nostre spalle si palesa un uomo che in perfetto inglese e con grande cortesia ci chiede cosa stiamo facendo: il nostro wasta ci avverte che si tratta di un ufficiale di Hezbollah rimasto a sorvegliare la zona.
Dopo uno scambio di formalità, gli chiedo se ha paura a rimanere lì, se non preferirebbe piuttosto lasciare il villaggio. “Paura? Noi siamo lieti, siamo orgogliosi di restare qui. Sono loro (gli israeliani) a dover aver paura, noi da qui non ci muoveremo.” E se si dovesse arrivare ad una guerra aperta, non preferirebbe andarsene con sua moglie ed i suoi figli? insisto. “Mai! Resteremo qui, e che Dio ci aiuti.” Con delicatezza il nostro wasta ci fa capire che il tempo a nostra disposizione nel villaggio è finito, e che è ora di tornare a Tiro.
Ritroviamo la città come l’avevamo lasciata, piena di vita, suoni e colori, in contrasto con l’atmosfera spettrale dei paesi lungo il confine. La vita sembra andare avanti come se nulla fosse, anche se sottotraccia si nota qualcosa di diverso: sono spariti gli stranieri, qui numerosi anche grazie alla base di Unifil, il corpo di peacekeeping dell’ONU che ha in carico la sorveglianza del confine tra i due Paesi.
Per il timore di attentati e dell’apertura del temuto nuovo fronte di guerra, Stati Uniti, Uk, Australia, Arabia Saudita hanno chiesto in settimana ai loro cittadini presenti sul territorio di lasciare il Paese; ottocento lavoratori filippini impiegati nei bananeti intorno a Tiro sono stati richiamati in patria. A parte questo particolare, la città segue i suoi ritmi abituali: si attendono notizie, si fuma, si beve caffè, ci si dedica alle occupazioni quotidiane.
Frattanto, nella giornata di oggi il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha invitato al Cairo i premier di diversi Paesi in un tentativo di mediazione e pacificazione; anche Meloni è attesa. Sempre dall’Egitto, dal varco di Rafah, aperto per 48 ore, stanno entrando a Gaza i primi convogli di aiuti umanitari coordinati da Red Crescent, la Mezzaluna Rossa.