Non sembra che il Libano voglia fermarsi dinnanzi al mancato assenso della comunità internazionale rispetto a quanto ha già programmato, ossia il rientro in Siria di 15.000 profughi ogni mese, dal milione e mezzo totale.
Il loro rientro in patria è considerato in sicurezza: secondo il governo libanese, infatti, i siriani – fuggiti durante 10 anni di guerra – possono tranquillamente ritornare nelle braccia dello stesso regime di Bashar al-Assad, che li ha indotti alla fuga.
Non altrettanto ritiene, appunto, la comunità internazionale, ovvero le competenti autorità in sede ONU che, a tutt’oggi, non hanno fornito alcun disco verde al piano elaborato da Beirut.
Il presidente e le elezioni
Il presidente della Repubblica – l’ex generale Michel Aoun – ha tuttavia fretta di procedere con quanto si configura come un rimpatrio forzato, propiziato dall’ottima interlocuzione col regime siriano. Il 16 agosto Aoun ha convocato al palazzo presidenziale i ministri della partita per iniziare a realizzare il progetto, reso, a suo dire, necessario dalla drammatica crisi economica in cui il ceto politico ha fatto sprofondare il Paese.
Mentre il Libano, dunque, non riesce a liberarsi della casta politica che mal-governa da moltissimi anni, deve mostrare di potersi liberare di qualcosa, ossia dei poveri profughi, considerati un fardello enorme per un Paese di cinque milioni di abitanti, già messi sul lastrico dalla interminabile e non governata crisi economica.
L’ex generale Aoun è pronto a passare, giocoforza, la mano nell’imminente scadenza del suo mandato presidenziale e, forte della alleanza con i khomeinisti di Hezbollah – principali sostenitori di Assad dall’inizio della guerra siriana -, conta di poter recuperare popolarità proprio con la deportazione forzata dei profughi.
Il disastro economico
Il Libano è effettivamente piegato da un disfacimento economico che ha distrutto i ceti medi, la valuta nazionale, il sistema bancario, quello scolastico, quello turistico. Chi ha governato ha lasciato il Paese senza approvvigionamento energetico, al buio, nel caldo torrido.
L’unica cosa che funziona sono i traffici illegali – fiorenti – di armi e di droga. In questa situazione presentare i profughi come ospiti impossibili è facile. Per loro – assicurano i fautori del rimpatrio forzato – non c’è più alcun problema di sicurezza nel rientrare in Siria, visto che le ostilità belliche sarebbero cessate e la loro patria – la Siria appunto – è pronta a riprenderli.
Se così fosse davvero, non si capirebbe per quale motivo i profughi vorrebbero restare nel moribondo Libano, ove, peraltro, non sono mancati pure casi di vessazione e addirittura di tortura, come ha dimostrato un agghiacciante filmato finito sul web e diffuso in tutto il Paese, tempo fa. Certo, il problema sociale c’è ed è evidente, posto lo spazio dilagante lasciato alla illegalità ed ai traffici criminali, ovunque.
Ma la prossima partita elettorale – l’elezione parlamentare del nuovo Presidente della Repubblica – è troppo importante: il generale Aoun sa di arrivare fiaccato dalla recente, cocente, sconfitta elettorale già subita dal suo partito, col voto penalizzante di una larga parte della base cristiana, a cui Aoun e il suo partito fanno riferimento.
Uso elettorale dei profughi siriani
Mi viene da pensare, allora, che l’obiettivo non sia tanto quello di realizzare puntualmente il piano di espulsione forzata – cosa che senza il consenso internazionale appare oggi improbabile in un Paese così indebolito -, bensì di dimostrare al popolo stremato da errori macroscopici, di cui proprio Aoun è tra i principali responsabili proprio per voce di tanti cristiani libanesi, che il presidente è forte ed è ancora in sintonia coi loro pensieri.
In realtà Aoun è ai ferri cortissimi con il patriarca maronita – il cardinale Beshara Rai -, che contesta con crescente veemenza la linea di appiattimento del presidente ai voleri di Hezbollah e quindi alle ingerenze iraniane.
L’ex generale sa che neppure il patriarca può schierarsi dalla parte dei profughi siriani. Il Libano non solo vive di miseria oggettiva, ma anche dell’eterna paura di un mutamento dei rapporti numerici tra le comunità: i tantissimi profughi siriani sono quasi tutti musulmani di rito sunnita ed alimentano spettri profondamente libanesi che al patriarcato conoscono e storicamente sentono propri.
La Russia
Nelle pieghe di questo discorso interno al Libano, entrano le intenzioni forti di chi se ne infischia anche della comunità internazionale e dei suoi organismi e li manipola.
Così la Russia: ha recentemente tentato di imporre la chiusura anche dell’ultimo corridoio che ancora porta indispensabili aiuti umanitari ai profughi siriani ammassati come sardine nella provincia siriana di Idlib, nell’estremo nord del paese, al confine con la Turchia.
Ricordo che queste persone sono state là deportate dal regime di al-Assad, man mano che veniva riconquistato il terreno attorno a Damasco, col sostegno di Hezbollah: la popolazione non gradita non ha potuto restare o tornare alle proprie case, ed è rimasta schiacciata sul confine con quella Turchia che da anni non fa passare neppure un bambino non accompagnato.
Per Mosca anche quel corridoio andava chiuso. Secondo la diplomazia russa, a prendersi cura degli sfollati deve essere infatti chi li ha deportati, cioè Damasco. E in effetti la legge internazionale prevederebbe proprio ciò che sostiene Mosca: l’aiuto internazionale deve andare alla Siria.
La comunità internazionale – ahinoi! – non ha disconosciuto il regime siriano: quindi il regime siriano dovrebbe aiutare i siriani, con l’aiuto della comunità internazionale; gli aiuti andrebbero consegnati a Damasco, non fatti pervenire, via terra, direttamente a Idlib.
Appare ora curioso che chi ha bombardato le case di una buona parte del proprio Paese per riconquistarne il controllo, aiuti i sopravvissuti che si trovavano in quelle case. Ma ecco che Mosca – invocando il diritto internazionale – esige lo stop degli aiuti via terra, in arrivo a Idlib dalla base ONU in Turchia.
Le astensioni
Giunto l’ultimo giorno utile di discussione degli organismi internazionali, Mosca ha tuttavia ceduto, mostrando di voler collaborare con Norvegia e Irlanda, ad una proposta di risoluzione che è stata approvata con 12 voti a favore e 3 astenuti: la risoluzione 2642, della quale è interessante notare come sia passata con l’astensione dei tre Paesi che avevano per giunta proposto l’ampliamento del corridoio di aiuti attraverso la Turchia: Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Per quale ragione?
Viene da pensare ai difficili rapporti dei tre Paesi con Mosca, ma probabilmente non è così. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti non sono proprio d’accordo con ciò che il testo prevede: questo considera la Siria ancora un Paese unico e sovrano, urgentemente necessitante aiuto, sia sanitario che umanitario. Si è insinuata – anche all’Onu – evidentemente una domanda: aiutare i siriani è – sì – urgente, ma per continuare a sostenere il sistema dispotico gestito dalla famiglia di al-Assad?
Per la Russia è proprio così che devono andare le cose, posto che il suo rappresentante ONU, in sede di discussione, ha detto: “Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna devono imparare a rispettare gli interessi di altri Stati”. Il riferimento, nel caso, è agli interessi della Siria, ovviamente identificata con la giunta di al-Assad, famosa per documentati casi di corruzione, pure proprio nell’aggiotaggio di aiuti umanitari.
Il destino dei profughi siriani
L’ambasciatore russo non ha chiarito se l’invocato rispetto degli interessi di “altri Stati sovrani” debba valere anche per l’Ucraina.
Ciò che appare evidente è che la sopravvivenza di due milioni di siriani nella regione di Idlib – privi di altre fonti di sopravvivenza che non siano gli aiuti internazionali – è stata tenuta in ostaggio fino all’ultimo giorno di discussione internazionale, col risultato di conseguire, con la conferma del corridoio, anche la riduzione degli aiuti: in precedenza i corridoi disponibili per i soccorsi ONU erano due, ora uno soltanto.
In questo contesto internazionale è da escludersi che l’operazione libanese sui profughi non possa davvero andare in porto? Ma un’altra domanda viene di seguito: a chi davvero importa della sorte dei poveri profughi siriani, ovunque si trovino?