Non ha usato mezzi termini papa Francesco nel suo ultimo discorso Ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede dell’8 febbraio, evocando la situazione in Libano, paventando che possa perdere la sua identità unica fondamentale per un Medio Oriente plurale, tollerante e diversificato, nel quale la presenza cristiana possa continuare ad offrire il proprio contributo e non sia ridotta a una minoranza da proteggere.
Dalla fine degli anni ’60, la Terra dei Cedri è stata scossa dalle crisi che hanno sconvolto il mondo arabo. La guerra civile provoca lo smembramento del piccolo stato mediorientale, che cessa di essere un modello di convivenza e di sviluppo economico.
Se la posizione geografica del Libano, fulcro dei continenti del vecchio mondo, aveva portato molti vantaggi economici, finanziari e politici, ha anche decretato la fine del suo sviluppo e il modello unico che la Terra dei Cedri aveva rappresentato nel mondo arabofono.
Una rilettura di alcuni eventi
La data del 5 giugno 1967 segna una svolta. Israele lancia un’offensiva contro Egitto, Siria e Giordania. In cinque giorni, l’esercito israeliano riesce ad occupare la penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la Cisgiordania del Giordano, annettendo Gerusalemme. Per la seconda volta in vent’anni, gli eserciti dei tre stati arabi si trovano sconfitti. Le conseguenze sono disastrose per i paesi di lingua araba, compreso il Libano.
È in questo contesto che i vari partiti palestinesi si rendono conto di non poter più contare sugli eserciti arabi per liberare la Palestina. Trasformando il Libano meridionale in una rampa di lancio per i suoi attacchi contro gli israeliani, la Resistenza palestinese diventa rapidamente un attore importante nella scena politica in Libano.
La maggioranza dei cristiani, pur simpatizzando per la causa palestinese, rifiuta la militarizzazione dei palestinesi che vivono in Libano. Essi temono che gli attacchi palestinesi porteranno Israele ad avanzare nei villaggi del Libano meridionale e sospettano anche che i loro compatrioti musulmani possano approfittare della forza militare palestinese e della loro importanza demografica per sconvolgere l’equilibrio del sistema politico del paese, a beneficio della componente musulmana.
Il 13 aprile 1975 si verificano due eventi che segnano l’inizio dello smembramento dello Stato libanese e il collasso del Paese: il tentativo di assassinare il leader del partito delle falangi, Pierre Gemayel, e l’attacco a un autobus palestinese nella periferia orientale di Beirut, tradizionale roccaforte cristiana.
Pochi mesi dopo, i vari partiti dell’alleanza palestinese-progressista-islamica presentano la posizione dei musulmani rispetto alla crisi libanese. Per la prima volta nella storia del Libano, i rappresentanti dei musulmani collegano le loro richieste alla dottrina islamica del governo, attaccano la “formula libanese” che, ai loro occhi, è sviluppata solo per sostituire la “formula dell’islam” e per consacrare il predominio dei maroniti nel potere interno. La possibilità di un nuovo compromesso con i cristiani è legata alla condizione che i maroniti rinuncino ai loro privilegi.
La guerra in Libano si conclude con l’Accordo di Taif, noto come «documento di intesa nazionale», firmato il 22 ottobre 1989 dalla maggioranza dei deputati libanesi. Questo accordo, che aumenta l’ingerenza siriana nel paese, insiste sull’arabità del Libano, sottolineando che il paese «è arabo di appartenenza e identità», sulla convivenza tra comunità e sulla modifica della distribuzione dei poteri statali tra le tre Presidenze (della Repubblica, del Governo e della Camera), ancora attribuita alle tre grandi comunità del Paese, quella maronita, quella sunnita e quella sciita. Per questo l’accordo è presentato come un nuovo patto nazionale.
La forte ingerenza siriana dura formalmente fino al 2005, anno dell’assassinio del presidente Rafik Hariri, della Risoluzione 1559 e del ritiro delle truppe siriane dal Libano, nel mese di aprile. Ma, prima di ritirarsi, i siriani riescono a rafforzare i loro alleati: i due partiti sciiti Amal e Hezbollah. Da allora in Libano si sono susseguite le crisi politiche interne; esse sono aggravate dall’antagonismo tra sunniti e sciiti che colpisce diversi paesi della regione.
Ma il Libano ne soffre particolarmente a causa delle armi possedute da Hezbollah, alleato dell’Iran, che costringe Israele a ritirarsi dal Libano meridionale.
Un’idealità tradita
Questa rapida panoramica dei cento anni di esistenza del Grande Libano fa emergere le incertezze per il futuro di un Paese, che i suoi promotori hanno voluto multi-confessionale ed egualitario, luogo di rifugio per tutti i perseguitati del Medio Oriente, luogo di incontro di religioni e culture ma che sembra, al momento, andare alla deriva.
Il motivo di più grande preoccupazione sono gli obiettivi poco chiari perseguiti da Hezbollah: sta solo cercando di combattere Israele e liberare la Palestina? Ha rinunciato al suo piano originale di trasformare il Libano in uno Stato islamico? Da qualche mese dichiarazioni di leader sciiti, civili e religiosi, sottolineano il fatto che il regime libanese sia obsoleto, che il patto del 1943 è morto, e che l’Accordo di Taif è caduto, che il confessionalismo politico deve essere abolito.
L’assassinio di Luqman Salim, intellettuale e attivista sciita (che rifiutava l’identificazione della sua comunità con un partito confessionale e teocratico), risolutamente impegnato contro Hezbollah e trovato morto il 4 febbraio scorso nella regione meridionale di Zahrani, accentua il caos nel Paese.
Tra l’altro, proprio il 4 febbraio segnava anche la data a sei mesi dalla tremenda esplosione nel porto di Beirut, provocata da un enorme carico di fertilizzanti, identificato come nitrato di ammonio, stoccato nei magazzini portuali. L’esplosione – lo ricordiamo – aveva distrutto gran parte della città e ucciso più di 200 persone, oltre a fare 7.500 feriti. L’indagine ufficiale sull’esplosione è attualmente sospesa a causa del confinamento decretato su tutto il territorio libanese per arginare la diffusione del coronavirus.
In questa situazione, il tempo del consenso per far avanzare qualsiasi progetto sembra ormai scaduto, perché i mesi sprecati alla ricerca di accordi bizantini hanno portato al disastro economico attuale. L’ultima valutazione del fabbisogno finanziario del Paese parla di perdite totali nel settore bancario pari a 83 miliardi di dollari, oltre a un buco nero nei conti della banca centrale di circa 50 miliardi di dollari.
L’ex ministro dell’Economia libanese, Nasser Saidi, ha recentemente coniato l’espressione “Libazuela”, affermando che il Libano si sta avvicinando sempre di più a uno scenario venezuelano: uno stato ricco, ora immerso nella povertà, sinonimo di fallimento politico, economico e umanitario.
Il Fondo Monetario Internazionale chiede impegni concreti dai leader libanesi, in termini di riforme e di trasparenza, prima di accettare di mettere in atto un piano di salvataggio economico. Difficile crederlo possibile senza una pressione concertata da parte della comunità internazionale, compresa l’imposizione di sanzioni, soprattutto personali, contro banchieri, politici e decisori libanesi.
In conclusione, ritornando all’accorato appello di papa Francesco, è difficile non pensare, con rammarico, ai tanti errori anche di un certo mondo cristiano mediorientale che, in nome di una supposta alleanza di minoranze religiose identitarie (e non del fondamentale concetto di cittadinanza inclusiva tanto auspicato dallo stesso papa Francesco nel Documento sulla fratellanza umana, firmato con il Grande Imam di Al-Azhar, Ahamad al-Tayyib) ha erroneamente sostenuto la progressiva penetrazione sciita iraniana fino al Mediterraneo.