Libano: tra morte e rinascita

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Nella vasta guerra in atto si può provare a osservare le complesse dinamiche libanesi. Secondo uno dei più grandi intellettuali arabi, il libanese Samir Kassir, Hezbollah ha prodotto la “totemizzazione della resistenza,” promessa e compresa come fine in sé, indipendente dal politico, quali che siano le circostanze.

L’impotenza, scrisse nel suo capolavoro L’infelicità araba, trova nell’abisso “la legittimazione di una violenza apocalittica, o, nel migliore dei casi, sansoniana”. La distinzione va fatta subito: un conto è la comunità sciita nel suo insieme, un conto chi in essa si riconosce nel partito, un altro i combattenti.

Nasrallah vive

Secondo il quotidiano libanese Orient Today “negazione, orgoglio, paura, paranoia, ansia… la base filo-iraniana del partito sta vivendo un turbine di emozioni, a volte contemporaneamente. A tre settimane dalla morte di Nasrallah, non riescono ad accettare il suo “martirio”. “Non è morto”, insiste Ali, 13 anni, sfollato in una scuola del quartiere Clemenceau di Beirut, mentre guarda un video di Hassan Nasrallah, sostenendo che risale a dopo il suo assassinio.

Molti promettono di resistere fino al loro ultimo respiro. “La morte di Nasrallah ci costringe a non ritirarci più” – dice Rajaa, sfollata da Meis el-Jabal e riparata in una scuola di Ras el-Nabeh, gestita in parte dagli giovani del gruppo el-Mahdi affiliati al partito. “Siamo noi, gli sciiti, a pagare il prezzo di questa guerra, e continueremo se necessario” – aggiunge. Per lei, Israele non sta conducendo una guerra solo contro Hezbollah, ma contro l’intera comunità sciita.

Questo sentimento è ampiamente condiviso, poiché molti vedono le incursioni di terra israeliane come un tentativo di rioccupare il Libano meridionale e impedire loro di tornare nelle loro terre. Il riferimento al martirio nella battaglia di Karbala (quando il nipote del Profeta Maometto, l’imam Hussein, fu ucciso nel 680 dalle truppe del califfo omayyade Yazid a Karbala, il cui martirio è commemorato dagli sciiti durante l’Ashura) è usato come un appello a continuare la lotta contro l’oppressore.

Alle origini della questione sciita nel Libano ci fu Musa Sadr che, prima dello scoppio della guerra civile nel 1975, disse: “Le religioni erano una sola, perché la genesi – Iddio – è una, e il fine – l’essere umano – è uno e il percorso – questo creato – è anch’esso uno. Quando abbiamo dimenticato il fine e ci siamo allontanati dal servire l’essere umano, abbiamo dimenticato Iddio ed ecco che Lui si è allontanato da noi”.

I demoni della montagna

Spostiamo allora la nostra osservazione a nord. L’ultimo rifugio dei facoltosi maroniti, i resort della regione montuosa di Kesrwan, resiste lontano dalla guerra. La stampa libanese segnala che chi ha una casa lì predilige non accendere neanche il televisore, e in qualche hotel ci sono tracce di sfollati giunti sin quassù dalla valle della Beqaa.

Intanto alcuni di quelli che hanno lasciato l’invivibile Beirut per fuggire quassù, nelle loro abitazioni invernali o estive, si astraggono dalla realtà che li circonda, cercano di sottrarsi alla sua morsa soffocante e attendono solo notizie dalle ambasciate europee, alle quali alcuni hanno già chiesto il visto per partire.

Ma intorno alla quiete irreale del Kesrwan molti segnalano che i vecchi demoni della montagna, chiusa, identitaria, si stanno risvegliando. Si racconta di porte che si aprono, ma anche di porte che restano chiuse. Una ha esitato, a lungo, poi sono prevalse le ragioni della comune umanità e la porta si è aperta, ma non c’era cibo sufficiente per tutti.

Mentre si cercava la soluzione il capo famiglia degli sfollati è uscito e dopo un’ora è tornato con l’indispensabile – racconta il francofono L’Orient Le Jour. Come hai fatto, gli è stato chiesto. La risposta è stata semplice: Hezbollah.

Nessuno oggi può dire cosa sarà del Libano meridionale, gli ultimi chilometri prima del confine israeliano sembrano destinati a una lunga inabitabilità. Questo lo temono in molti in Libano; e immaginando che l’area si possa estendere, alcuni temono che l’evacuazione diventi stabile – cosa che, riguardando la popolazione sciita, fa sorgere il timore di un mutamento dell’equilibrio demografico nell’area che gli accogliesse.

Nelle ore della grande emergenza il Libano si è dimostrato unito, solidale con gli sfollati; ma ora si intravedono i limiti, e i demoni bussano alle porte, soprattutto nelle montagne che hanno conosciuto fino all’Ottocento guerre tribali, identitarie e feroci. I massacri del 1860 tra drusi e maroniti non sono poi così lontani nel tempo.

Lo spirito cosmopolita di Beirut, nella lunga epoca dell’affluenza, li ha assopiti promuovendo il grande boom economico di inizio Novecento, fino alla guerra civile, e ognuno ha trovato l’utilità del vivere e crescere insieme. Ma poi, dopo decenni di distruzione e di ricostruzione, il 4 ottobre 2020, l’incredibile esplosione del porto commerciale di Beirut, trasformato da Hezbollah in un deposito di proporzioni indescrivibili di esplosivo illegalmente nascosto da anni per combattere la guerra siriana, ha infranto la forza cosmopolita di Beirut.

La casta libanese

Ma non se ne può addossare la responsabilità solo a chi ha dato il colpo di maglio all’economia libanese: tutta la casta libanese, un ceto politico feudale e rapace, porta il marchio della colpa per la catastrofe che si è abbattuta sull’economia nazionale dal 2019 – quando la valuta nazionale ha cominciato a precipitare dal tasso di cambio di 1500 lire libanesi per un dollaro, fino alle 100mila libanesi per lo stesso dollaro, accompagnato dal blocco dei conti correnti in valuta straniera, dal contingentamento della cifra prelevabile dalle rimesse dei parenti all’estero.

I più affidabili istituti di ricerca stimano il danno economico del quadriennio di collasso economico (2019-2023) del Libano in 75 miliardi di dollari. Una cifra enorme per un Paese che aveva un PIL stimato nel 2018 a 54 miliardi di dollari, precipitato poi a 16 miliardi di dollari prima della guerra attuale. Ora i bombardamenti hanno prodotto danni valutati tra 18 e 25 miliardi di dollari, mentre il PIL potrebbe scendere di un altro 23%.

Pochi dissentono da Standard & Poors, che prevede una lunga fase bellica e considera inevitabile un peggioramento del quadro economico e finanziario. I consumi già adesso si sono ridotti del 50% a livello nazionale; e la famosa linea della povertà dei calcoli macroeconomici ha posto l’asticella al di sopra delle teste del 44% della popolazione.

Sembra inevitabile che i demoni della montagna tornino a farsi vedere, come ombre lugubri sulle strade libanesi. Per definire il quadriennio terribile non si può che ricorrere all’usuale calcolo dell’inflazione: 85%; 155%; 177%; 221%.

L’inazione governativa e bancaria ha fatto sì che l’illegale blocco dei risparmi depositati in banca da circa un milione di libanesi abbia congelato 85 miliardi di dollari. Tra parentesi, si ricordi che il Libano ha un governo in carica per il solo disbrigo degli affari correnti perché è senza presidente della Repubblica da due anni. Questo perché Hezbollah ha cercato di imporre il proprio candidato senza avere in Parlamento i numeri per farlo eleggere e il presidente della camera, il suo alleato Nabih Berri, non convoca una seduta  elettiva da un anno a questa parte per evitare che si formi una maggioranza alternativa.

Ma l’inattività bancaria è solo in parte colpa di questo soggetti, visto che il governatore della Banca del Libano, in carica per addirittura 30 anni ininterrotti, è oggi nelle patrie galere per accuse di corruzione e riciclaggio, suffragate da tempo da mandati di cattura spiccati dall’Europa.

Tutta la casta libanese è, in qualche misura, responsabile per la catastrofe economica che da quattro anni si è abbattuta sul Libano. Voler distribuire le colpe tra i partiti tradizionali e il nuovo gruppo dirigente legato ad Hezbollah è un lavoro che può essere fatto, ma che alla fin dei conti lascia tutti sul banco degli imputati.

Un esempio molto chiaro viene da un articolo del quotidiano libanese L’Orient Le Jour: “Secondo il Fondo Monetario Internazionale, i depositi in dollari erano ancora pienamente disponibili nel sistema finanziario nel 2014, anno in cui Ali Hassan Khalil è stato nominato ministro delle Finanze, su insistenza del movimento Amal e di Hezbollah – carica che ha mantenuto fino al 2020. Inoltre, la scelta di un default non organizzato è stata palesemente evidente non appena il presidente del Parlamento Nabih Berri – sostenuto dall’ex governatore della Banca del Libano Riad Salameh e dall’Associazione delle banche in Libano (ABL) – si è rifiutato di approvare una legge sul controllo dei capitali. Cinque anni dopo, questa misura chiave – adottata in casi analoghi in tutto il mondo – non è ancora stata attuata. Ciò ha aperto la strada a un enorme deflusso di capitali, stimato in circa 14 miliardi di dollari, compresi gli 8 miliardi che la Banca del Libano ha pagato alle banche nel gennaio 2020. Sebbene non sia stato celebrato alcun processo al riguardo, diverse fonti bancarie e giudiziarie hanno dichiarato a L’Orient Le Jour che gran parte di questi fondi appartengono a politici, banchieri e personaggi influenti”.

Uscire migliori dalla catastrofe

La guerra oltre a risvegliare i demoni della montagna sembra mettere sul banco degli imputati della storia la casta libanese. E non si può dire che questo non accadrà – uno dei migliori conoscitori del Libano, Lorenzo Trombetta, dalle pagine di Domani ha avvertito:

Su un territorio sempre più ridotto in macerie e stravolto da un massiccio e senza precedenti sfollamento di famiglie dal sud, dalla Bekaa e da Beirut, il movimento politico Cittadini e Cittadine nello Stato (MMFD il suo acronimo in arabo) lavora su più fronti per promuovere un articolato e concreto piano “per costruire uno Stato libanese inclusivo” e capace sia di “affrontare l’emergenza interna attuale” sia di “resistere alle ricorrenti aggressioni militari straniere”, negoziando internamente ed esternamente “per elaborare una visione condivisa di politica estera e di difesa, che vada oltre i dettami delle risoluzioni Onu 1559 (2004) e 1701 (2006)”.  Mentre le élite parlano in modo ambiguo di un “cessate il fuoco” e del rispetto delle risoluzioni Onu, aprono il banco dell’elemosina internazionale “per far fronte alla crisi umanitaria” sperando di mantenere attivi i rispettivi canali di aiuto clientelari, e organizzano un “vertice spirituale” tra cristiani e musulmani per ribadire la divisione verticale della società, gli emergenti leader politici di MMFD, già candidati alle ultime elezioni legislative, nelle varie zone del paese sono in prima linea per organizzare l’accoglienza degli sfollati e la loro integrazione, seppur temporanea, nelle zone considerate più sicure. Anche per far sì che gli episodi interni di discriminazione su base comunitaria – tanto isolati quanto fisiologici in un contesto segnato da una crisi economica senza precedenti e dai mai curati traumi collettivi della guerra civile (1975-90) – non degenerino e non chiamino altre violenze su più larga scala.

Ai tempi della pandemia papa Francesco disse al mondo che da una crisi si esce migliori o peggiori, mai uguali. Il Libano sembra consapevole che sia così e se i demoni della montagna spingono per uscirne peggiori, il Movimento dei Cittadini e delle Cittadine, che ebbe un sorprendente successo alle ultime amministrative contro tutta la casta libanese, vuole provare l’altra strada, uscire migliori.

Resistere alle sirene identitarie, rifondare il Paese per uscire dalla guerra è il primo passo, ma per riuscirci occorre presentare nel mondo un “progetto Libano” convincente per l’ottenimento dei prestiti necessari. Esiste?

Sì, si trova già enunciato ma mai applicato negli accordi di pace del 1990 che prefiguravano questo assetto istituzionale: una Camera alta, o Senato, eletto su base confessionale per dare tutte le garanzie alle comunità; e una Camera bassa, o Parlamento, eletto su base partitica interconfessionale, quindi sulla base di partiti politici come i nostri, per dare tutti i diritti agli individui.

Questo modello istituzionale farebbe del Libano il modello per tutta una regione in macerie e da ricostruire dalla testa ai piedi. È certamente la grande idea, già esistente nei documenti costituzionali libanesi, che potrebbe dare una prospettiva nuova non solo al Libano ma a tutto il Levante.

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