Se non fosse che stiamo qui ora a parlare del Libano, quel che dico può apparire una notizia incredibile: dall’ottobre dello scorso anno questo Paese è alla ricerca del suo nuovo Presidente della Repubblica! L’elezione spetta naturalmente al suo Parlamento. Deve trattarsi – per la legge libanese – di un cristiano maronita.
Ma da sei mesi non si trova né un accordo né una maggioranza al riguardo. Così, un certo signore, un ex deputato che non si è mai candidato – Suleiman Frangieh – è stato proposto da Hezbollah, il noto partito khomeinista “antagonista” rispetto all’Occidente e ai suoi modi.
Il presidente che non si trova
Sul suo nome è rapidamente giunto il placet francese, il Paese che colonizzò il Libano all’inizio del secolo scorso. In questi giorni Frangieh, dopo aver preso atto che sul suo nome non vuol convergere nessuno, è volato proprio a Parigi. Siamo alla commedia degli inganni? Forse. Ma c’è pure dell’altro.
Secondo alcuni commentatori, Hezbollah non avrebbe mai pensato di portare Frangieh al Palazzo presidenziale, ma ha dovuto fingere per compiacere il potente e intramontabile Presidente del Parlamento, Nabih Berri, il loro pesante alleato che proprio non può sopportare il nome che sta veramente al cuore di Hezbollah, Gebran Bassil, genero del presidente appena uscito dal Palazzo, Michel Aoun.
Far fare un giro di giostra a Frangieh – nipote di un ex Presidente della Repubblica e definito amico personale di Bashar al-Assad – sarebbe stato, quindi, il modo migliore per toglierselo di torno. Per alcuni commentatori ci sarebbero cascati solo i francesi. Per altri, Frangieh avrebbe usato Parigi per offrire garanzie ai sauditi, nemici dei suoi sponsor.
Passa così oziosamente il tempo nel corridoio dei passi perduti di Beirut, se non fosse che fuori imperversa una vera tempesta. La vacanza presidenziale si sta trasformando in un anno sabbatico. Anche questa non sarebbe una novità per il Libano che ha atteso addirittura anni, all’inizio di questo secolo, per vedere nominato un Presidente.
Ora, però, c’è un disastro economico in corso, tale da travolgere il Paese e da indurre la Banca Mondiale a definirne la crisi economica che lo attanaglia «la più grave al mondo dal 1850».
Crisi economica
Gli stipendi nel settore privato si aggirano oggi a 80 dollari statunitensi: è semplice farsi due conti e capire che è scomparso quel ceto medio che rendeva il Libano un’eccezione araba. Da quando la coppia di governo Aoun-Hezbollah ha imposto il default del Paese per sfidare il Fondo Monetario Internazionale – come andavano urlando per le strade di Beirut i festanti khomeinisti sostenitori del Partito di Dio – la valuta locale non vale più nulla.
A quel tempo, cioè tre anni fa, un dollaro era quotato 1.500 lire libanesi, come è sempre stato dalla fine della guerra civile: ora un dollaro si cambia a 110.000 lire. L’inflazione corre inarrestabile, tanto che l’astuto ministro delle finanze ha pensato di far esporre i prezzi in dollari, dicendo: «troppi zeri, chi li capisce?».
Per fortuna, non essendo di sua competenza, non gli è stato consentito dalla Banca Centrale. Ma al cuore dei problemi nessuno può e vuole andare, perché le riforme che gli istituti finanziari internazionali chiedono da tempo per salvare il Libano, nessuno può e vuole farle, posto che il governo, senza un Presidente della Repubblica, è in carica solo per il disbrigo degli affari correnti.
Non è difficile ricostruire dai siti libanesi, quante volte, in questo triennio, i malati in dialisi abbiano rischiato di non poter più essere curati negli ospedali: gli stessi ospedali che, insieme alla scuola e alle banche, sono sempre stati il fiore all’occhiello del Paese dei Cedri. La corrente elettrica oggi in Libano funziona per pochissime ore al giorno, con le conseguenze che tutti possono immaginare. E molti farmaci salva-vita sono introvabili.
Ricordo che il Libano ospita tuttora – in fatiscenti campi profughi – centinaia di migliaia di palestinesi dal 1948 e un milione e mezzo di siriani dal 2011. È chiaro che l’incendio è dietro l’angolo, ogni giorno, ogni ora.
Se è difficile capire cosa voglia dire, in questo caso, con “incendio”, si tenga conto di quanto ha scritto in questi giorni su La Civiltà Cattolica padre Gabriel Khairallah: «Di recente, sono stati recuperati in mare più di 90 cadaveri di libanesi partiti clandestinamente su una barca di migranti dal nord del Paese. È il secondo disastro avvenuto in meno di sei mesi. Esso rivela la portata della disperazione vissuta in Libano da gran parte della popolazione, che preferisce correre enormi rischi, imbarcandosi clandestinamente, piuttosto che rimanere in un Paese incapace di garantire una vita dignitosa». Un’altra Tunisia? Sin qui, sembra di no. Sembra, ma per un solo motivo.
Senza confini
I confini libanesi di fatto non esistono, soprattutto con la Siria. Così ci si può arrangiare con le tante illegalità che la situazione consente. Il fallito Stato siro-libanese, sotto la regia della famiglia Assad, è il più grande produttore mondiale di captagon, la nuova droga di cui tanto si parlava quando era attribuita all’Isis.
Ora se ne parla molto meno, ma l’impero transcontinentale di Hezbollah ne consente un’amplissima commercializzazione, da cui cadono a pioggia una serie di attività in nero o, al più, grigie, che ne facilitano altre ancora. I libanesi, poi, hanno parenti all’estero – più numerosi di loro stessi – da cui ricevono rimesse in valuta pregiata: non la possono cambiare al tasso citato, cioè a 110.000 lire per un dollaro, ma comunque possono farlo a 80/90.000. Devono riuscire ad andare in banca, dove, però, la clientela locale non è ben vista, perché molto spesso vuole entrare in banca armata, posto che i depositi in valuta pregiata – e tutti ne avevano uno – sono stati bloccati.
Dunque, il Paese celebre per scuole, banche e sanità – il Paese modello dei ceti medi – è alla fame. E in questa situazione – con 18 diverse confessioni etnico-religiose presenti – basta poco per riaccendere la miccia della guerra civile. Si prenda l’esempio dell’ora legale. Si dirà: che c’entra l’ora legale?
Crisi fra confessioni religiose
È successo che il presidente della Camera ha incontrato il Primo Ministro e gli ha proposto di rinviare di un mese l’entrata in vigore dell’ora legale. Stava infatti cominciando il Ramadan e le tavole erano e sono quasi ovunque vuote. Come costringere i libanesi musulmani a prolungare di un’ora il loro digiuno prima del tramonto? Si osservi lo scrupolo! Ma perché non pensarci prima di ridurre sul lastrico i libanesi, con condotte scellerate?
Ma tant’è! Nonostante la compagnia di bandiera abbia fatto presente che i voli erano già stati predisposti col nuovo orario legale, si è deciso di procedere, anche perché – assai stranamente – il video del colloquio riservato nello studio del Presidente della Camera era già stato divulgato sui social.
Un modo per ingraziarsi gli affamati? A quel punto è insorto il Patriarca maronita, dicendo: «si prende una decisione del genere senza consultarci?». Come se il governo debba sentire i capi delle comunità religiose anche per banali atti amministrativi!
Ma intanto la miccia di una crisi tra confessioni era già stata irresponsabilmente accesa: occorreva spegnerla. Ma come? E soprattutto da parte di chi? Il Capo del governo, a quel punto, ha deciso di far saltare la stessa riunione del governo. Poi tutto è rientrato, dopo ore a cavallo tra il dramma e la farsa. Adesso di legale in Libano c’è almeno l’ora: come del resto legalmente stabilito in precedenza ai fini di un cospicuo risparmio per lo Stato, aspetto evidentemente del tutto secondario per i politici libanesi.
La paralisi di un paese
Indubbiamente la pandemia da Covid-19 ha pesato molto nel disastro del Libano. Ma la Comunità Internazionale ci ha messo del suo. Nel 2020 è esploso il porto commerciale di Beirut, producendo una sorta di fungo atomico che ha polverizzato tutte le strutture portuali e lesionato gli immobili di interi quartieri.
Le indagini, prontamente scattate, sono state sabotate da numerosi ministri: gli unici ad averne avuto uno svantaggio sono stati gli inquirenti, prima rimossi, poi minacciati. Tutto questo nel più assoluto silenzio internazionale, nonostante che molti libanesi – uno dei quali, ossia lo sciita dissidente Loqman Slim – sia stato ucciso per strada dopo aver accusato Hezbollah dell’accaduto.
La paralisi sembra ora il destino del Libano. Forse l’unica, flebile, speranza viene dal recente accordo tra Iran e Arabia Saudita, che nel tempo potrebbero trovare un compromesso al quale costringere i loro alfieri locali. Ma non è un accordo tra i signorotti dei due campi ciò che serve al Paese. Il Libano o torna a essere la casa del vero pluralismo della società levantina o non tornerà ad esistere: un pluralismo con tutti i limiti propri dello spazio e del tempo, ma un pluralismo che voleva dire e può ancora dire apertura sociale, non rassegnazione.
Ha ragione padre Khairallah che, nel citato articolo, afferma che proprio questo è il problema: la popolazione dimostra che è ancora possibile ricominciare. Scrive: «A tale proposito, va notato che il campo umanitario è diventato un’espressione di cittadinanza per eccellenza per la dignità dei cittadini, contro quei partiti politici settari che usano gli aiuti umanitari come mezzo di marketing politico per aumentare la propria popolarità tra i sostenitori; o, peggio ancora, per rafforzare la dipendenza dei propri sostenitori, legandoli a sé con donazioni di cibo o aiuti finanziari. Anche il settore culturale è diventato un luogo di rinascita di una cittadinanza sana grazie all’arte, con una fioritura di opere teatrali, mostre di dipinti e sculture, concerti ecc.».
Questo vuol dire che le energie sociali per la rinascita ci sono ancora, ma serve una rifondazione politica che spezzi l’intreccio perverso tra fede e politica.
Confessionalizzazione politica
Il Libano ha nelle stesse carte che lo condanno al peggior confessionalismo la ricetta della salvezza. La confessionalizzazione politica riduce i partiti a clan tribali e confessionali in mano da sempre alle stesse famiglie. Ma quando il Libano è rinato dalle macerie della guerra civile ha saputo inserire una possibilità nella sua Costituzione: quella di cui l’occupante siriano non ha mai voluto l’attuazione.
È previsto infatti che l’attuale unica Camera – eletta su base confessionale e col vincolo di pari rappresentanza per musulmani e cristiani – possa diventare, così come è oggi, un Senato della Repubblica, garante di tutte le comunità. Sarebbe infatti la nuova Camera dei Deputati a offrire a ognuno i suoi diritti, con l’introduzione del voto politico, come accade da noi, con partiti aperti ai cittadini di tutte le confessioni. Questo è il sistema migliore per rifare il Levante: garantista con tutti, aperto a ciascuno. È la formula di una democrazia inclusiva possibile per tutto il Levante.
L’intuizione dei padri fondatori del nuovo Libano, sopravvissuti al suicidio della guerra civile, non è stata seguita, né dagli ex colonizzatori né dai signori del salotto politico libanese. Forse sono solo i cristiani – consapevoli che il Libano è il solo Paese che può restituire un senso politico e spirituale alla loro presenza ormai in via di estinzione in Medio Oriente – a poter esprimere una tale visione, con urgenza.
È questa riforma che Parigi e magari l’Europa dovrebbero sostenere: se Parigi si facesse sentire, in virtù della sua influenza culturale, non per perdere tempo al tavolo truccato dai croupier del gioco presidenziale, bensì per aiutare a rifare quel Mediterraneo orientale ove ha fatto tantissimi danni, ma dove ancora simboleggia tre parole importanti per tutti – quali Liberté, Égalité, Fraternité – creerebbe non un raccordo con i pezzi di un sistema fallito, ma una speranza nuova per tutti coloro che, nel mondo arabo, guardano ancora a Parigi e all’Europa come un esempio.