Lo sguardo della Santa Sede sul Libano

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La decisione di papa Francesco e del Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin di ricevere in Vaticano una delegazione dei parenti delle vittime della terribile esplosione che il 4 agosto 2020 ha mandato in polvere la più grande infrastruttura commerciale del Libano, il porto di Beirut, e reso a lungo inagibili interi quartieri limitrofi, causando più di 240 morti e migliaia di feriti, dimostra non solo una perfetta comprensione dei problemi attuali di un Paese tanto in crisi quanto decisivo per il futuro bellico o di pace della regione, ma anche del rapporto tra il porto e la città, che ne ha segnato la quasi unicità.

Beirut infatti è una città araba, europeizzata, mediterranea e moderna per tanti motivi, al cui centro c’è il suo porto. Senza fare qualche cenno a questo non si capisce appieno il passo vaticano, evidente frutto del recente, lungo viaggio in Libano del cardinale Parolin, profondo conoscitore da molti anni di questo complesso, sottovalutato, decisivo Paese.

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Beirut ha avuto uno sviluppo tumultuoso nell’Ottocento per la fuga di tanti libanesi dalle sue montagne: drusi e cristiani che si combattevano ferocemente sono accorsi insieme in questa piccola città soprattutto sunnita per salvarsi. E Beirut, grazie anche ai primi missionari, è diventata un grande scalo, moderno e aperto alla cultura grazie alle scuole missionarie. L’impresa cittadina è legata a un odioso signore delle ferriere, il Conte Edmond De Perthuis, che prima costruì la grande ferrovia Beirut-Damasco, poi sempre grazie alle sue entrature presso il Sultano ottenne la concessione per fare un grande porto.

Ma i suoi metodi facilitarono l’inizio di moti sindacali, scioperi, culminati in un fatto eclatante: lui cercò di forzare il blocco dei lavoratori, ma il vascello che voleva favorire si ritrovò tutto il carico gettato in mare.

Nasceva una città multireligiosa grazie al rifiuto popolare di guerre tribali, ma anche grazie al De Perthuis che con la sua doppia impresa consentì ai mercanti di dividersi i compiti: i cristiani del posto avrebbero commerciato con i mercanti europei, i musulmani con i ricchi mercanti di Damasco. I suoi modi poi favorirono una sindacalizzazione nel porto sconosciuta in tutto il mondo arabo del tempo.

La diffusione di molte pubblicazioni, favorite dalle ottime scuole missionarie, formava un’opinione pubblica politicizzata e attenta alla vita cittadina. La Beirut capitale del libero pensiero arabo si spiega con il porto e con un porto che il successivo colonialismo francese non poteva certo ostacolare, per via del suo potenziale commerciale, ma anche libertario. L’asse commerciale britannico, Haifa, Amman, Baghdad, poteva essere sfidato solo potenziando quello francese, Beirut, Damasco, Baghdad. E così il porto di Beirut fu raddoppiato. La città divenne un gigante.

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Senza questi superficiali cenni alla storia di Beirut e del suo porto è difficile farsi un’idea di cosa sia accaduto il 4 agosto 2020. Pianificata o verificatisi per errore, quel giorno c’è stato un vero e proprio urbicidio.

Impossibile poi cercare giustificazioni alla scelta inaudita di custodire contro ogni legge un quantitativo enorme di esplosivo, fattovi giungere per armare Bashar al Assad e la sua guerra contro il popolo siriano. Assad lanciava ogni giorno sulle città insorte i suoi barili bomba, barili riempiti di esplosivo e di detriti. Quell’esplosivo veniva da Beirut, da quel carico che i suoi alleati di Hezbollah avevano nascosto nel porto commerciale che loro controllavano.

Come poi si sia giunti all’esplosione non si sa. Ma le tesi ridicole che le autorità libanese si inventarono al tempo, l’esplosione di un carico di fuochi d’artificio che toccò con una scintilla quella montagna di esplosivo ancora inutilizzato, confermano che la verità è imbarazzante, come quella qui esposta, che risulta da molti dati, ma sulla quale è proibito indagare.

Ecco perché da allora Hezbollah e i governi suoi amici, formati nel tempo dell’alleanza con i seguaci (cristiani) del presidente Michel Aoun, (l’attuale sopravvive per la paralisi istituzionale solo per il disbrigo degli affari correnti) hanno insabbiato tutto, minacciando i parenti delle vittime: quelli che hanno ricevuto papa Francesco e il cardinale Parolin.

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Settimananews ha già pubblicato il discorso del papa, merita di essere letto perché coglie il ruolo che Beirut può svolgere non per la guerra, ma per la pace. Beirut è una città che non può non essere plurale, per la sua stessa identità, per la sua storia.

Quindi la comune cittadinanza le appartiene, come l’edificazione di uno Stato di uguali cittadini che sappiano finalmente dare tutti i diritti alle singole persone e tutte le garanzie a ogni singola comunità. La crisi del confessionalismo politico libanese si supera così.

Questa è l’alternativa al buio totalitario, teocratico, etnocratico (per fare un esempio Assad ha a lungo negato passaporto, feste e lingua ai suoi sudditi curdi e credo che potendo tornerebbe a farlo).

Il modello libanese è stato anche vincente, perché attirava capitali e liberi pensatori. Poi ha avuto le sue dolorosissime sconfitte, delle quali tutti sono stati coprotagonisti. Oggi però i suoi nemici sono due: la casta, che ha spolpato il Libano; e Hezbollah, che vuole imporre il suo progetto miliziano.

Ma il Libano ha già saputo rinascere dalle sue ceneri dopo quindici anni di devastante guerra civile. Può farlo di nuovo, seguendo il titolo di un’enciclica: Fratelli tutti. È la sua storia, la sua identità.

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