Medio Oriente: cosa fare, dopo?

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mo-dopo1

Nel 2003 il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, dopo aver ridotto in polvere in pochi giorni l’esercito e i servizi segreti di Saddam Hussein, lo spietato tiranno iracheno, dichiarò con molte ragioni «missione compiuta». Aveva ragione e diverse ragioni per farlo. Ma dopo la missione non c’era un’idea di cosa fare e i fatti hanno preso una piega tutta diversa, fino al ritiro americano dall’Iraq e dal Medio Oriente ancora non completo ma irreversibile.

In precedenza c’era stata la conquista dell’Afghanistan, nel 2001, dal quale il ritiro è stato completato nel 2021 restituendolo ai talebani. Anche qui, non perché l’operazione contro il mullah Omar e contro al Qaida non fosse opportuna: è finita così perché non si aveva un’idea precisa di cosa fare dopo.

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Che la sconfitta dell’asse della resistenza filo-iraniano e degli stessi ayatollah siano una necessità è indiscutibile. Ma avendo un’idea di cosa fare, e di chi siano i soggetti di cui parliamo. E per farsi un’idea al riguardo credo importante tornare indietro nel tempo, ma di poco.

Era il 25 agosto, il giorno successivo alla famosa «riposta dimostrativa» di Hezbollah contro Israele. Quel giorno, intorno alle 12,40, l’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema della rivoluzione iraniana, ha scritto su X: «Sono pace per chi è pace con te e guerra per chi ti combatte fino al Giorno della Resurrezione. La battaglia tra il fronte Husseini e il Fronte Yazid continua e non ha fine». Il fronte Husseini sono i musulmani sciiti, il fronte Yazid sono gli sciiti. Le parole non vanno ovviamente prese alla lettera, sebbene poi la lettera conti, ma vanno capite nello spirito: esistono i fedeli a Dio (Allah) e gli asserviti al potere, vessatori dei diseredati. La lotta tra di loro non ha fine.

È evidente che scrivere in queste ore, non sapendo quali saranno le reazioni israeliane all’attacco con missili balistici su Israele da parte dell’Iran, è avventuroso. Non sarebbe difficile ricostruire come si è arrivati a questo punto, dopo che l’Iran aveva dimostrato di non voler dare occasioni a Israele per attaccarlo. Ma questo ci porterebbe altrove rispetto al tema che qui si vuole presentare: come fronteggiare un problema, che è tale.

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E allora vale la pena partire da alcune immagini di questi giorni, che si spiegano semplicemente ma ciò nonostante devono preoccupare: sunniti che esultano per l’eliminazione del loro massacratore, il capo di Hezbollah, Hasan Nasrallah. E i 492 civili morti con lui nell’esplosione scompaiono. Poi immagini di giubilo nei quartieri sciiti, dove si è perso tutto per i bombardamenti israeliani, vedendo i missili balistici che arrivavano dalle parti di Tel Aviv. Ma questi non sono videogiochi. E intanto questa guerra divora le sue pagine: basti pensare a Gaza, o al Libano. Molti pensano, giustamente, alle possibili conseguenze. Vedremo.

Ma c’è un’idea di cosa fare del Medio Oriente, dei popoli che lo compongono, dei suoi profughi, degli sfollati? Sono maree umane, con interi Paesi ridotti alla fame. Forse al di là della guerra in atto, per formarci un’idea e un orientamento, dovremmo tornare a ciò che non si è saputo capire del 2011 − sarebbe opportuno.

Alcuni sostengono che l’ideologia khomeinista si sconfigge con lo sviluppo e con il dialogo tra le fedi, proprio quello che i capi miliziani non hanno mai voluto fare. Possono continuare così, ma hanno cominciato a perdere consensi quando i popoli, dopo averli sentiti urlare contro i loro leader corrotti − e lo sono davvero − si sono accorti di aver conseguito solo macerie per sé e devastazioni per i propri fratelli.

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Nelle ore trascorse però l’Iran aveva scelto toni concilianti con il mondo e un giornale ultraconservatore ha definito il nuovo presidente, Masoud Pezeshkian, il «Gorbaciov iraniano». È molto significativo. Come è significativo che proprio ora siano loro a voler far sapere che esultano per l’azione missilistica.

Ma è opportuno scrivere un articolo in ore così drammatiche per il mondo soltanto basandosi sulla scoperta di questo testo apparso su X, perché disvela il cuore di un’eresia: fare della violenza un’ideologia, promettendo vendetta incuranti degli esiti. Oggi dolore e rabbia non mancano in Libano, Siria, Iraq, Yemen, Iran: sono l’unica cosa che non scarseggia. Come orientare il dolore verso il proprio benessere e non verso la vendetta?

Sconfiggere l’asse della resistenza pro iraniano è stata per anni la priorità delle petromonarchie del Golfo, in modo infruttuoso. Recentemente sembrano aver scelto, con le dovute attenzioni, una via di riduzione del contenzioso in cambio di scelte analoghe, che consentano lo sviluppo. Era, o forse è, una prospettiva sulla quale investire, con oculatezza.

L’ideologia khomeinista è dura a morire, ma l’urgenza del regime di negoziare per ridurre l’impatto delle sanzioni statunitensi sull’Iran dimostra che ogni regime può, per qualche ragione, dover arrivare al suo Gorbaciov. E anche in quel caso la cosa importante sarebbe stato avere un’idea di cosa fare – dopo.

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