Sebbene la nostra idea sia quella della consecutività degli avvenimenti, cioè che la guerra precede un accordo di pace o di tregua, le due cose in questo Medio Oriente potrebbero anche marciare insieme. E il fatto stesso che i lampi di guerra che questa notte hanno sconvolto il sud del Libano siano avvenuti proprio quando al Cairo stavano per aprirsi i negoziati sul cessaste il fuoco di Gaza lo potrebbero confermare.
Infatti la delegazione israeliana è regolarmente giunta al Cairo per i negoziati e il governo ha dichiarato riuscito il suo amplissimo raid preventivo avendo individuato centinaia di rampe di lancio che intendevano colpire il comando del Mossad a Tel Aviv. Anche Hezbollah parla di successo, essendo riuscita a lanciare tutti i suoi ordigni e superando in tantissimi casi il confine, colpendo alcuni obiettivi.
Tesi un po’ ardita, ma che riporta alla mente la modalità seguita dall’Iran per la vendetta di mesi fa, quando rispose all’assassinio di alcuni alti gradi dei pasdaran mentre si trovavano in una sede consolare iraniana in Siria lanciando un attacco con droni e missili respinto da Israele, Stati Uniti e alleati arabi. Poi, dopo una reazione israeliana molto blanda, tutto svanì.
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Ora il punto è che dopo aver detto che questa era la prima fase della reazione per l’assassinio del suo «capo di stato maggiore» il 30 luglio scorso a Beirut sud, Hezbollah già nella notte ha detto che questa è sola la prima fase della sua risposta, ma poi ha annunciato che il suo leader Hasan Nasrallah parlerà nel pomeriggio – e un successivo comunicato ha affermato che le azioni militari per oggi sono concluse.
A cosa serve questo annuncio? Se servisse solo a far intendere che altre azioni avverranno nei prossimi giorni, beh questo era già stato dichiarato. Forse continuerebbe solo la guerra d’attrito, ufficialmente dichiarata per «sostenere Gaza» – anche se non si vede in quale modo: a sostenerla non sarebbero più efficaci i mediatori del cessate il fuoco? Forse nel pomeriggio si capirà meglio.
Chi ha già parlato chiaro invece è Netanyahu, che ha dichiarato l’obiettivo: riportare i cittadini del nord d’Israele, evacuati ormai da tempo, nelle loro case. Ma questo è un obiettivo che si può conseguire anche diplomaticamente, è ben noto.
La mediazione americana lo prevede, essendo quasi pronto l’accordo: definizione dei confini terrestri tra i due Paesi (ci sono aree contese) come chiede Hezbollah, ritiro dei miliziani di Hezbollah a 40 chilometri dal confine, come chiede una risoluzione dell’ONU accettata dal Libano ma mai rispettata da Hezbollah.
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E così entra in ballo un soggetto fin qui assente: il Libano. Alle nove e trenta locali di questa mattina, molto dopo che tutto il mondo aveva sussultato per il grande scontro che in Libano ha causato fortunatamente solo due vittime e danni contenuti in Israele, il primo ministro libanese, con tutta calma, ha convocato i ministri del comitato d’urgenza, dicendo che comunque gli altri se vogliono possono unirsi.
Tra i convocati spiccano il ministro dell’ambiente, dei trasporti, della sanità, dell’interno – tutti insomma tranne quelli della difesa e dell’interno. Il governo libanese ha rinunciato da tempo ad avere una sua politica nazionale di difesa, di cui ha accettato con sussiego la confisca da parte di Hezbollah.
Le voci di un possibile attacco iraniano, che ha annunciato anch’esso la vendetta – separata da quella di Hezbollah, che è relativa all’assassinio del suo comandante – per l’assassinio del capo di Hamas Ismail Hanyeh, mentre si trovava in visita ufficiale a Teheran il 31 luglio scorso, sono ovviamente plausibili ma possono sembrare una copertura dell’intenzione di non farlo, ma di far capire che tutto si potrebbe contenere se arrivasse il sospirato accordo su Gaza.
Tehran e i suoi alleati dell’asse della resistenza si potrebbero intestare agli occhi dei loro sostenitori parte del successo, evitando di incendiare anche casa loro.
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Così tutto sembra portare al Cairo, dove oltre alla delegazione israeliana e a quelle dei tre mediatori – Usa, Qatar e i padroni di casa – è giunta anche quella di Hamas. Visto che al precedente negoziato, svoltosi la settimana scorsa in Qatar, Hamas non ha partecipato, potrebbe essere considerato un passo avanti: ma in Qatar Hamas ha un suo delegato permanente e i negoziatori si sono rapportati con lui, telefonicamente.
Considerato che in nessun caso i delegati di Hamas e di Israele avrebbero accettato di sedere nella stessa stanza, la differenza è poca. Chissà se anche quella giunta al Cairo sarà consultata solo telefonicamente, visto che pur arrivata in città ha dichiarato che non parteciperà ai colloqui.
Cosa ci sia in ballo al Cairo è noto ed è tantissimo. I mediatori stanno tentando di salvare un negoziato che all’improvviso, per evitare la crisi del suo governo, Netanyahu ha trasformato: non più ritiro completo da Gaza, come previsto dal piano illustrato il 31 maggio scorso dal presidente americano Biden su indicazione di Israele – come da lui affermato -, ma permanenza dell’esercito israeliano all’incrocio di Netzarim, nel cuore di Gaza, per sorvegliare che chi rientrasse dal sud di Gaza, dove la popolazione è stata sfollata, nel nord di Gaza, non porti armi.
Permanenza militare viene richiesta anche per il corridoio Filadelfia, la sottile striscia di terra a cavallo del confine tra Gaza ed Egitto dove ha luogo da sempre contrabbando d’armi di ogni tipo. Gli occhi di tutti sono soprattutto sul corridoio Filadelfia, esigenza divenuta imprescindibile per Netanyahu. Ma il capo dell’opposizione israeliana, Yair Lapid ex premier di Israele, ha fatto notare che i soldati israeliani vi sono giunti solo a maggio, cioè dopo otto mesi di guerra.
Il corridoio è importante, ha detto, ma la liberazione degli ostaggi lo è di più. La presenza militare in un corridoio definito smilitarizzato dagli accordi di pace tra Egitto e Israele pone un problema anche all’Egitto. La via d’uscita a cui lavorano gli americani è di dispiegarvi un contingente dell’ONU, con un ritiro israeliano subito significativo e poi completo. Accetteranno l’Egitto e Hamas? E Israele? Che termini richiederà per il suo ritiro?
Netanyahu sa che su questo la sua coalizione potrebbe non reggere, visto che i ministri dell’estrema destra si dicono contrari a ogni cedimento e che le polemiche sono fortissime, con allarmi sempre più gravi dai vertici dei servizi per la sicurezza interna sulla condotta dei coloni israeliani In Cisgiordania.
Intanto però occorre seguire gli sviluppi al nord, dove Hezbollah cerca di rubare la scena al negoziato. Si può forse sperare che abbia concluso così la sua vendetta? O ha avuto l’ordine dall’ Iran di difenderne l’onore libanese fino all’ultimo? E questo, poi, converrebbe all’Iran?
Mi crea imbarazzo e stupore l’atteggiamento assuefatto del mondo post cristiano al cospetto dei delitti contro l’umanità compiuti da Stati teocratici. E parlo di Israele ed Iran. In particolare quel dio ebreo considerato dai cristiani come una controfigura o una maschera del famoso Padre Nostro che sei nei celi, ispira gli ultraortodossi del muro del pianto a delinquere in suo nome. E l’altro padre eterno, quell’ hallah al quale dovrebbe sottomettersi l’universo guida i pasdaram verso un continuo moto di oppressione verso le donne e insofferenza verso il suo alter ego sunnita. Gia’ il cristianesimo si è dissolto nel liquido amniotico dell’edonismo e del consumismo dove il Cristo è solo oggetto di souvenir o, al massimo, di un conato di superstizione. Le religioni tramontano e ci lasciano in un trionfo di ipocrisie e falsità. Ma non è la fine della spiritualità perché il satanismo massone resiste algido celebrando liturgie malvage e demoniache. Quindi moriremo tra le spire del drago precipitato sulla terra dalle milizie angeliche di san Michele. Mentre ogni forma di fede tramonta, sul pianeta torna a sorgere all’orizzonte il mito. Ed è un trionfo definitivo sulla carne, indegna del suo creatore