Medio Oriente: ore cruciali

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mo-ore11

Tutto vacilla. Arrivando nella regione il capo della diplomazia americana, Antony Blinken, ha parlato di possibile ultima chance.

Dopo dieci mesi di guerra feroce e devastazioni continue, un’emergenza umanitaria assoluta, e arrivata alla certificazione della presenza del virus della poliomielite dopo 25 anni di assenza, una popolazione che vive allo stato brado, spostandosi in aree definite sicure e che poi deve lasciare perché quelle aree non sono più sicure, il dramma degli ostaggi che prosegue, la violenza che cresce sempre di più di Cisgiordania e Hamas che torna agli attentati suicidi in Israele, le speranze di cessate il fuoco a Gaza sembrano poche, anche se con i negoziati non si può essere mai certi. Molto però sta cambiando. Andiamo con ordine.

I negoziati di Doha

Il principale scoglio è noto dai giorni del negoziato di Doha: la proposta di base per arrivare al cessate il fuoco avanzata dal presidente Biden ormai 80 giorni fa parla espressamente di completo ritiro militare israeliano da Gaza sin dall’inizio, ma nei colloqui di Doha Israele ha chiesto di mantenere una sua presenza militare all’incrocio di Netzarim nel cuore di Gaza dove deve passare chiunque da sud vada a nord e lungo il confine tra Gaza ed Egitto al valico di Rafah e lungo il corridoio che gli accordi di pace tra Israele e Egitto definiscono smilitarizzato (il corridoio Filadelfia, una sottile lingua di terra che separa i due territori).

Si è cominciato così a cercare un meccanismo che possa consentire l’accordo. Per Israele le due modifiche sono fondamentali per la sicurezza: la presenza israeliana a Netzarim servirebbe a evitare che tra la popolazione che tornerà dal sud dove è fuggita nel nord di Gaza si nascondano miliziani armati che poi potrebbero attaccare Israele: quella al confine con l’Egitto e al valico servirebbe a controllare che il confine non sia poroso e si facciano entrare armi.

Timori che probabilmente potevano essere espressi anche prima, visto che le negoziazioni sulla proposta Biden, da lui definita una proposta giuntagli dal governo israeliano, sono andate avanti a lungo. È noto che Netanyahu è sotto pressione da parte dei ministri contrari all’idea di un accordo e che minacciando di far cadere il governo lo portano a continui irrigidimenti. Il premier, dopo il vertice di Doha, avrebbe criticato i suoi negoziatori, troppo accondiscendenti.

Ci sono anche altri nodi spinosi e il lavoro diplomatico è intenso. L’impressione però è che il più ruoti introno a questo vocabolo: «meccanismo». Un meccanismo che soddisfi Israele e che consenta ad Hamas di non dire di no, sebbene abbia già respinto il nuovo lodo americano, ribadendo che la base di partenza di ogni accordo possibile è quella indicata da Biden – il ritiro israeliano deve essere totale. Si può trovare un meccanismo?

In questo quadro Netanyahu ha incontrato Blinken e ha apprezzato la nuova proposta americana, chiedendo però di avere comunque il diritto di riprendere la sua campagna per distruggere Hamas. Così forse neanche il meccanismo basterebbe.

Questo infatti avrebbe innervosito i mediatori, cioè Egitto e Qatar, mentre Hamas ha ribadito di rifiutare cambiamenti di qualsiasi tipo, il ritiro deve essere totale. Tutto sembra sempre più difficile e forse spiega come mai non si parli ancora della nuova autorità palestinese che con il cessate il fuoco dovrebbe governare Gaza.

Teheran e il fronte filo-iraniano

Come è altrettanto noto, la questione di Gaza si intreccia con la questione del l’Iran e dei suoi alleati, cioè le milizie filo iraniane in Libano, Iraq, Yemen, Siria. È in corso in queste un pellegrinaggio di milioni di iraniani in Iraq, un festival religioso ideato in questi anni che sembra voler ufficializzare l’influenza iraniana sull’Iraq.

L’Iran vuole il suo ruolo e peso regionale. E intanto la minacciata ritorsione per gli assassini mirati, del capo di Hamas mentre era in visita ufficiale a Teheran e del numero due di Hezbollah a Beirut, pende da tempo. Da una parte gli iraniani fanno capire che se su Gaza si trovasse un accordo potrebbero soprassedere alla loro reazione, che aprirebbe del tutto il vaso di Pandora mediorientale.

Ma cosa farebbe Hezbollah in Libano? Accetterebbe i termini di un negoziato successivo a quello su Gaza, anche per intestarsene in parte il merito e giustificare una guerra d’attrito lunghissima che non ha inciso in nulla a favore dei palestinesi?

Iran-Stati Uniti

Questi i punti interrogativi collegati e che lasciano all’orizzonte tanto il parzialmente sereno quanto la tempesta. Ma intanto si può ribadire che la perdurante minaccia, dal giorno dell’assassinio di Hanyeh, il 31 luglio scorso, stressa Israele e l’America, che tiene un’enorme armata navale in stato di massimo allerta da allora. E proprio le relazioni tra Stati Uniti e Iran appaiono il punto più opaco, ma decisivo.

I negoziati tramite l’Oman tra Washington e Tehran sono in corso, un possibile allentamento delle sanzioni economiche è citato da tutti. Diviene così importante notare che è stato finalmente scelto il nuovo ministro degli esteri iraniano, che il Parlamento voterà tra due giorni. Si tratta del vice ministro degli esteri al tempo del famoso accordo sul nucleare con l’Occidente, poi saltato per il ritiro americano deciso da Trump, Abbas Araghchi; una indicazione importante. I protagonisti di quell’accordo sono invisi ai falchi di Teheran.

Nel suo discorso programmatico al Parlamento iraniano Araghci ha detto tre cose: la priorità sarà quella di migliorare i rapporti con i nuovi amici, cioè Russia e Cina e tutto il gruppo definiamolo terzomondista, i BRICS, di cui l’Iran fa parte da tempo. La scelta strategica invece sarà il rafforzamento dell’«asse della resistenza», cioè il sostegno alle milizie khomeiniste in Libano, Yemen, Iran, Siria. Un atto dovuto viste le posizioni della Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei.

Dunque non si cambia strada: la costruzione di questo «asse della resistenza» è l’architrave su cui si basa la scelta miliziani di fare di questi paesi qualcosa di simile a quel che erano i paesi dell’est europeo ai tempi dell’Urss.

La terza indicazione che ha rilievo riguarda l’Occidente, con il quale si punterà a una «gestione delle ostilità»: parole di non difficile interpretazione, ma aperte a diverse scenari. La Casa Bianca sa che la linea dura di Trump ha portato l’Iran a trovarsi nelle condizioni di poter conseguire, come ha detto Blinken, la bomba atomica in una o due settimane.

L’Iran è stremato economicamente, ma ha nuovi rapporti anche militari con Russia e Cina. Le sanzioni, evidentemente, impoveriscono l’Iran ma non l’anima miliziana e integralista del regime, i pasdaran, che con le sanzioni lucrano su enormi traffici illeciti, arricchendo ulteriormente i propri leader e le proprie strutture.

Qui entra in scena un’indicazione politica di fondo fornita nel suo discorso di insediamento dal neo-presidente Pezeskhian. Il suo discorso, pieno di citazioni coraniche, oscilla tra due poli: da una parte la condanna khomeinista dell’imperialismo occidentale, «sistema di dominio globale»; dall’altra la denuncia dell’inefficienza, della corruzione, della discriminazione interne all’Iran.

Così Pezeshkian tenta una strada quantomeno impervia, perché chi vuole la rigidità khomeinista non vuole contrastare l’inefficienza con la quale si arricchisce; e chi vuole combattere l’inefficienza chiede di archiviare la rigidità khomeinista.

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