Il viaggio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Tripoli non è stato una visita di Stato, ma piuttosto una visita di cortesia nei confronti del premier libico Dbaibah. La ragione centrale del viaggio è stata la partecipazione al Forum Economico Italo-Libico, che si è tenuto nella capitale Tripoli a fine ottobre.
I due paesi mediterranei hanno in comune molti interessi e molte tematiche da affrontare insieme. L’Italia è il primo partner economico della Libia e lo scambio commerciale annuale tra i due paesi supera i 9 miliardi di euro. L’Eni è la principale società petrolifera operante in Libia e ha piani di sviluppo promettenti per ricerche petrolifere e di gas.
Il ruolo politico dell’Italia non corrisponde tuttavia a tale realtà economica. Le tre ambasciate che contano a Tripoli sono quelle degli USA, della Gran Bretagna e della Turchia. Le prime due per il loro ruolo internazionale di primo piano oltre che per l’impegno militare profuso nell’abbattimento del dittatore Gheddafi nel 2011; la Turchia per l’intervento, con oltre 18 mila mercenari siriani, per respingere l’offensiva del generale Haftar, che nel 2019/2020 era arrivato, con il sostegno dei mercenari russi e l’aviazione emiratina, fino alle porte di Tripoli.
L’Italia allora aveva tentato di mediare, cercando di mettere i suoi piedi “in due scarpe”. Ma, malgrado il forte sostegno di Roma al governo Sarraj – e la presenza di militari italiani a Tripoli e Misurata – l’intervento turco ha declassato l’influenza italiana nelle vicende libiche.
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A causa delle rivalità tra Roma e Parigi, il ruolo europeo nel districare l’ingarbugliata matassa della situazione politica libica, era stato affidato alla Germania. Il processo, guidato dall’ONU, doveva portare alle elezioni politiche e presidenziali alla fine del 2021. Ma nulla è mai ripartito dopo la prima fase di insediamento del governo “provvisorio” guidato dal premier Dbaibah.
Uno dei punti deboli della posizione italiana è la mancata visione globale della situazione libica e il fossilizzarsi su due soli temi: il mantenimento del dominio sulla produzione e l’esportazione di petrolio e gas, e la questione immigrazione. Si tratta di un approccio sbagliato strategicamente, che ha fatto perdere molte occasioni per ottenere un vicino di casa stabilizzato politicamente, con conseguente e reale capacità di controllo su ciò che succede sulle coste libiche (in preda al malaffare) e un maggiore impulso allo sviluppo economico del paese. La vicinanza all’Italia, con gli storici legami di collaborazione, avrebbe potuto garantire un coinvolgimento molto più incisivo dell’Italia nelle vicende libiche.
Il viaggio – secondo le comunicazioni ufficiali del governo italiano – è stato centrato, quindi, sull’impegno per il blocco del traffico dei migranti, col corollario del contributo italiano alla stabilità della Libia: il tutto nel quadro del tanto propagandato, ma mai del tutto chiarito, “piano Mattei”. Questi due temi sono stati trattati nell’intervento della presidente del Consiglio al Forum, così come nei comunicati stampa che molti media italiani hanno purtroppo semplicemente riportato (copiato) senza alcuna riflessione critica.
Sappiamo che, sinché non ci sarà un governo unitario in Libia e non avverrà una vera riconciliazione, l’imperversare delle milizie in Tripoli mai consentirà il blocco dei flussi irregolari verso le coste italiane.
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Il business del traffico di esseri umani è enorme ed è gestito da cartelli criminali sovranazionali. La presenza delle milizie sin dentro al centro del potere tripolino rende del tutto impossibile governare la questione immigratoria. Abbiamo ben presenti gli esempi delle milizie che, di giorno, operano come guardie costiere e, di notte, come organizzazioni di trafficanti.
Delegare alle Guardie costiere libiche, con qualche fornitura di motovedette di seconda mano, il ruolo di respingere i migranti, non ha evidentemente risolto il problema negli ultimi 10 anni. I programmi, quindi, andrebbero radicalmente ripensati con seri investimenti produttivi per creare posti di lavoro per i migranti, sia nei paesi di origine, sia nei paesi di imbarco – la Libia appunto – aprendo la facoltà di ottenere regolari visti d’ingresso per ricerca di lavoro. Per la verità, elementi di questo tipo sono rintracciabili nel discorso che la presidente del Consiglio ha pronunciato a Tripoli. Ma il problema è passare dalla politica degli annunci a quella dei fatti.
Analizzando la sostanza degli 8 accordi economici sottoscritti durante il Forum, scopriamo, in realtà, che si tratta di impegni già presi da società italiane in Libia (soprattutto dall’Eni), oppure di accordi quadro per la regolamentazione di procedure economiche e finanziarie tra i due paesi. Tranne un contratto per la costruzione di una strada ad ovest di Tripoli, firmato da una società italiana con il governo libico, non si notano altre novità di rilievo.
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Faccio due note alle cifre fornite in quel discorso.
Quando si parla di “flussi legali per 450 mila lavoratori in 3 anni” noto che è un argomento che sento da moltissimi anni, mai applicato nella realtà, malgrado il fabbisogno del mercato del lavoro in Italia e in Europa: un doppio danno per l’Italia, perché l’immigrazione illegale alimenta il lavoro nero e, di conseguenza, la perdita, per lo Stato italiano, di preziose entrate fiscali e previdenziali.
La seconda nota riguarda l’apporto italiano alla cooperazione con l’Africa nel quadro del sopracitato “piano Mattei”. In un’intervista, la presidente Meloni ha parlato di 200 milioni di €, senza precisare che la cifra è per tutta l’Africa e che, nella fase sperimentale attualmente in corso con progetti pilota, interessa soltanto 4 paesi – Egitto, Algeria, Tunisia e Mozambico – e neppure la Libia.
Il Forum economico italo-libico ha costituito una occasione importante per accelerare lo scambio economico. Ma c’è la necessità urgente di dare una scossa ai rapporti reciproci, con programmi strategici che non si limitino a cullarsi nello status quo. La situazione interna libica è ancora altamente instabile e l’area mediterranea è percorsa da concorrenti che procedono a tripla velocità rispetto a quella italiana: non da ultimi, faccio riferimento a Turchia ed Egitto.
Articolo perfetto e ben articolato. Il ruolo italiano nel mediterraneo non può limitarsi al contenimento dei flussi migratori. Infatti il progetto “Mattei” è solo politico e tende a sondare le resistenze internazionali alla acquisizione di una “sovranità energetica” impedita al nostro paese anche con l’omicidio del Presidente dell’Eni. Le tre nazioni vittoriose nell’ultimo conflitto non considerano l’Italia un paese con diritto ad esercitare liberamente strategie economiche “alla pari” con gli altri competitors mondiali. Invito l’ottimo articolista a considerare anche gli esiti futuri di un conclamato fallimento del paradigma globalista e del collasso del sistema bipolare. Oggi si parla apertamente di una nuova “jalta” e di un ridisegno del ruolo dell’occidente negli equilibri geopolitici. Il governo Meloni tentera’ in questo scenario di acquisire un peso più determinante in Europa per muoversi nel Mediterraneo esercitando politiche meno imbrigliate da America, Francia e Inghilterra. Riflettiamo si queste scelte.