Quando si parla o si scrive di Africa, i sentimenti che sembrano prevalere, sono quelli della paura, dell’insicurezza, del “dobbiamo difenderci”. A fronte della nuova emergenza migratoria con il caso di Ceuda, dove in una sola notte sono arrivate dal Marocco in Spagna oltre 8mila persone, di cui 2 mila minori, abbiamo parlato con Raffaele Longo, presidente della onlus Missione Africa.
- Da un recente sondaggio emerge che la percezione dell’italiano medio è che il nostro paese sia in balia di una vera e propria invasione di migranti. C’è paura e chiusura. L’Africa è percepita come fonte di insicurezza. Da studioso ed esperto del continente africano come lo spiega? L’Africa è davvero solo questo, per noi italiani, per noi europei?
La paura e la conseguente sensazione di insicurezza nascono a mio avviso dalla scarsa conoscenza del continente Africano. Ed è proprio la scarsa conoscenza dell’altro che innesca quell’insieme di emozioni negative e sfavorevoli che emergono quando ci si trova davanti a persone con caratteristiche differenti rispetto alle proprie, come il colore della pelle.
Molto raramente i media parlano del continente africano, a meno ché non si tratti di episodi violenti dove sono coinvolti persone occidentali o qualche scontro etnico, molto raramente arrivano notizie positive sui nostri schermi. È un po’ come essere al buio: fin tanto che non si accenderà una luce, non ci si sentirà a proprio agio.
Purtroppo, ancora oggi, l’Africa è per molti una stanza buia. Un continente di oltre 1 miliardo e mezzo di persone che noi conosciamo veramente poco. 54 Stati sovrani che per noi sono a volte solo un nome da associare ad un qualche conflitto cosiddetto etnico o signore della guerra. La luce andrebbe accesa già dai giorni della scuola per abituare i nostri occhi a vedere oltre il colore della pelle e ad apprendere che l’altro, quello che spesso noi chiamiamo il diverso, puà essere una grande occasione di confronto e di crescita.
Noi cerchiamo ormai da molti anni di dare anche la possibilità di guardare da vicino “l’Africa”. È una strada per capire che di spaventoso ed insicuro c’è davvero poco. C’è invece tanta vitalità, voglia di migliorare pur restando se stessi, speranza nel futuro ed impegno nel costruirlo ed uno spirito accogliente verso lo straniero. Chi incontra davvero l’Africa torna più ricco ed è questo che dovremmo imparare in Italia ed Europa.
- C’è chi utilizza in modo distorto la frase “Aiutiamoli a casa loro”. Per Lei cosa significa realmente “aiutarli a casa loro”?
Significa intanto stravolgere i rapporti di forza instauratisi tra Europa/Mondo Occidentale ed Africa negli ultimi 600 anni, allentando pressione che alcuni paesi occidentali esercitano sulle proprie ex colonie influenzando sopratutto le scelte economiche.
Il continente africano è stato prima razziato della sua migliore e più capace gioventù, poi delle sue immense ricchezze minerarie. Il primo aiuto a casa loro sarebbe smetterla di corrompere chi dovrebbe amministrare a vantaggio della propria gente. Inoltre un aiuto concreto sarebbe la cancellazione del debito pubblico, un debito pagato già molte volte e non solo con lo sfruttamento delle risorse naturali del continente, ma anche con un enorme contributo di sangue: “non possiamo pagare, perché sono gli altri che hanno nei nostri confronti un debito che le più grandi ricchezze non potrebbero mai pagare, cioè il debito di sangue” – Thomas Sankara ex presidente del Burkina Faso.
Un altro aiuto a casa loro potrebbe essere il considerare l’Africa come un immenso mercato che per ora è esplorato quasi in monopolio dalla Cina. La voglia di cambiamento delle popolazioni è grande. Tutti sognano di vivere meglio e l’unica strada è il lavoro.
Dovremmo cercare di dare la possibilità di lavorare in imprese locali che potranno magari nascere da esperienze di collaborazione (non di sfruttamento) con le nostre migliori realtà. Sviluppare un modello economico di ricchezza più diffusa grazie ad un lavoro equamente remunerato non può che far espandere un mercato pieno di potenzialità. Aiutarli a casa loro non può più voler dire fare l’elemosina. E lo sanno anche in Africa.
- Secondo lei l’Italia in Africa cerca interlocutori per la crescita, non solo economica ma civile, politica, democratica, o dei Gendarmi che custodiscano, non importa come, le frontiere del esterne?
In genere un popolo ha come obbiettivo primario quello di cresce e svilupparsi prevalentemente sul proprio territorio, va messo in conto però, che una piccola percentuale di persone cerchino altrove le occasioni di crescita sociale che non hanno potuto trovare in patria.
Le grandi migrazioni invece, sono sempre il frutto di grandi sconvolgimenti sociali, climatici ed impoverimento del proprio territorio. Non vedo l’Italiaavere progetti lungimiranti in Africa, pochi interventi spot, più come grandi appalti che come opportunità di costruire durature joint venture.
Lasciare che l’Africa venga depredata dalle grandi super potenze e dalle fameliche multinazionali, non farà altro che aumentare il flusso di disperati che attraccheranno sulle nostre coste in cerca di un futuro migliore e pagare i diversi governi autoritari che usano questi disperati come ricatto verso l’Europa non risolve certo il problema.
Queste risorse andrebbero dirottate verso i paesi di origine di questi migranti, con politiche che garantisco per prima di tutto la tutela dei diritti umani, e poi seri e concreti percorsi di formazione per una graduale e costante crescita professionale delle nuove generazioni.
- Quali sono i vostri progetti in sintesi in Africa. Avete ulteriori azioni/iniziative in programmazione?
Dal primo giorno abbiamo pensato che per mettere a frutto le nostre poche risorse, il modo migliore era quello di investire sulla formazione, ci è sembrato naturale finanziare per quanto nelle nostre possibilità, la costruzione di scuole nelle realtà rurali nel nord del Kenya e permettere ad un numero sempre maggiore di bambini di frequentare la scuola primaria e secondaria.
Questo permetterà di dare un grande contributo alle nuove generazioni di cittadini. In Benin lavoriamo principalmente nella campo della salute, collaborando con realtà missionarie in loco per la realizzazione di punti nascita e dispensari.
Il nostro nuovo progetto in Benin, vuole essere un Centro di accoglienza per bambine destinate ai matrimoni precoci, piaga ancora molto diffusa nelle zone rurali del Nord. Abbiamo cominciato quest’anno con 5 bambine di etnia Peul, bambine dai 12 ai 14 anni che erano destinate a sposarsi con uomini molto più grandi di loro.
Queste bambine che non erano mai andate a scuola, oggi frequentano un corso di scolarizzazione e un laboratorio per la lavorazione del Karitè. Ora stiamo penando di realizzare un Campus per ospitare un a regime, un centinaio di bambine, che potranno frequentare la scuola, e allo stesso tempo fare dei percorsi professionali per poter entrare nel mercato del lavoro quando, appena maggiorenni, lasceranno il collegio.
Oggi è già operativo un progetto sul burro di Karité, e questo diventerà un primo stage professionale, al quale vorremmo affiancare uno di taglio e cucito, parrucchiera, panificio, informatica, fotografia. Dopo un decennio di interventi di emergenza, ora abbiamo l’esperienza e per costruire un progetto che contribuisca a formare le donne del domani.
- In collaborazione con la rivista online Focus on Africa.