La rivista dei gesuiti australiani Eureka Street ha pubblicato un articolo sulla situazione a Myanmar dopo il colpo di stato avvenuto nella notte del primo febbraio – giorno in cui si sarebbe dovuto insediare il secondo governo civile eletto dal popolo.
Mentre continuano gli arresti di attivisti e persone che si oppongono al regime militare, e si hanno le prime notizie di uccisioni di massa tra le folle che scendono in strada per protestare, la generazione più giovane del paese ha iniziato a mettere in atto una strategia non violenta contro l’imposizione del regime marziale e la violazione della costituzione per mano dei militari: “la Generazione Z fronteggia il pericolo mortale del regime con umore e una protesta creativa (…).
Studenti percorrono le strade delle città con dei sacchi di cipolle, solo che i sacchi sono pieni di buchi. Le macchine, quindi, devono fermarsi e aspettare che gli studenti raccolgano le cipolle rimettendole nei sacchi bucati. Ogni sera, dalle 20, si sente il rumore di pentole e padelle percosse per circa quindici minuti: la protesta dei secchi di metallo”.
Nel frattempo si è creato un Movimento di disobbedienza civile, le cui azioni consistono primariamente nel non presentarsi al lavoro in attività strategiche per la vita del paese e per lo stesso regime militare – come le banche o gli ospedali.
“L’esercito burmese sembra non avere alcuna strategia per fronteggiare una protesta se non quella dell’uso della forza (…). Non sembrano essere preparati davanti a un’ampia risposta popolare, e non avevamo messo da conto la creatività dei giovani che protestano o le azioni del movimento civile di disobbedienza”.
Il golpe è sostanzialmente un furto operato dai militari nei confronti di tutta la popolazione: per avere il controllo diretto sulle ricchezze naturali del paese. Se la creatività non violenta dei giovani e le azioni mirate della disobbedienza civile possono rappresentare una risposta efficace alla violenza militare, il paese però deve fare i conti con una profonda frammentazione etnica che lo divide al suo interno: “nessuna popolazione, nessun gruppo sociale, è in grado da solo di ottenere pace, prosperità, sicurezza e una vita serena”.
Solo un processo politico di federazione di tutte le realtà etniche e religiose di Myanmar può mettere in campo una fronte in grado di condurre in porto la lotta per la democrazia e il rispetto dei diritti umani – come avvenne alle origini della fondazione della nazione nel 1948, quando “i rappresentanti dei sette maggiori gruppi etnici furono i co-fondatori dell’Unione. Essi si impegnarono al rispetto dei principi di uguaglianza e autonomia”. Questa idealità fondativa deve diventare ora una realtà politica per liberare il paese dal giogo militare.
Particolarmente apprezzata l’attenzione di papa Francesco, espressa più volte nel mese di febbraio: “quello che vediamo chiaramente nelle strade di duecento città di Myanmar è che, come ha detto papa Francesco, ‘le nostre vite sono intrecciate insieme e sostenute da gente comune – spesso da persone dimenticate che, senza dubbio, in questo momento stanno scrivendo le pagine decisive dei nostri tempi’. A Myanmar papa Francesco ha detto: rilasciate i leader imprigionati, onorate il voto di milioni di persone, ritornate alla democrazia, supportate la dignità e la libertà. E pregate per il popolo di Myanmar”.