Emanuele Giordana è giornalista e redattore dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo. L’intervista è di Giordano Cavallari.
- Emanuele, c’è una guerra – dimenticata – oggi in Myanmar?
Certamente sì. È una guerra volutamente oscurata dai media generalisti, peraltro non solo italiani. Si ritiene o si vuol far ritenere che si tratti di una guerra a “bassa intensità”, come ce ne sono tante, purtroppo, nel mondo.
Invece – secondo autorevoli istituti di ricerca quali Human Rights Watch e Armed Conflict Location – è una guerra assai “intensa”, che ha fatto più di 30.000 morti in due anni, ossia dal colpo di stato che ha abbattuto il governo di Aung San Suu Kyi nel febbraio del 2021.
Si tratta del terzo dato – in ordine di quantità di sangue umano sparso – dopo la guerra d’Ucraina e di Siria – altra guerra, tuttora in corso, totalmente sottovalutata! – nel corso del 2022.
La guerra in Myanmar si è fatta più atroce negli ultimi sei mesi, cioè da quando la giunta militare ha deciso di impiegare massicciamente l’aviazione per attaccare e piegare, dall’alto, la resistenza.
- Perché questa violenta intensificazione del conflitto armato?
Perché la giunta militare al potere, di fatto, controlla solo il 20% circa del territorio birmano: qua e là, in certe città, lungo il corso centrale del fiume Irrawaddy; mentre la più gran parte dei territori rurali, con la gente che vi abita, sta dalla parte della resistenza e dell’opposizione col sostegno armato degli eserciti regionali: da ciò la strategia militare della giunta di colpire con mezzi aerei le zone popolate dai “resistenti”.
I soldati del regime non osano entrare – via terra – in certe zone: verrebbero attaccati e sconfitti.
- Cosa sono gli eserciti regionali?
Gli eserciti regionali appartengono alla storia di questo composito Paese (cf. qui). Da sempre esistono diversi eserciti, con tendenze autonomiste e rivoluzionarie, più o meno collegati, ovvero ostili al governo centrale. Dopo il colpo di stato del 2021, questi eserciti regolari sono schierati con l’opposizione civile e politica, avverso alla giunta militare centrale. Parimenti, la resistenza, da civile e pacifica – perseguitata e repressa nel sangue – si è fatta, sempre più, inevitabilmente, una resistenza anche armata.
La popolazione
- Ci sono, quindi, morti tra i civili?
Decisamente. Ci sono state tante stragi di civili, sia perché, quando si bombarda dall’alto, non si distingue tra ciò che è militare e ciò che non lo è, sia perché la giunta militare vuole così, deliberatamente, colpire e punire le popolazioni che stanno con gli oppositori.
Basti dire che ci sono prove dell’impiego di bombe termobariche, quelle che esplodono due volte: una prima volta ad altezza d’uomo e poi al suolo, uccidendo e ustionando le persone in un vasto raggio. Queste bombe sono chiaramente usate per affliggere i civili più che i combattenti.
Non ci sono dati certi che consentano di dire quanti sia i morti civili rispetto ai militari. Ma, ad esempio, in maggio, è stato bombardato un villaggio nello Shan: si sono contati 168 morti certi, di cui 159 civili. In quel caso è stato preso di mira un edificio amministrativo istituito dalla resistenza durante una sorta di inaugurazione o festa: sono morti anziani, con donne e bambini. Si dovrebbe parlare, anche in questo caso, di “crimine contro l’umanità”.
- Come vive la gente nelle zone liberate dalla resistenza, nelle campagne?
Vive nell’incubo delle rappresaglie e del fuoco dal cielo. Vivere nelle campagne significa inoltre non avere aiuti, né dal governo, né da nessuno, per far funzionare le scuole e gli ospedali.
Significa poi non disporre di energia elettrica – quindi di acqua potabile e di mezzi di comunicazione – se non per tre al giorno, nella migliore delle situazioni.
Questa è la condizione sociale in cui versa, appunto, la gran parte del Paese che non accetta la sottomissione al regime militare centrale. Ciò spiega i due milioni di sfollati interni che, ormai, si stanno riversando anche in Thailandia e in India.
- Chi li aiuta?
Non c’è nessun aiuto organizzato e voluto a livello politico. C’è solo l’umana solidarietà tra la povera gente. In questo caso la possiamo definire solidarietà cristiana, perché, ad esempio, nello Stato indiano “cristiano” del Mizoram, sono ospitati circa 70.000 profughi birmani a maggioranza cristiana.
Violenze e diritti umani
- Hai notizie di altre violazioni dei diritti umani, quali campi di reclusione e torture nel Paese?
I prigionieri politici detenuti dal regime sono migliaia. Atti sistematici di tortura non sono documentati, ma circolano immagini di decapitazioni, di mutilazioni di arti e di altri fatti molto gravi: si tratta, probabilmente, di esecuzioni perpetrate dai miliziani della giunta al potere su guerriglieri e fiancheggiatori della resistenza birmana. Nella logica del regime servono da monito alla popolazione.
- Accade qualcosa del genere anche dall’altra parte?
Non lo posso escludere: in guerra, nelle spirali dell’odio e della vendetta, sempre tutto può accadere. Non c’è tuttavia nulla che, in questo momento, me lo dica.
L’aspetto – esecrabile – riguarderebbe l’impiego di ragazzini dai 14 ai 18 anni nei servizi di supporto non armato a chi combatte. Si tratterebbe di orfani aggregati alla resistenza armata. L’opposizione al regime dichiara, tuttavia, l’osservanza della Convenzione di Ginevra sui minori.
- Chi fornisce armi alle parti?
Per quanto riguarda la giunta militare, la cosa è nota: Russia e Cina sono i fornitori. Può darsi che – nel corso della guerra in Ucraina – le forniture di armi dalla Russia siano diminuite, ma sicuramente non si sono interrotte. Nel quadro internazionale, Putin ha bisogno anche di questi alleati: non può lasciarli perdere.
Per quanto riguarda la resistenza birmana, la provenienza delle armi è meno chiara. Consideriamo tuttavia che gli eserciti regionali sono armati da tempo. Il tentativo dei governi centrali di disarmarli, dall’indipendenza del 1948, non è mai riuscito. L’ultimo tentativo di disarmare il Myanmar con una Conferenza Internazionale di Pace è stato provato da Aung San Suu Kyi, giusto un anno prima del colpo di Stato.
Allora si era enucleata l’ipotesi di una Federazione Birmana e alcuni gruppi autonomisti si stavano effettivamente avviando verso una prospettiva di disarmo e di pace. È presumibile che questi gruppi abbiano ripreso a rifornirsi di armi dai Paesi limitrofi, Thailandia e India: questi non si negano, più meno manifestamente, a tali traffici, perché hanno il loro interesse nel “tenersi buoni” questi vicini. Altre armi arrivano, probabilmente, dalla Cina, attraverso lungo viaggi clandestini.
Certo è che la potenza di fuoco delle armi della resistenza non è paragonabile a quella del regime.
- Sono presenti contractor – milizie a pagamento – in Myanmar?
Non mi risultano informative in tal senso. Mi sembra da escludere la presenza di gruppi assimilabili alla “Wagner” o a “Black-Water”.
Sono altresì presenti organismi di per sé dediti al sostegno umanitario ma militarmente organizzati per ragioni di sicurezza. Ci può essere, talvolta, qualche continuità tra questi e gruppi armati locali. Naturalmente si tratta di qualche organismo poco trasparente.
Rohingya
- Qual è la situazione dei Rohingya attualmente?
La vicenda dei Rohingya è dolorosa e complicata da diversi punti di vista. Peraltro, si è pure abbattuto, recentemente, un uragano disastroso sulle strutture che stanno ospitando un milione di Rohingya in Pakistan, appena al di là del confine e della zona dell’Arakan, da cui provengono. I Rohingya sono stati cacciati dal Myanmar nel 2017 dal governo di Aung San Suu Kyi, ma le discriminazioni nei loro confronti e gli esodi risalgono a ben prima.
La giunta militare ha tentato un’operazione d’immagine sui Rohingya visitando i campi profughi coi mezzi delle Nazioni Unite, sostenendo di avere un piano per il loro reinsediamento in Myanmar: cosa a cui nessuno crede.
Vero è piuttosto che l’opposizione birmana si sta mostrando positivamente attiva anche sul lato dei Rohingya: il processo costituente che è stato avviato nella clandestinità, almeno sulla carta, comprende anche loro, quale etnia nella nazionalità birmana, a pieno titolo. Naturalmente, passare dalla carta ai fatti è molto complicato.
- Sono in corso, dunque, dialoghi – anche tra le etnie – e ci sono prospettive positive per il Myanmar?
Il fatto politico interessante – nel marasma violento della guerra – è sicuramente il tentativo del governo centrale clandestino di ricreare l’unità nazionale. Questo “governo” sta dando luogo a organismi legislativi a carattere consultivo con cui sta cercando di interpellare tutte le etnie e tutti quanti i birmani.
Il metodo è quello giusto, quello democratico, con cui si procede a maggioranza. Si sta prefigurando un Myanmar federato e rispettoso delle autonomie. Ad esempio, il piano dell’istruzione prevede che in tutte le Regioni venga insegnato il birmano, insieme alla lingua locale e ad una lingua straniera.
La comunità internazionale
- Ma – prima – come potrà mai finire questa guerra?
Purtroppo, penso che la guerra durerà ancora a lungo e che sarà solo il rapporto di forze a determinarne le sorti.
Come ho detto, la giunta militare golpista non ha consenso nel Paese e con questo deve necessariamente, costantemente, fare i conti: anche nelle zone controllate militarmente il consenso non arriva al 10%.
La gente fa il confronto col tempo della democrazia, provata sino a due anni fa, per quanto fosse una democrazia imperfetta. Ora la moneta è carta straccia, l’inflazione galoppa, c’è la crisi energetica, tutto va male e non c’è neppure la possibilità di dirlo. Non potrà andare avanti così troppo a lungo. L’elemento del consenso-dissenso popolare peserà sempre più: è questo il migliore segnale e d’auspicio, oggi, per il Myanmar.
- La comunità internazionale – quella che si dice lavorare per la democrazia – come potrebbe intervenire, secondo te, in questo caso: inviando armi a sostegno dell’opposizione al regime?
La comunità internazionale che si vuole democratica sembra oggi non mostrare altro modo di “aiutare” che non sia quello di mandare armi o di procurare contractor: in qualche caso e in qualche misura – specie quando i regimi sparano sugli inermi – ciò può essere giustificato.
Ma io penso che ci siano tanti altri modi di aiutare – da studiare e da sviluppare – in vista di un diverso futuro del mondo, se si vuole che ci sia un futuro. Bisogna pensarci ben prima che i conflitti esplodano con tale cruenza.