Nel mondo di Putin

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La morte di Aleksei Navalny e le nuove elezioni presidenziali che si terranno tra il 15 e il 17 marzo in Russia, hanno acceso ancor più i riflettori sulla guerra in corso, scoppiata il 24 febbraio del 2022 con l’invasione dell’Ucraina.

Le cose sono peggiorate

Navalny l’avevo incontrato il 6 febbraio del 2012 durante la più grande manifestazione pre-elettorale, dove migliaia e migliaia di persone sfilavano per le strade di Mosca. Era sul palco.

C’erano dissidenti e politici che scuotevano le coscienze. Mancava solo un mese alle presidenziali russe del marzo 2012 e la gente, il popolo, voleva gridare contro la nuova rielezione di Putin. Avevano organizzato una grande marcia per dimostrare il loro disappunto al vecchio sistema e la voglia di cambiamento.

Desideravo continuare il lavoro sui giornalisti di prima linea e da giorni ne parlavo con Andrej Mironov, il mio amico e interprete: aveva contattato Oleg Kasin, l’ultimo cronista minacciato, gravemente ferito e sfuggito alla morte, ed era riuscito a fissare una intervista. Kasin, ci aspettava a casa sua, dove verso le sette di sera del giorno dopo, suonammo il campanello e poco dopo iniziammo l’intervista.

Si può affermare che c’è libertà di stampa in Russia?

«No. Per meglio dire non si può affermare che c’è libertà di espressione. In Russia c’è una potentissima autocensura: quando un redattore si rende conto che su certi argomenti non si può scrivere, perché dopo sorgeranno problemi e perché perderebbe gli introiti pubblicitari che spesso rappresentano una forma di bustarella per giornali e canali televisivi, si arriva alla conclusione che la libertà di espressione non c’è. Natalia Timakova, addetta stampa di Medvedev, e Dimitrj Peskov, addetto stampa di Putin, sono dei politici ben più influenti di qualsiasi ministro, perché il Cremlino ha un’idea molto chiara in proposito: se controlli i mass media, innanzitutto la televisione, allora controlli il Paese. L’addetto stampa ha più potere, per esempio, del ministro della Difesa».

Ieri l’ho vista sfilare con i manifestanti: lei cosa spera e la gente cosa spera per il futuro?

«Per me è importante che la gente abbia imparato a scendere in piazza, a partecipare attivamente alla vita politica del paese, a diventare osservatrice del voto e far crescere il proprio attivismo civico. Non mi importa chi sarà eletto presidente e quale percentuale di consensi si farà assegnare Putin: ciò che è avvenuto in piazza vale molto di più del calendario politico fittizio secondo il quale vivono gli inquilini del Cremlino. Quello che è accaduto ieri è ciò che conta».

L’attuale Costituzione prevede la rieleggibilitá di Putin?

«È una domanda interessante, perché la Costituzione non permette agli impiegati pubblici in servizio di partecipare alle presidenziali. Putin è il primo ministro in carica e proprio alla vigilia di queste presidenziali, di punto in bianco, si è scoperto che il primo ministro non è un impiegato pubblico. Nella Costituzione c’è scritto che una persona non può ricoprire la carica del presidente per più di due mandati, ma in assenza della parola “consecutivi”, dopo la dicitura “dopo due mandati”, ecco che abbiamo il ritorno di Putin».

Da allora le cose sono peggiorate. Alla stampa, il regime ha messo un totale bavaglio: o con Putin o in prigione. Le poche testate giornalistiche «libere» hanno dovuto o chiudere o trasferirsi all’estero.

Da quando Putin è stato rieletto nel 2012 con un consenso pari al 67 per cento è riuscito a cambiare la legge dando la possibilità di rielezione e cambiare la durata di potere, da quattro a sei anni.

Ecco che ora, appunto alla vigilia delle elezioni, anzi rielezioni, senza ostacoli, senza nessun serio concorrente, tornerà al Cremlino per altri sei anni più sei, insomma fino alla fine della sua vita. Questo è «regime», questa è una imposizione «neoimperialista».

Come reporter televisivo, mi sono sempre impegnato a raccontare la sofferenza dell’uomo, i diritti negati, i disastri ambientali che si stanno verificando su scala planetaria.

I segreti nucleari

L’Unione sovietica, fino ai primi anni Novanta, era un territorio sconosciuto e nascosto, quasi inaccessibile a chi volesse indagarlo con la libertà di un giornalista indipendente.

Con la caduta del muro di Berlino, si sono aperti i primi varchi per poter viaggiare in quel territorio vastissimo e questo mi ha permesso di iniziare a raccogliere storie e testimonianze per la trasmissione Report di Milena Gabanelli, di cui avevo appena cominciato a far parte e con cui ho continuato a lavorare con orgoglio per quasi venti anni.

La prima inchiesta è stata quella sulla Pattumiera nucleare: si era aperta la possibilità di stoccare e portare in Russia, in una «città chiusa» le nostre scorie radioattive. Da quella inchiesta partirono i miei lunghi viaggi durati fino ad oggi.

Una ricerca del passato e del presente del mondo ex sovietico che mi ha portato a indagare tra gli orrori e le testimonianze dei gulag siberiani, tra le rovine di Grozny e i campi profughi della Cecenia, i depositi di armi chimiche e biologiche delle città segrete degli Urali e in Siberia, le mille vie del gas che alimentano il potere sotterraneo della nuova Russia.

A 50 chilometri da Nvosibirsk, a Kolzovo, c’è il centro biologico più grande al mondo dove sono conservati gli stami di trecento agenti patogeni mortali, potenzialmente capaci di distruggere l’intera popolazione mondiale.

E lì, sequestrato, sono finito sotto inchiesta dell’FSB perché ritenuto una spia. Grazie al pronto intervento della RAI, di Milena Gabanelli e dell’Ambasciata italiana a Mosca ho ottenuto la liberazione dopo 15 ore di pressante interrogatorio.

Nella zona degli Urali invece ho raccolto testimonianze e immagini dei cinque depositi di armi chimiche: un potenziale incredibile di «armi di distruzione di massa». Vedendo tutti quegli armamenti ho pensato che la Russia è e sarà imbattibile in una guerra.

Ricordando Anna Politkovskaja

Difficile capire i missili sulle città ucraine senza essere stati tra le macerie di Grozny nel 2000, senza aver vissuto la gioia dei giovani nella rivolta arancione in Piazza Maidan nel 2014, senza aver conosciuto l’onestà intellettuale e l’integrità di una donna coraggiosa come Anna Politkovskaja che ho incontrato varie volte nella redazione della Novaja Gazeta. E senza aver vissuto settimane di avventure, emozioni e drammi, dall’Ossezia del Sud e le valli del Caucaso, accompagnato da un uomo straordinario che ben conosceva quel mondo, il mio amico Andrej Mironov.

Da anni, Anna Politkovskaja era la testimone più onesta e credibile sul fronte della guerra cecena: doveva gridare al mondo con la sua voce la tragedia dell’uomo che soffre, dei civili che, vittime senza colpa, hanno un unico torto se non quello di essere in Cecenia e di trovarsi a casa loro.

Essere giornalisti di prima linea in Russia vuole dire dover affrontarne due, di prime linee: una è quella della guerra, l’altra è quella del sicario che ti aspetta cinicamente con la pistola proprio nell’ascensore del tuo palazzo. Come dicevo, per capire meglio le reazioni della popolazione cecena di fronte all’offensiva russa, nell’agosto 2003 ho incontrato a Mosca Anna Politkovskaja, autorevole giornalista della Novaja Gazeta, una delle voci più coraggiose che hanno osato criticare la politica di Putin.

Non schierata politicamente, attenta soprattutto a difendere la supremazia dell’etica e del rispetto per la vita, la Politkovskaja denunciava allo stesso modo i soprusi dei militari russi e le violenze dei guerriglieri ceceni che continuavano a fornire alibi alla repressione.

Nell’intervista le chiedo se qualche volta ha paura, paura del Cremlino, se non ha mai pensato di essere più prudente in quello che scrive e che denuncia. «Certo che ho paura» mi risponde «ma questa è la mia professione. Avere paura è una cosa tua personale. Ciò che conta è dar voce alla gente, raccontare questa grande tragedia del nostro paese. Perché lì la gente muore, ogni giorno, si consumano orrori indescrivibili. E avere paura o non averne poco importa, questa è la mia professione».

Altra voce importante è quella del direttore della Novaja Gazeta, Serghei Sokolov, diventato ormai amico dopo innumerevoli incontri nella sua redazione. In una delle tante interviste gli chiedo se c’è libertà di espressione in Russia.

«In Russia non si può parlare di libertà di espressione, ma di libertà nel ricevere e accedere alle informazioni. Tutta la televisione federale, tutti i canali, sono di pura propaganda, una grossa macchina di propaganda».

Continuo nel chiedere se quello del gas è un mondo trasparente e mi risponde così:

«Nella Federazione Russa non esiste nulla di trasparente per quanto riguarda il mercato del gas. Parlare di trasparenza in relazione a Gazprom è impensabile! Sarebbe come parlare di trasparenza per i casinò clandestini».

Quindi, legandomi a queste due domande, gli chiedo se per la Russia abbia senso parlare di democrazia:

«In Russia esistono tribunali indipendenti, quando i processi non interessano la sfera politica o il grande business. Quando invece cominciano a toccare la politica o i grandi affari, allora i tribunali diventano di Stato e non sono più indipendenti. È tutto dire, inoltre, che non esistono tribunali amministrativi, malgrado la Costituzione li preveda, e quindi il singolo non può intentare causa allo Stato».

Tornando a Politkovskaja, la guerra di cui parlava era quella, già spietata della Cecenia, colpevole di volersi governare da sola.

E Anna Politkovskaja, instancabile nella sua denuncia delle brutalità ai danni dei civili, tre anni dopo sarebbe caduta nell’androne del suo palazzo, uccisa da tre colpi di pistola. I suoi killer sono stati arrestati, dei loro mandanti ancora oggi non si sa nulla.

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Transiberiana

Per capire l’anima più profonda della Russia ho voluto vivere anche il lungo viaggio sui binari della Transiberiana, che dai tempi degli zar collega Mosca a Vladivostok. Io l’ho fatto al contrario, partendo dalla città affacciata sul mar del Giappone, dove avevo appena filmato e raccolto testimonianze sui sommergibili arrugginiti abbandonati nella grande base navale russa, con il loro carico radioattivo ancora intatto: una bomba a tempo con un potenziale distruttivo equivalente a dodicimila bombe di Hiroshima.

Erano passati cento anni esatti dalla costruzione della ferrovia quando la notte di capodanno del 2006 mi trovai tra le isbe coperte di neve e i loro camini fumanti nella taiga più desolata della Siberia, in un paesaggio che mi ricordava l’epopea di Dersu Uzala.

Anche quella volta ero con Andrej Mironov e lui mi raccontava della sua infanzia a Irkutsk, dove ancora nel 1916 si parlava francese. «Quando arrivarono i bolscevichi», spiegava, «entravano nelle case e distruggevano tutte le cose più belle. Tutti devono essere uguali, dicevano, e nessuno doveva avere più di altri. Ma poi sono arrivati Stalin, i gulag, la carestia dell’Ucraina, gli orrori della guerra, il potere e le ruberie degli oligarchi».

Altro tema che mi ha appassionato per anni, oggetto di tanti miei servizi per Report è quello della pena di morte.

Dagli Stati Uniti all’Iran, dall’Africa alla Cina, sono sprofondato nei gironi danteschi delle carceri di massima sicurezza e nella dimensione più atroce della sofferenza e della disperazione. Quel sistema disumano di oppressione e di morte, voluto da chi in nome della legge arriva a togliere all’uomo il primo dei suoi diritti, quello della vita.

In Russia, a San Pietroburgo sono entrato, nella prigione più grande della città, dove centinaia di giovani erano letteralmente sospesi tra la vita e la morte, dopo la decisione di Eltsin di accettare una moratoria della pena capitale.

Mironov denunciava che si ricorreva spesso e volentieri alle esecuzioni extragiudiziali, nel silenzio dei media locali e internazionali. E quella prigione angosciante era devastata anche dalla piaga della tubercolosi, in una forma diventata così resistente agli antibiotici da risultare incurabile.

I 100 miliardi di Putin

Dalla caduta dell’ex impero sovietico sono esplose le sue infinite contraddizioni. All’economia statale e alla pianificazione è seguito il caos selvaggio del liberismo privato. E c’è stata una vera corsa ad appropriarsi delle ricchezze nazionali da parte di chi aveva una posizione di potere.

È nato così il mondo dorato, corrotto e miserabile degli oligarchi. Ho dedicato un’inchiesta, nel 2013, alla ricchezza personale di Putin che pur non essendo considerato un oligarca, poteva già vantare allora un patrimonio di 100 miliardi di dollari, una cifra che lo rendeva l’uomo più ricco del mondo.

Me lo rivelò un insider del Cremlino, un uomo vicino al presidente della Federazione Russa. Il gas, una delle maggiori risorse naturali della Russia, ha alimentato enormi ricchezze e orientato la stessa politica nazionale.

Alle «vie del gas» ho dedicati altre inchieste e altri viaggi, cercando di capire cosa ci fosse dietro la sigla enigmatica e inquietante di Gazprom e dietro quella risorsa responsabile di tanti interessi, conflitti alleanze e drammi nel mondo.

A Novy Urengoj ho visitato il giacimento più grande del mondo, con le fiamme che si levavano altissime dalla pianura gelata, in un panorama surreale di chilometri di gasdotti e ciminiere d’acciaio.

A Mosca sono entrato più volte nella sede di Gazprom, un grattacielo d’acciaio dalla cupola di vetro che domina la capitale, diventato il tempio del prodotto più ambito e necessario del commercio internazionale dopo il petrolio. E già allora denunciavo la sua politica tesa a monopolizzare le reti di distribuzione, dalla Nigeria al Kazakistan, chiudendo in una morsa di ricatto economico l’Europa.

La Russia ha una cultura millenaria, con le sue tradizioni religiose, la sua vitalità, la capacità di sopportazione e la bontà d’animo delle radici contadine e della gente semplice. Ma anche al condizionamento della politica e una deriva autoritaria che percorre i secoli: dal dispotismo più o meno illuminato degli zar alla rivoluzione bolscevica, dalle purghe e i gulag di Stalin fino alle velleità neoimperialiste di Putin e alla corruzione nel mondo degli oligarchi.

Viaggi nel tempo

Nelle mie tante visite in Russia ho viaggiato dunque anche nel tempo. Mi sono immerso nella solitudine mistica dei monasteri ortodossi sulle isole Solowki, ho incontrato gli ultimi sciamani della Siberia sulle coste del mare di Bering, ho seguito le battute di caccia alla balena dei Ciukci, ho conosciuto i cacciatori di trichechi e gli allevatori nomadi di renne del Grande Nord.

Ma la storia del continente rosso passa anche dai famigerati gulag di Stalin, i campi di lavoro dove restano soltanto consunte croci di legno perse nella steppa a ricordare milioni di anonime morti per sfinimento, freddo e fame.

Dalla Kolima di Salamov alle miniere di carbone di Vorkutà, dalle isole Solowki ai campi del Kazakistan, dove un giovane Solgenitsin condannato all’esilio, maturava la sua voglia di libertà e di riscatto dei diritti umani.

Nel 2007, in una dacia immersa nella foresta, a 80 chilometri da Mosca, ho incontrato una delle persone più importanti della mia vita. Grigory Pomerants, uomo di immensa erudizione, cultore di Dostoevskj, eroe della dissidenza sovietica, era uno dei sopravvissuti agli orrori siberiani. Lo ricordo su una sedia di vimini sotto un portico di legno, piccolo, vestito in modo semplice e dall’apparenza dimessa.

Mi colpiva il suo sguardo vivissimo e attento, sempre pronto ad aprirsi in un sorriso sereno nonostante le sofferenze patite per anni. Nessuna accusa diretta nelle sue parole, soltanto un’infinità solidarietà umana nei confronti di chi è costretto a subire le ingiustizie della vita.

«A quei tempi» mi confidò con aria quasi divertita «non c’era maggior libertà in Unione Sovietica, se non nei gulag. Lì si poteva almeno parlare liberamente con tutti e di tutto, mentre fuori bastava a volte una parola azzardata per essere deportati». Ho incontrato più volte Pomerants e posso dire che, grazie alla mediazione linguistica e spirituale di Andrej Mironov, siamo diventati amici. In una lunga intervista registrata gli chiesi perché l’uomo, dopo tanto dolore provocato dalla guerra, non riesce a capire di dover smettere, di dover rispettare i valori della persona.

«Penso si spieghi con il fatto che gli uomini, noi in fin dei conti, non siamo stati capaci di trasmettere per intero la nostra esperienza. L’esperienza che ha descritto Salamov nei celebri Racconti della Kolima, i fatti raccontati nelle sue memorie e nelle memorie di molti altri, questa esperienza non è diventata patrimonio delle masse. Solgenitsin stesso, nel suo Arcipelago Gulag, ha fornito moltissimo materiale per la nostra riflessione morale.

Anche lui pensava che se la gente avesse letto quel libro il regime sovietico sarebbe caduto. E invece non è così. La gente legge e poi si stufa. Preferisce vivere nelle proprie occupazioni quotidiane, pensa che quella ormai sia acqua passata, che il mondo sia diverso. In questo pesa molto l’egoismo superficiale della gente. “Ma sì, è roba passata”, si pensa, “adesso non c’è più, è tutto diverso. Ma sì, Stalin ha fatto molte cose cattive, però ha vinto la guerra”. In Russia ancora oggi, a uno che ha vinto in guerra siamo pronti a perdonare anche i centomila morti che ha causato strada facendo».

Pomerants si arrestò un attimo, poi riprese a parlare guardandomi fisso negli occhi, con l’animo accorato.

«Ma vedi, Giorgio, gli uomini, di solito, conoscono il male solo su scala limitata e per esperienza diretta, quando si presenta sulla soglia di casa. Un male così diffuso, una conoscenza del male tanto ampia come è avvenuto nel Ventesimo secolo, non è comprensibile all’uomo medio. L’uomo medio vive nel suo mondo ordinato, attribuisce il male a qualche fattore che non lo riguarda. Bisogna far vedere il vero volto, il volto disgustoso del male, perché la gente lo rigetti. E questo è il compito della cultura: far vedere alla gente quanto è disgustoso il volto del male».

Mentre Pomerants parlava, vedevo seduta in un angolo sua moglie, l’amata compagna di una vita, seguirlo con attenzione e con affetto. Si parlava del passato, ma quelle parole mi risuonano ancora nella mente come un funesto presagio della realtà più attuale.

«Con i mezzi di distruzione di oggi, le armi di cui dispone l’umanità, conservare dentro di noi il ribollire dell’odio, ritrovare sempre un pretesto, un’occasione di vendetta, può portare alla fine dell’umanità intera. Noi ci troviamo alle soglie di pericoli tremendi, perché nello stato attuale della nostra civiltà, le minacce, le forze meccaniche e tecniche di cui dispone sono talmente grandi che rendono indispensabile un uomo diverso, un uomo nuovo, umile e dal cuore aperto. E tutta l’educazione andrebbe indirizzata proprio a questo».

Un’analisi lucidissima e ancora estremamente attuale, quella di Pomerants.

La guerra in Ucraina è certamente esplosa il 24 febbraio del 2022 come l’aggressione a uno stato indipendente, ma è anche il risultato di una politica, dettata dagli Stati Uniti, fin troppo umiliante e provocatoria nei confronti di una nazione che resta comunque una protagonista di primo piano tra le potenze mondiali.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 7 marzo 2024

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