Due istantanee dell’orrore per fotografare la violenza degli scontri nella Repubblica Democratica del Congo (RDC) e la colpevole incapacità della comunità internazionale di fermarla. «I container refrigerati e gli obitori sono pieni, saremo impegnati per diversi giorni in sepolture di massa» ha dichiarato al quotidiano francese Le Monde la responsabile della Croce rossa internazionale a Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu.
Tra i cadaveri anche quelli di centinaia di donne violentate e bruciate vive nella sezione femminile di un carcere durante un’evasione di massa. Impossibile stabilire le responsabilità dell’eccidio perché ai peacekeeper della missione dell’ONU (MONUSCO) è stato impedito di effettuare i sopralluoghi. 500mila sfollati, 3mila morti, almeno 6mila i feriti tra la popolazione civile sono il parziale bilancio dell’offensiva militare del Movimento 23 Marzo (M23) sfociata nell’occupazione di Goma dello scorso 27 gennaio.
Ennesima puntata di un radicato conflitto che solo tra il 1997 e il 2003 provocò più di 5 milioni di morti e che ha smesso di essere uno scontro tra eserciti e gruppi armati per trasformarsi in una guerra atipica combattuta da una miriade di bande armate contro inermi civili.
Gli interessi in gioco
La narrazione degli interessi in gioco è intricata quanto la savana per la molteplicità degli attori impegnati, della competizione interna alle stesse alleanze, degli equilibri geopolitici dell’area, delle ricchezze in ballo: è la cartina di tornasole di quell’Africa complessa e multipolare con cui il mondo si deve confrontare perché distogliere lo sguardo dagli avvenimenti in corso in nome di una convenienza a breve termine potrebbe tra non molto rischiare di aprire il vaso di Pandora. L’M23 nasce nel 2009 per la mancata integrazione di una precedente milizia nell’esercito governativo congolese: è l’ultimo di una serie di gruppi sostenuti dal Ruanda che affermano di difendere gli interessi delle comunità tutsi che vivono nel Nord-Est del Congo.
Dopo 10 anni di inattività, nel 2021 ha lanciato un’offensiva (appoggiata dall’esercito ruandese) culminata a gennaio con la conquista di Goma, in precedenza occupata solo per alcuni giorni nel 2012. Un successo militare che ha avuto contraccolpi a Kinshasa, capitale della RDC, dove migliaia di manifestanti (sostenuti da esponenti di governo e dal partito di maggioranza del presidente Tshisekedi) hanno espresso solidarietà ai soldati governativi, assaltato varie ambasciate, accusando inoltre l’Unione Europea di finanziare l’esercito di Kigali con 20 milioni di euro per la sua determinante azione nella provincia di Cabo Delgado, nel Nord-Est del Mozambico, per difendere le società energetiche che vi operano (tra cui ENI e Total) dagli agguati dei terroristi islamisti.
Secondo i Rapporti dell’ONU, sono 4mila i militari dell’esercito ruandese che nell’Est del Congo procedono alla sistematica pulizia etnica ricorrendo allo stupro di massa come arma di guerra senza che il Consiglio di Sicurezza e la comunità internazionale adottino provvedimenti concreti contro i soldati del presidente Paul Kagame, al di là di generiche condanne e scontati inviti al ritiro.
Kagame e il silenzio occidentale
Il Ruanda è infatti considerato come uno dei pochi partner affidabili per la sicurezza dell’Occidente, poiché è la Nazione che contribuisce maggiormente e con grande efficienza alla costituzione delle forze di peacekeeping, una reputazione rafforzata dal profilo di Kagame e dai risultati conseguiti nella rinascita del Paese dopo il genocidio del 1994. E dalle sue indubbie capacità diplomatiche che gli garantiscono relazioni amichevoli con Stati Uniti, Inghilterra, Francia che non a caso sono 3 dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU.
Senza dimenticare l’Unione Europea che ha sottoscritto con il presidente ruandese un protocollo di intesa (del valore di 900 milioni di euro) per la promozione di «catene di valori sostenibili e resilienti nei minerali critici», tra cui il tantalio. Un accordo che ha scatenato le accuse del Congo contro il Ruanda per il saccheggio delle sue risorse, a partire dal coltan, perpetrato proprio nel Nord Kivu con la complicità dell’M23: non a caso – sottolinea l’ONU – c’è stato un incremento delle esportazioni di coltan da parte del Ruanda dopo l’occupazione nell’aprile 2024 della zona di Rubaya (nella RDC) da parte dell’M23.
Tutte le iniziative di pace stanno naufragando e il conflitto rischia di espandersi in altre Regioni. Contro l’espansionismo di Kagame sono schierati i confinanti Burundi e Uganda che hanno sottoscritto con il Congo accordi di cooperazione economica e militare.
Kagame intanto accusa il Sudafrica di avere interessi minerari in Congo, spiegando così l’intervento militare di Pretoria nella missione della SADC (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale). Intanto l’M23 ha anche risvegliato conflitti tra popolazioni locali coagulando anche una parte dell’opposizione al presidente congolese. Insomma bisogna fare presto.
Enzo Nucci, giornalista, è stato corrispondente della RAI per l’Africa subsahariana. Articolo pubblicato sul sito della rivista Confronti il 4 marzo 2025