Nella notte tra sabato 23 e domenica 24 settembre, un ennesimo episodio di violenza ha sconvolto il Nord del Kosovo. Verso le due e trenta del mattino, tre unità di polizia si sono avvicinate a due camion da cantiere parcheggiati all’ingresso di un ponte in modo da ostruire uno degli accessi di Banjska, villaggio che che si trova nella municipalità di Zvečan, la stessa in cui solo pochi mesi fa erano stati presi di mira dei militari italiani.
Ad aspettare i poliziotti c’erano una trentina di uomini in mimetica che hanno aperto il fuoco uccidendo uno degli agenti e ferendone un altro. Nello scontro sono anche caduti tre degli assalitori, uno dei quali si è rivelato essere Bojan Mijailović, dieci anni fa guardia del corpo di Aleksandar Vulin, già ministro della difesa, ministro dell’interno, e oggi direttore dell’Agenzia serba per la sicurezza informatica sottoposto a sanzioni dagli Stati Uniti.
Alcuni residenti hanno descritto l’evento come «una piccola guerra», iniziata con «una serie di raffiche, poi silenzio, poi colpi di arma da fuoco e detonazioni». L’eco delle pallottole è cessata solo quando alcuni dei membri del gruppo d’assalto hanno trovato rifugio nel monastero ortodosso di Banjska, un edificio del Trecento, mentre altri hanno battuto in ritirata attraverso la frontiera serba. Lo stesso giorno, la diocesi competente ha condannato con forza l’aggressione e espresso condoglianze per la morte del poliziotto kosovaro.
Reciproche accuse
La polizia del Kosovo ha fatto poi sapere che nell’area dell’imboscata è stato ritrovato un arsenale comprendente armi di vario calibro, lanciarazzi, esplosivi, detonatori, automobili, motociclette, droni, attrezzi da lavoro come pale e picconi e un centinaio di uniformi militari.
L’intelligence kosovara ha messo questo materiale in relazione con il cantiere di una base militare che la Serbia starebbe costruendo ai confini col Kosovo, cosa smentita con decisione da Belgrado.
Per due giorni interi, i governi serbo e kosovaro si sono lanciati accuse reciproche, cercando di attribuire la responsabilità di queste azioni l’uno all’altro. Come a suggellare la propria estraneità ai fatti, entrambi hanno anche proclamato una giornata di lutto nazionale per commemorare le vite perse nello scontro.
Per il presidente serbo Aleksandar Vučić, apparso in conferenza stampa visibilmente imbarazzato, si sarebbe trattato di una reazione spontanea dei serbi del Nord del Kosovo, stanchi del costante tentativo di pulizia etnica e discriminazione che subiscono da parte di Priština. Per il leader kosovaro Albin Kurti si sarebbe trattato invece di un estremo tentativo della Serbia di destabilizzare la regione e, in prospettiva, di annettersi le quattro aree municipali a maggioranza serba del Kosovo settentrionale.
Solo cinque giorni dopo, una verità ha iniziato a emergere. Milan Radoičić, vice-presidente ora dimissionario di «Lista Serba», partito di maggioranza della comunità serba del Nord Kosovo, vicino al presidente serbo, si è dichiarato per mezzo del suo avvocato responsabile unico di tutta l’operazione, sottolineando l’estraneità all’accaduto sia del suo partito che del governo di Vučić.
Mentre il governo kosovaro sta cercando di ottenerne l’estradizione, il giudice istruttore del Tribunale superiore di Belgrado ha respinto la richiesta della Procura di porre Radoičić in detenzione preventiva a causa del rischio di fuga. Radoičić è ora in libertà vigilata con divieto di allontanarsi dalla Serbia.
Territorio conteso
Non si sa se Vučić fosse o meno a conoscenza del piano, ma questa incertezza non influisce sulla convinzione comune che l’azione sia collegata alla questione territoriale nel Nord del Kosovo.
La riannessione de facto dei comuni del Nord Kosovo mediante la creazione di una sorta di comunità autonoma è uno dei nodi della discordia fra Kosovo e Serbia. Sin dalla sua elezione a primo ministro del Kosovo, Kurti ha fatto dell’opposizione alla creazione di una comunità delle municipalità del Nord uno degli impegni previsti dagli accordi di Bruxelles del 2013, una priorità del suo governo.
Per lui si tratta di riacquisire il controllo su un territorio ufficialmente sotto il controllo del Kosovo, ma che è effettivamente controllato dalla Serbia. Qui, i residenti di etnia serba partecipano alle elezioni serbe, utilizzano automobili con targa serba e ricevono assistenza sanitaria e pensionistica dalla Serbia. Inoltre, i politici e gli ufficiali pubblici rispondono più a Belgrado, e in particolare a Vučić e al suo partito, che alle istituzioni kosovare.
Per converso, la popolazione serba non ha mai smesso di sentirsi discriminata. Un report di quest’anno del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) evidenzia come problemi di vecchia data non siano mai stati superati.
Per citarne solo alcuni, ai serbi del Kosovo mancano sicurezza, libertà di movimento e diritti fondamentali. La possibilità di tornare alle proprie case è limitata, così come, al di fuori delle aree del nord, lo è anche la loro libertà di praticare la religione ortodossa e usare la lingua serba. Alcune delle terre dei serbi sono occupate illegalmente, i siti religiosi soffrono di incuria e le opportunità economiche sono estremamente esigue.
Illeciti affari
Una situazione di stallo politico e di anarchia territoriale giova inevitabilmente alla criminalità organizzata. E se si guarda al profilo di Milan Radoičić, che alcuni chiamano il «Pablo Escobar balcanico», si scopre che la criminalità organizzata non è un attore marginale di quanto va accadendo nella zona.
La recente perquisizione della polizia kosovara in una sontuosa villa di Radoičić sul lago Gazivoda ha sollevato questioni sulla legalità dei beni da lui posseduti. Insieme al suo socio d’affari e parente acquisito Zvonko Veselinović, Radoičić è coinvolto in vari procedimenti penali, è incluso nella lista nera degli Stati Uniti per reati legati alla criminalità organizzata, traffico di droga e per l’omicidio del politico serbo-kosovaro Oliver Ivanović avvenuto nel 2018.
Poche settimane prima della sua esecuzione, Ivanović denunciava come le aree a nord di Mitrovica fossero sempre più controllate dal crimine e come la popolazione locale stesse finendo per temere maggiormente i serbi che non gli albanesi.
Il giornalista d’inchiesta Vuk Cvijić, citato dal canale N1, sottolinea inoltre che nessuno conosce l’origine del patrimonio di Radoičić e si chiede come facciano le sue aziende a ottenere gli appalti più importanti e a presentare fatturati più alti delle stesse imprese di Miroslav Mišković, il più facoltoso imprenditore serbo.
I camion che ostruivano il ponte di Banjska la notte degli scontri appartenevano a un’impresa di Radojčić. Il conflitto per il controllo del territorio in Kosovo non è forse solo un affare di stato, ma anche una questione di bande criminali. E una zona grigia fra politica e affari illeciti.