Occidente vs. Arabia Saudita

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Tentare di dire qualcosa di utile sul difficile rapporto tra Paesi occidentali e Arabia Saudita non è impresa da poco. Ma bisogna provarci, oggi, posto che Washington – in modo preciso il presidente Joe Biden – insiste nel promuovere un accordo che porti alla piena normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e Arabia Saudita.

L’importanza di una tale potenziale intesa risulta a tutti evidente e la storia recente ci dice che la normalizzazione delle relazioni è già in atto da tempo, tanto che difficilmente si arresterà. Le implicazioni però sono moltissime e non riguardano soltanto la questione palestinese, che Riad appare orientata a risolvere aprendo i cordoni della borsa per l’Autorità Palestinese.

Entrare nel merito significa considerare le numerose richieste che il principe Muhammad bin Salman avanza, soprattutto circa un accordo di difesa che impegni Washington a intervenire militarmente nel caso Riad sia attaccata e quindi ad assisterla in un progetto nucleare – dichiarato – a scopi civili: questo vuol dire ora parlare di ciò che ancora non c’è ma che, verosimilmente, ci sarà, quindi delle sue possibili conseguenze.

Penso che oggi sia preferibile concentrarsi sui motivi della complessità del rapporto con l’Arabia, per Washington ma anche per noi europei.

La storia alle spalle

Procedendo con l’accetta, si può dire che dopo Yalta sia nata, per scelta del presidente Roosevelt, la ricerca di un’intesa prioritaria dell’Occidente con la corona saudita. I termini erano chiari. Grossomodo: “poiché vi è normale stare con noi, state con noi, non con Mosca, in modo da accordarci su uno scambio paritario: petrolio in cambio di armi”. Il termine petrolio significava anche industria della raffinazione, produzioni derivate, deposito dei proventi. È nata così un’economia saudita basata sulla rendita, depositata fondamentalmente all’estero, in Occidente.

Le armi hanno significato non solo forniture militari da parte americana, ma anche assistenza strategica, basi navali e aeree, e altro. Tutto questo accadeva tra gli Stati Uniti e i capi di una tribù che, da un piccolo territorio di suo insediamento, aveva conquistato militarmente e spietatamente la quasi totalità della penisola arabica, coi suoi luoghi santi islamici: La Mecca e Medina.

Per la vittoria dei Sauditi fu fondamentale la legittimazione religiosa da parte di una piccolissima fazione “puritana” di predicatori musulmani, i wahhabiti – già combattuti come la peste dall’impero ottomano per il loro fanatismo assoluto – che diedero legittimità religiosa a una conquista tribale, ottenendo in cambio il sostegno finanziario alla diffusione della loro “eresia”.

Le pagine da scrivere, ovviamente, sono tantissime e anche difformi, ma già questo dà conto di una prima difficoltà storica, da ben considerare, oggi.

La seconda è affiorata chiaramente con la caduta dell’impero sovietico (e dei blocchi), quando è apparso sulla scena bin Laden: tutti dovrebbero ricordare che questi mosse i suoi primi passi in Afghanistan a fianco dei mujaheddin finanziati da Washington contro Mosca. Poi le cose sono cambiate, quando bin Laden ha orchestrato l’attentato delle Torri Gemelle avvalendosi di adepti operativi di cittadinanza saudita.

Cos’è successo? Il binladismo è certamente cresciuto nel ventre wahhabita, medio o alto borghese. Con complicità della corona saudita? Nessuno può escluderlo. Ma qui inizia un capitolo a tutt’oggi non chiaro.

Dai tempi di Barack Obama si è parlato più volte della desecretazione delle carte sull’11 settembre 2001: cosa mai avvenuta, poi. Personalmente non propendo per la tesi delle complicità dirette della corona saudita nell’attentato, bensì per correità wahhabite, i cui estremisti − da molti analisti − sono stati definiti la vera spina nel fianco della corona: il nemico interno numero uno.

Che il rapporto, quindi, tra Stati Uniti e Arabia sia difficile, se non assai sofferto, è confermato da molti altri fatti storici accertati.

Da Obama a Biden

La politica di Barack Obama è stata complessa e non può qui essere analizzata nel dettaglio. Resta il fatto che Joe Biden ne ha confermato le premesse, senza darvi seguito. Di certo le carte segrete sull’11 settembre non possono riguardare il nuovo uomo forte – il giovane principe Muhammad bin Salman -, primo giovane in un sistema gerontocratico ove i re vengono eletti a ottant’anni suonati.

Come noto, Biden subito dopo la sua elezione annunciò che non avrebbe rivolto la parola a bin Salman, minacciando di ridurlo a pària della Comunità Internazionale. Si tratta, infatti, dell’uomo che ha ordinato l’assassinio – con motosega – del giornalista saudita-statunitense Khasshoggi nel consolato del regno saudita a Istanbul. L’intenzione era di farne sparire il corpo. Anche il predecessore di Biden, Trump, aveva trovato qualcosa da ridire sull’assassinio, ma non ha poi dato alcun seguito alla sua sorpresa – incredula – di fronte al fatto.

Lo scoppio della guerra in Ucraina ha cambiato molte cose. Biden è volato a Jedda nel luglio del 2022, dove ha dovuto incontrare, con reciproca freddezza, anche il giovane principe, al quale aveva promesso di non rivolgere mai la parola. Bin Salman è certamente il mandante del feroce assassinio (fare a pezzi il nemico risponde a codici preislamici), ma è anche l’uomo che del vecchio patto con i wahhabiti non ne vuol più sapere.

Rompere quel patto non vuol dire che oggi in Arabia Saudita si rispettino i diritti umani: assolutamente no! Vuol dire che non li si viola più nel nome di quell’islam. Un esempio? Mentre il film Barbie in alcuni Paesi arabi “pluralisti” non è stato proiettato, a Riad lo stanno già facendo vedere da inizio agosto.

Nessuno può dirsi sorpreso, visto che il principe è andato in televisione, durante il ramadan del 2021, a dire che lui voleva film occidentali “laici” nella televisione di Stato. E così, oggi, Miss Arabia Saudita può posare in fotografie tutt’altro che “tradizionaliste” e Cristiano Ronaldo non deve patire conseguenze per essersi fatto il segno della croce dopo aver trasformato un rigore.

La repressione per le persone ordinarie è sempre feroce, ma è puramente “saudita”, senza il velo della religione a coprirla. Questa evidenza può cambiare lo scenario dell’Islam globale.

Il rapporto con la Cina

Questi aspetti sono decisivi per capire anche il nuovo rapporto dell’uomo forte di Riad con la Cina. Xi non ha mai eccepito sul caso Khasshoggi. Pechino non fa la morale ai suoi partner su quei diritti umani che essa stessa infrange sistematicamente. E quindi l’interscambio commerciale tra Riad e Pechino cresce vorticosamente, nella fiducia che ognuno possa regolarsi con gli affari interni come meglio ritiene. Ciò sta rendendo la nuova amicizia cinese assai gradita al giovane bin Salman.

Il Washington Institute for Near East Policy ha giustamente evidenziato come l’America non sappia spiegare a Riad perché dovrebbe preoccuparsi di Pechino. Una guerra per Taiwan converrebbe ai commerci sauditi? Un aiuto cinese al progetto nucleare iraniano sarebbe gradito? Oggi i sauditi hanno armi e basi militari “made in Usa”: nessuno può ipotizzare che tra i due Paesi possa arrivare una gelata improvvisa, con “cambio di gabbana”. Ma l’approccio del Washington Institute è importante, perché aiuta a capire come i reali Sauditi possano pensare di entrare nei Brics assieme ai loro nemici iraniani, e nello stesso tempo, presumibilmente, firmare l’accordo che propone Biden.

Il presidente americano ha parlato dell’attuale situazione internazionale come di un «conflitto tra democrazia e dispotismo». Davvero?  Scrutando tra gli interlocutori di Biden non si direbbe. Non si tratta solo del ritorno di fiamma verso Riad, di cui gli Stati Uniti, secondo Amnesty International, avrebbero occultato, col silenzio, pure il recente sterminio dei profughi etiopi sui confini con lo Yemen. Il problema è capire se l’ago della bussola americana sta sui meri interessi oppure sul rispetto dei diritti umani, come temono – ma neanche tanto – molti autocrati.

Pochi giorni fa, a Milano ha avuto luogo un confronto bilaterale – tra Italia e Arabia – alla presenza di molti imprenditori italiani interessati a investire a Riad. Il vertice ha sollevato l’obiezione di chi ritiene che gli affari vengano dopo i diritti umani, senza il rispetto dei quali, nel mondo, diventeremmo tutti più poveri (cfr. La Stampa).

Fare cosa con chi?

Ma il caso più eclatante della contraddizione è di queste ore: gli Stati Uniti hanno più che raddoppiato, rispetto agli scorsi anni, la propria partecipazione alle esercitazioni militari in Egitto, con circa 40 Paesi presenti, proprio mentre il Congresso chiede alla Casa Bianca di bloccare ogni aiuto militare all’Egitto per le sempre più gravi violazioni dei diritti umani.

Nel mentre Vladimir Putin si accinge a riceve il leader nord-coreano, dimostrando chi è – già lo sappiamo – e dove possa arrivare con le sue alleanze. Ma anche l’America deve chiarire – a sé stessa e al mondo – chi sia e dove voglia andare. Gli Stati Uniti, come del resto tutto il vecchio Occidente, sembra invece oscillare tra un ideologismo del Bene e un pragmatismo del Male che rende assai arduo sperare in un nuovo ordine – pacifico – mondiale.

Ecco perché è comprensibile, ma semplicistico e riduttivo, parlare di democrazie contro dispotismi: e non solo perché, così dicendo, diventa duro, ad esempio, poter indicare un solo partner africano degli americani che si possa dire “buono”, ma pure respingere le critiche, sempre più fitte, per aver aiutato molti despoti in questi anni e per non aver saputo indicare a tanti Paesi una strada migliore.

In queste parole c’è un bivio: noi occidentali amiamo dire che vogliamo un “mondo migliore”, mentre Pechino non lo dice e neppure lo pensa. I despoti lo sanno.  Dunque?

Dunque, è l’ora della onestà: bisogna liberarsi dai radicalismi ideologici. Faccio un altro esempio: che dire del disgelo fondato sul patto sul nucleare – a lungo inseguito da Washington – con gli arcinemici di Riad, ossia con l’Iran, tirannia indiscutibile e pure teocratica? Questo disgelo è stato molto apprezzato dai critici dell’amicizia tra Washington e Riad, che si soffermano, giustamente, sulla violazione dei diritti umani in Arabia Saudita, ma dimenticano facilmente quanto accade in Iran.

Io, certamente, non penso che si possa imporre a mezzo mondo – tanto meno al mondo intero – di far rispettare i diritti umani a partire “da subito”. Nessuno ci crede. Ma non è neppure una utopia a cui si possa, facendo finta di nulla, rinunciare. La strada l’ha indicata papa Francesco con la sua idea di multilateralismo, che è la sola via d’uscita.

L’indicazione di papa Francesco

Qui provo ad associare il multilateralismo di Francesco all’idea del progresso dissimile. Provo a dire cos’è o potrebbe essere: è una visione globale che contempera le esigenze – globali e locali – tenendo conto delle diverse condizioni nelle quali ognuno realisticamente si trova. Il multilateralismo possibile è quello che consente di contemperare ciò che per ciascuno è fattibile, nel verso del bene – o almeno della pacifica convenienza – di tutti.

Si dirà che un concreto multilateralismo richiede valori condivisi. Ebbene le intese possono essere trovate attorno ad alcune grandi parole, se queste dicono concretezza e coerenza su diritti indiscussi in ogni cultura: alimentazione, salute, istruzione, sicurezza, ambiente; poco altro, ma ci sarebbe già tutto.

Se si riuscisse a convenire su questo, si potrebbe puntare alla restituzione all’Assemblea dell’ONU dei suoi poteri di governo, oggi di fatto confiscati dal Consiglio di Sicurezza, che è diviso tra le grandi potenze. Il coinvolgimento globale potrebbe aiutare a realizzare un maggior finanziamento dell’ONU come proposto da Jeffrey Sachs: con 40 dollari annui per abitante dei Paesi ricchi, 2 dollari annui per abitante dei Paesi meno ricchi e 1 pro-capite degli altri si avrebbe ad una disponibilità di 75 miliardi di dollari.

Così, più che su inefficaci sanzioni – che dovrebbero essere soprattutto personali senza coinvolgere la povera gente – si potrebbe scommettere non solo sui caschi blu (che costano oggi 6,4 miliardi di dollari all’anno), bensì su effettivi incentivi a chi rispetti i nuovi equilibri di sicurezza globale e a chi rispetti minoranze e lavoratori, per poter procedere, per tappe asimmetriche, alla grande difesa della casa comune: incentivando le rinunce economiche per esigenze ambientali che, evidentemente, richiedono giuste compensazioni.

Senza compensazioni la conversione economica saudita, ad esempio, rimarrà finanziabile solo con maggiori proventi della vendita di petrolio. Gli incentivi potrebbero aprire invece le porte “all’ecologia integrale”, che richiede anche una carta dei diritti umana araba compatibile con quella universale. Senza questo, è prevedibile che la seconda punta della Laudato si’ produca ancora una “guerra”: che sarà aperta dai produttori di petrolio e dagli altri soggetti parecchio inquinanti.

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