L’ONU sulla Siria

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È davvero una questione urgente e gravissima: occidentali e russi devono pur trovare un modo di accordarsi sul transito transfrontaliero – tra Turchia e Siria – degli aiuti umanitari di soccorso alla popolazione – bersagliata e terremotata – nella provincia di Idlib, oggi indispensabili per la mera sopravvivenza di almeno 4 milioni di siriani.

Tre milioni sono i profughi interni, forzatamente ammassati dal regime di Assad, almeno da quando questi ha riconquistato le terre del sud-est del Paese ove, in gran parte, gli sfollati di Idlib vivevano, cacciandoli.

La data limite per rinnovare l’intesa è il 10 luglio.

Damasco e i corridoi umanitari

Damasco, col sostegno russo, ha ottenuto – anziché l’ampliamento – la riduzione dei corridoi fisici, umanitari, progressivamente: da quattro ad uno soltanto. Il motivo è evidente: quei territori sono siriani e Damasco chiede che si rispetti la legge internazionale che prevede che gli aiuti della mondialità per i “suoi cittadini” passino dalla capitale siriana, opponendosi quindi all’ingresso dei soccorsi da un altro Paese, in questo attraverso il nemico turco, con gli operatori dell’Onu.

Sulla carta o nella forma, purtroppo, Assad ha ragione. L’Onu è o dovrebbe essere l’organo di massima cooperazione tra gli Stati e quel territorio – sottoposto al controllo armato di forze “ribelli” – è tuttora, per il diritto internazionale, siriano.

Dunque, gli aiuti andrebbero distribuiti da chi assedia e bombarda Idlib, per riottenerne il controllo? Sarà, dunque, rinnovata la deroga già faticosamente concessa da Assad all’ONU? Si arriverà persino a stabilire un solo corridoio attivo o, persino, a giorni alterni? Basterà a non far morire questa gente, facendola soffrire, come può bastare, nel consesso internazionale, ad Assad e al suo mentore Putin?

Sia ben chiaro: stiamo parlando del rischio di morte per sete, per fame, malnutrizione, per centinaia di migliaia di bambini, donne, uomini. Complessivamente milioni di esseri umani, appunto. Ed è solo per questa ragione che c’è la disponibilità della Turchia.

ONU: indagare sugli scomparsi in Siria

A rendere il rinnovo dell’intesa oltremodo complicato, c’è pure un recente voto, in sede ONU, sgraditissimo a Damasco: l’Assemblea Generale ha infatti deliberato la creazione di una istituzione indipendente che indaghi sulle persone scomparse in Siria.

Si tratta di almeno 130.000 persone delle quali si sono perse le tracce ormai da anni, probabilmente “inghiottite” dai centri detentivi siriani: desaparecidos nel buio della cupa notte della Siria, senza che nessuna luce del giorno abbia mai potuto chiarire – tanto meno da parte del regime – se siano ancora detenuti nei lager, perciò vivi oppure tutti morti. Hanno votato a favore dell’indagine 83 Paesi membri – tra cui l’Italia – mentre 11 contro, con 62 astenuti.

Che, tra i contrari o gli astenuti, vi siano gli eterni alleati di Putin – e quindi di Assad – non stupisce. Sorprende piuttosto che vi figurino tutti i Paesi arabi, con l’eccezione di Qatar e Kuwait. Ma dobbiamo guardare in faccia alla realtà: da quando Riad ha firmato il suo accordo con l’Iran – col ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra le due entità – è cominciato, di fatto, un nuovo corso di attenzione internazionale, che comprende, una certa “riabilitazione” di Assad, come, da tempo, invocato dagli Emirati Arabi Uniti.

Non essendo riusciti a cacciarlo prima, ora, gli Stati Arabi vogliono accordarsi ancora con lui, accreditando l’ipotesi che l’inimicizia pregressa col despota siriano non fosse dovuta ai suoi metodi – a dir poco – crudeli, bensì alle sue alleanze internazionali. Ora il quadro delle alleanze è mutato o sta mutando. Perciò cambia di nuovo tutto.

Il mondo arabo

Così, anche i crimini contro l’umanità perpetrati da Assad, ora, per i leader arabi, possono essere tranquillamente accettati, soprattutto se il soggetto in questione – Assad – la smette di invadere i loro Paesi con la droga sintetica con la quale ha trasformato la Siria in un narcostato, col captagon. Del resto, nel ritrovato consesso della Lega Araba, siedono criminali poco meno efferati che poco hanno da invidiare al collega.

La “comprensione” araba – mostrata col voto all’ONU – premia a dir poco il ricatto di Assad, posto che è tuttavia impossibile che questi fermi il suo fiorente narcotraffico, perché gli è indispensabile per sopravvivere dal punto di vista economico.

Men che meno improbabile è che tra gli astenuti vi sia il Libano. In Libano ben si sa che tra gli “scomparsi” in Siria – secondo le stesse fonti libanesi – ci sono almeno 622 suoi cittadini, sul destino dei quali Damasco tace da anni.

Ma Beirut non ha oggi alcuna difficoltà a rimuovere il destino della vita delle persone dall’ordine delle sue preoccupazioni, in nome della solidarietà tra Assad e il partito che tutto ancora decide in Libano: fatto dai khomeinisti di Hezbollah, decisivi col loro intervento militare in Siria, per la salvezza dello stesso Assad.

Profughi

La scelta di Beirut ha rilievo politico internazionale, perché in Libano, anche il principale oppositore di Hezbollah, ossia il patriarca cristiano-maronita, Beshara Rai, sollecita il rimpatrio dei profughi siriani dal Paese, così confermando che quella dei profughi, oltre alla droga, è la seconda arma di ricatto nelle mani di Assad, sia verso i Paesi limitrofi, sia verso tutti i Paesi arabi: dopo aver messo a dura prova la tenuta di Giordania, Libano e Turchia – con lo spostamento forzato di una decina di milioni di siriani – Assad ora tenta la diplomazia, fingendo di “benedire” il ritorno dei profughi, che in realtà non vuole, per tanti motivi, soprattutto per le ragioni della sopravvivenza del suo regime e, personale, di sé stesso.

E finché in Siria c’è Assad, è tutto da vedere, tra gli stessi profughi, quanti vogliano osare il ritorno. Basta a loro guardare alla condizione dei confratelli rimasti. Cosa a cui dovremmo guardare – bene – anche noi.

I campi profughi siriani – quelli all’interno della Siria – costituiscono una piaga sanguinante che non può e non potrà certamente guarire neppure col prolungamento temporale degli aiuti umanitari internazionali, volti alla mera sopravvivenza fisica ma senza nessun conferimento di prospettiva che si possa definire umana.

Tra tante persone, ci sono pure quelle moralmente condannate e quindi “dannate”, a priori, anche dall’Occidente: si tratta dei 69.000 parenti dei jihadisti o ex jihadisti dell’Isis rinchiusi dal 2017 nel campo di al-Hol, sempre nel nord della Siria.

Tra di loro anche le donne – spesso con tanti bambini – della brigata internazionale che, a suo tempo, nell’orrore, scelse di stare con al-Baghdadi e che oggi nessuno vuol vedere tornare a “casa”, cioè, in molti casi, nella stessa nostra Europa. Almeno alcune centinaia, tra madri e figli, sono infatti europee. La decisione francese – di pochi giorni fa – di rimpatriare, tra queste fila, solo 10 donne e 25 bambini, dopo così tanto tempo, non fa altro che ricordarci l’esistenza di questa mina o bomba, sempre pronta ad esplodere. Ma, nel marasma generale, chi se ne ricorda?

Al-Hol è un inferno, come tutti gli altri campi in cui sono rinchiusi civili, vittime sia dell’Isis come di Assad. I problemi rimossi non spariscono, piuttosto si aggravano.

Cosa si deciderà, appunto, in vista del 10 luglio?

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