Dopo oltre tre secoli di dipendenza dal patriarcato di Mosca anche la Chiesa ortodossa ucraina filo-russa ha deciso di tagliare di netto i suoi rapporti con il patriarcato russo.
Uno schiaffo senza precedenti che Cirillo ha cercato in tutti i modi di evitare, ma che il suo sostegno aperto alla guerra di aggressione ha reso inevitabile. Si trattava solo di scegliere il momento (cf. SettimanaNews, qui).
Il 27 maggio, l’assemblea dei chierici e dei laici delle 53 diocesi dell’Ucraina ha approvato una risoluzione in dieci punti che mette fine ai residui rapporti di dipendenza.
Un legame insostenibile
Aprendo la riunione, il metropolita Onufrio ha rivendicato la coerente opera pastorale della sua Chiesa fin dalla prima assemblea dei vescovi, all’indomani dell’indipendenza, nel 1992, passata alla storia come l’assemblea di Khasrkov. Le ostilità belliche aperte dalla Russia il 24 febbraio scorso hanno messo la Chiesa in una posizione insostenibile.
«Non perdere la nostra umanità e la sua immagine di Dio mentre il male ha invaso i nostri cuori e non mettere a repentaglio la nostra fede; questi sono i compiti che oggi dobbiamo affrontare».
Onufrio rivendica la sua immediata condanna della guerra, i 13.000 profughi ospitati durante il conflitto (sui 6 milioni che hanno abbandonato il paese), i 20 veicoli donati all’esercito nazionale, le 190 tonnellate di aiuti. Nonostante questo, la Chiesa filo-russa per i suoi legami canonici con Mosca è stata al centro di innumerevoli sospetti. Un paio di preti sono stati accusati d’ìntesa con i servizi segreti russi, decine le decisioni amministrative che hanno sequestrato chiese e trasferito comunità all’obbedienza alla Chiesa autocefala, almeno 15 i casi di scontri fisici coi fedeli.
Fino al pericolo più grave: la proposta di legge 7204, presentata il 22 marzo, che vieterebbe le attività della Chiesa filo-russa su tutto il territorio e nazionalizzerebbe tutti i suoi beni, compresi i grandi monasteri delle grotte di Kiev (non di proprietà, ma gestiti), di Potchaev e di Svyatogorsk. Porre fine alle vessazioni, pacificare il popolo e discutere il futuro comune sono state le consegna del metropolita all’assemblea.
Dieci punti di distanza
La risoluzione dell’assemblea conciliare si sviluppa in dieci punti:
- condanna della guerra;
- invito ai negoziati fra Ucraina e Russia;
- «Esprimiamo il nostro disaccordo con la posizione del patriarca Cirillo di Mosca e di tutta la Russia sulla guerra in Ucraina»;
- modifiche degli statuti interni;
- apprezzamento per la gestione degli eventi da parte della Chiesa;
- richiesta del rito del sacro crisma (proprio delle Chiese autocefale);
- delega ai vescovi di materie sinodali durante la legge marziale;
- richiesta di aprire parrocchie ucraine nei luoghi di residenza dei rifugiati all’estero (6 milioni);
- «Cosciente della sua responsabilità davanti a Dio, l’assemblea conciliare esprime il suo profondo dolore per la mancanza di unità dell’ortodossia ucraina. L’assemblea considera la presenza dello scisma come una ferita profonda e dolorosa sul corpo della Chiesa. Consideriamo disdicevole che le decisioni ultime del patriarca di Costantinopoli in Ucraina che hanno condotto alla creazione della Chiesa ortodossa d’Ucraina (“Chiesa ortodossa ucraina” è il titolo della Chiesa filo-russa) non abbiano fatto che accrescere la confusione, suscitando scontri fisici. Ma anche in queste circostanze così critiche, l’assemblea conciliare non perde la speranza di rinnovare il dialogo». Perché questo avvenga si chiede di fermare il sequestro delle chiese e i trasferimenti forzati delle parrocchie, riconoscere che lo statuto della Chiesa filo-russa ha un grado di autonomia superiore a quello della Chiesa autocefala, avviare un confronto per il riconoscimento della canonicità dei gerarchi e dei preti della Chiesa autocefala;
- operare per una comunicazione fraterna, per la fine della guerra e la riconciliazione coi nemici.
Il sogno dell’unico patriarcato
Ora il campo di confronto è tutto interno all’ortodossia ucraina. La Chiesa filo-russa non può rinunciare al dialogo con la Chiesa autocefala del metropolita Epifanio, ma quest’ultima avrà piena legittimazione solo da un confronto positivo con la controparte.
Si riapre una sorprendente possibilità, coltivata come un sogno da generazioni di credenti: quella di un unico patriarcato di Kiev capace non solo di unificare le comunità ortodosse, ma anche di comprendere le comunità greco-cattoliche.
L’unità del rito, della lingua e della storia permetterebbe una doppia e conviviale giurisdizione: gli ortodossi in comunione con Costantinopoli e i cattolici in comunione con Roma. Quello che è stato il centro dello scisma che sta frantumando le Chiese ortodosse e mettendo in difficoltà il dialogo ecumenico fra le Chiese cristiane, potrebbe diventare l’avvio di una sperimentazione sorprendente: una doppia obbedienza ecclesiale sul confine fra Oriente e Occidente, il pieno superamento del temuto “uniatismo”.
Il cristianesimo, ferito da una insensata giustificazione della guerra, potrebbe inventare un gesto profetico di straordinario spessore per la futura concordia nel continente. La capacità visionaria di papa Francesco e l’ottimo rapporto suo con Bartolomeo di Costantinopoli sono necessari all’impresa. Le passioni attuali non lo hanno ancora messo a fuoco, ma la possibilità è tutta da percorrere.
Più difficile prevedere ciò che può succedere a Mosca. Difficile immaginare che Cirillo possa sopravvivere alla perdita dell’Ucraina, nonostante il visibile indirizzo a unire a sé i territori del Donbass, oltre a quello della Crimea.
Sarebbe il tramonto definitivo non solo del Russkiy mir (mondo russo), ma anche della pretesa egemonica di Mosca sull’Ortodossia e dell’ipotesi della “terza Roma”.
Tutto questo non invaliderebbe il ruolo rilevante di Mosca nell’ortodossia dei prossimi decenni, né il suo compito decisivo nel sostenere l’unità della Russia davanti al pericolo di una disastrosa frantumazione.