L’ISIS rappresentava il terrore che si fa Stato. Gaza rappresenta un territorio storico che, nella sua componente egemone, Hamas, mira a distruggere uno Stato: Israele. Per Tel-Aviv si tratta di terrorismo. La questione ebraico-palestinese, che sfida i decenni, è caratterizzata innanzitutto dalla precarietà esistenziale di Israele.
Per non pochi palestinesi e filoarabi essa, semplicemente, Israele delenda est. Non a caso gli sforzi di pace sono indirizzati a quelle componenti del mondo arabo che davvero riconoscono l’esistenza di Israele, il suo diritto alla vita. E in quella democrazia, l’unica dell’area – una democrazia plurale anche dal punto di vista etnico e religioso –, tale stato di minaccia permanente finisce per alimentare le spinte illiberali.
L’idea delle colombe – di quelle israeliane, palestinesi, russe, occidentali – di «due popoli due Stati» finora è rimasta un conato. L’idea, almeno in apparenza paradossale, di Marco Pannella di un più grande Stato democratico nella regione, federale e ancor più laico, multietnico e multireligioso («due popoli, uno Stato») sembra lontanissima e controfattuale, quasi utopica, pur trattandosi di una pista quasi inesplorata.
Ero un ragazzo quando inneggiavo all’OLP e a Yasser Arafat come unico, legittimo rappresentante dei palestinesi. Mentre il leader radicale ne indicava gli aspetti dispotici e le pratiche clientelari. La stessa Internazionale socialista ha accolto a suo tempo quella componente della galassia palestinese, ritenendo che, rafforzandone l’egemonia, si sarebbe facilitato un percorso di pace. Così non è stato. Del resto, nella stessa Cisgiordania il ruolo di Al-Fatah, il principale soggetto moderato, è messo seriamente in discussione.
Si è dissipata, intanto, quella diplomazia dei popoli a suo tempo incarnata da leader europei (e, diremmo noi oggi, globali) come Olof Palme, Willy Brandt, Enrico Berlinguer. Le perdite sono spesso dolorose e strazianti, ma esprimono in sé l’istanza di un erede, un futuro, una speranza, un nuovo inizio. La dissipazione è in genere meno traumatica, forse meno dolorosa, come una lenta emorragia, come una perdita invisibile o protratta nel tempo. Ma fa restare esangui.
Ecco, oggi manca quel tessuto connettivo fra i soggetti internazionali un tempo costituito dalle grandi forze politiche. E l’ONU è impotente. Hamas dichiara guerra. Nega il diritto di Israele a esistere e, dunque, è un’organizzazione terroristica. Ma – ecco il punto – come sostenere, oggi, l’Autorità nazionale palestinese? Come realizzare nuovi ponti fra essa e Tel-Aviv?
Credo che la diplomazia, in senso classico, non basti. E un’ostilità permanente rappresenterebbe la fine per i sogni di entrambi i popoli, forse per la stessa democrazia israeliana. Un suicidio condiviso. Insomma, la posta in gioco è molto alta, per l’Occidente e per il mondo intero: si tratta di uno dei crocevia decisivi, di uno snodo verso il futuro o, più miseramente, di un vicolo cieco per tutti.