Pietà per le persone, signor Presidente

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budde

Mi permetta, signor Presidente, di fare un ultimo appello. Milioni di persone le hanno dato fiducia e, come ha detto ieri alla nazione, lei ha avvertito sulla sua persona la mano provvidenziale di un Dio amorevole. Nel nome del nostro Dio, le chiedo di avere pietà delle persone nel nostro paese che ora sono spaventate. Ci sono bambini gay, lesbiche e transgender in famiglie democratiche, repubblicane e indipendenti, alcuni dei quali temono per la propria vita. I concittadini che coltivano i nostri campi, puliscono i nostri uffici, lavorano negli allevamenti di pollame e negli stabilimenti di confezionamento della carne, lavano i piatti dopo che abbiamo mangiato nei ristoranti e lavorano nei turni di notte negli ospedali, potrebbero non avere la nostra nazionalità o essere privi dei permessi di soggiorno legali, pur non essendo, nella stragrande maggioranza, criminali.
Pagano le tasse e sono buoni vicini. Sono membri fedeli delle nostre chiese, moschee, sinagoghe e templi. Le chiedo, signor Presidente, di avere pietà dei membri delle nostre comunità i cui figli temono che i genitori vengano deportati. Le chiedo di aiutare coloro che fuggono dalle zone di guerra e dalle persecuzioni nei loro Paesi a trovare compassione e accoglienza qui da noi. Il nostro Dio ci insegna ad avere compassione per gli stranieri, perché noi stessi un tempo eravamo stranieri in questo paese. Che Dio ci dia la forza e il coraggio di trattare tutti gli esseri umani con dignità, di esprimerci con verità e amore e di camminare umilmente gli uni con gli altri e con Dio. Per il bene di tutti in questo paese e nel mondo. Amen.

È la parte finale del sermone tenuto, alla presenza di Donald Trump, dalla vescova statunitense Mariann Edgar Budde nella cattedrale episcopaliana di Washington, martedì 21 gennaio 2025, il giorno dopo l’insediamento del quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti d’America.

Sermone che il neopresidente non ha gradito.

All’uscita dalla cattedrale, ad un giornalista che gli ha chiesto la sua opinione sui relativi contenuti Donald Trump si è limitato ad esprimere il suo disappunto: «Non penso sia stato un buon servizio. Potrebbero fare molto meglio».

Nella mattinata di mercoledì 22 gennaio, sulla sua piattaforma Truth Social ha però rincarato la dose. Dopo aver accusato «la cosiddetta vescova Mariann Budde» di essere stata «sgradevole», l’ha accusata di essere «un’estremista della sinistra radicale che odia visceralmente Trump». «Noioso nel tono e poco stimolante nei contenuti» il suo sermone. Per l’incapacità dimostrata nel suo lavoro – ha aggiunto Trump – «lei e la sua chiesa dovrebbero ora chiedere scusa a tutti!».

«Uno straordinario atto di resistenza»

Del tutto diverso il giudizio espresso dal New York Times che, invece, ha ritenuto il sermone «uno straordinario atto di resistenza».

Non un’arringa, ma, nello stile pacato di chi avverte il soffio dello Spirito negli accadimenti di ogni giorno, una ferma e rispettosa esortazione alla misericordia – il messaggio più alto del cristianesimo – che significa aprire il cuore sulle altrui disgrazie.

Un intervento – a mio sommesso parere – abissalmente distante dal contenuto delle preghiere fatte il giorno precedente nella Rotonda di Capitol Hill, in occasione del giuramento del neopresidente, da altri leaders religiosi presenti: cioè, dal compiacente cardinale cattolico Timothy Dolan, dall’accomodante predicatore protestante Franklin Graham, dall’esagitato pastore evangelico Lorenzo Sewel e dal compassato rabbino ortodosso Ari Berman.

Va detto, però, che a Capitol Hill, un umile presbitero cattolico in pensione di Brooklyn, Frank Mann, diventato amico del presedente nel 2016 per essersi preso cura della tomba della famiglia Trump nel contea di Queens dello Stato di New York, si è preso la libertà non solo di invocare il conforto di Dio «per coloro che si sentono persi o scoraggiati in questo momento di transizione», ma anche di chiedere a Dio di «ispirare i nostri nuovi leader ad essere sostenitori dei vulnerabili e difensori di coloro le cui voci sono spesso messe a tacere», perseguendo «politiche che promuovano il benessere di tutti, cercando di costruire ponti che favoriscano l’unità e l’appartenenza».

Chi è la vescova episcopaliana Mariann Edgar Budde

Donna di 65 anni, sposata con Paul Budde, madre di due figli (Amos e Patrick) e nonna, prima donna a diventare vescova della Chiesa episcopaliana di Washington, voce sottile e pacata, carattere energico e coraggioso, Mariann Edgar Budde è solita non indietreggiare di fronte ai potenti, ma a rivolgersi ad essi con un linguaggio che è, ad un tempo, rispettoso nei modi e profetico nei contenuti. Non a caso, nel 2023 ha pubblicato un fortunato libro dal titolo assolutamente significativo «How We Learn to Be Brave: Decisive Moments in Life and Faith» (Come imparare ad essere coraggiosi: momenti decisivi nella vita e nella fede).

È una delle personalità più influenti della comunità cristiana episcopaliana americana: nota soprattutto per il suo impegno verso la giustizia sociale e la tutela dei diritti umani.

Nel 2011, appena diventata vescova, aveva ordinato che venissero rimosse dalla Washington National Cathedral le vetrate in onore dei generali degli Stati Confederati d’America Robert Edward Lee e Stonewall Jackson, facendone installare di nuove, raffiguranti la lotta per i diritti civili degli afroamericani.

Nel 2016, all’indomani della prima elezione di Trump, aveva convocato una conferenza stampa per esprimere biasimo riguardo allo striscione che gli elettori più faziosi avevano appeso al muro del giardino di una parrocchia episcopaliana a Silver Spring (Stato del Maryland), frequentata da molti fedeli latini, su cui era scritto «Trump Nation. Whites only» (La Nazione di Trump. Solo bianchi).

Nell’estate del 2020 si era pubblicamente espressa in termini molto critici nei confronti di Trump quando, durante le proteste del movimento Black Lives Matter per la morte dell’afroamericano George Floyd nell’estate 2020, l’allora presidente aveva usato la storica chiesa episcopaliana di San Giovanni a Washington come sfondo per una foto con una Bibbia in mano.

Ancora, nel 2024 è stata una dei duecento leader, teologi e studiosi cristiani, firmatari di una lettera aperta invocante la salvaguardia della democrazia pluralista e l’opposizione al governo autoritario.

Il sito web della chiesa cattedrale di Washington, nel presentare la figura della vescova Budde, utilizza le seguenti parole: «Bishop Budde is committed to the spiritual and numerical growth of congregations and developing new expressions of Christian community. She believes that Jesus calls all who follow him to strive for justice and peace, and to respect the dignity of every human being» (La vescova Budde crede che Gesù chiami tutti coloro che lo seguono a lottare per la giustizia e la pace, e a rispettare la dignità di ogni essere umano).

I contenuti del sermone

Ma davvero la vescova Mariann Edgar Budde dovrebbe chiedere scusa per il tono e il contenuto del sermone pronunciato alla presenza del neopresidente Usa Donald Trump e del suo vice James David Vance?

Avendolo letto con attenzione nella sua stesura integrale, mi sembra di poter affermare che si tratta di un sermone (della durata di 14 minuti!) dai contenuti profondamente evangelici e teologicamente densi, incentrato su quattro concetti: unità, dignità, verità e umiltà. Merita socializzarlo quasi per intero.

Unità. «Questo culto nazionale ci vede riuniti per pregare per l’unità del popolo e della nazione […]. Un’unità che, al di là delle nostre diversità e divisioni, serva al bene comune e ci permetta di vivere in libertà e insieme in un Paese libero […]. L’unità non è conformismo, non è vittoria, non è spenta cortesia o stanca passività, non è partigianeria. L’unità è un modo di stare insieme, rispettando le nostre differenze e le nostre diverse condizioni di vita. Ci esorta a prenderci cura gli uni degli altri, nonostante i nostri disaccordi […]. L’unità, come l’amore, implica un dono di sé. Nel discorso della montagna Gesù di Nazareth ci invita ad amare non solo il nostro prossimo, ma anche i nostri nemici e a pregare per coloro che ci perseguitano, a essere misericordiosi come il nostro Dio è misericordioso, a perdonare come Dio ci perdona. E Gesù accoglieva gli esclusi dalla società. Ammetto che questo invito di Dio richiede da parte nostra molta speranza e preghiera, ma corrisponde al meglio di noi stessi. Ed è ovvio che se, invece, le nostre azioni contribuiscono solo ad aumentare le divisioni, le nostre preghiere serviranno a ben poco […]. Noi che siamo qui nella cattedrale non siamo ingenui, e quando sono in gioco potere, ricchezza e interessi contrastanti, quando ci sono opinioni diverse sul futuro dell’America, sappiamo che su tutte queste questioni ci saranno vincitori e perdenti […]. Se la cultura del disprezzo si diffonderà in America ci distruggerà tutti. Sono una credente, circondata da credenti, e credo che, con l’aiuto di Dio, la nostra unità sarà possibile: non sarà perfetta perché siamo un popolo imperfetto, ma sarà tale da permetterci di continuare ad aderire ai nostri ideali espressi nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, che afferma l’uguaglianza e la dignità innate di ogni essere umano […]. Gesù ci ha insegnato a costruire la nostra casa di fede sulla roccia dei suoi insegnamenti e non sulla sabbia della nostra inconsistenza. E le fondamenta della roccia, così come ce le rivelano le nostre tradizioni e i nostri testi sacri, mi sembrano essere tre».

Dignità. «Il primo fondamento dell’unità è il rispetto della dignità di ogni essere umano. Come dimostrano le varie religioni rappresentate oggi in questa cattedrale, tutti gli esseri umani sono ugualmente figli dell’unico Dio. Nel discorso pubblico dobbiamo conseguentemente rispettare la dignità di tutti, rifiutando ogni derisione, ogni denigrazione, ogni demonizzazione di chi è diverso da noi, rispettando, confrontandoci con rispetto sulle nostre differenze e cercando un terreno d’intesa ogni volta che è possibile. E se ciò risulta impossibile, rimaniamo naturalmente fedeli alle nostre convinzioni senza disprezzare chi ha le sue».

Verità. «Il secondo fondamento dell’unità è la verità, sia nelle conversazioni private che nei discorsi pubblici. Altrimenti, il nostro atteggiamento contradirebbe le parole delle nostre preghiere. All’inizio sperimenteremmo un falso senso di unità, che a lungo termine non sarebbe abbastanza forte per affrontare le sfide che abbiamo di fronte. Certo, non è sempre facile sapere dove sta la verità. Ma quando lo sappiamo, è nostro dovere darne testimonianza, anche se ci costa».

Umiltà. «Il terzo fondamento dell’unità è l’umiltà, perché siamo tutti esseri umani fallibili. Diciamo e facciamo cose di cui poi ci rammarichiamo. Ed è forse quando siamo convinti, senza ombra di dubbio, di avere assolutamente ragione e che qualcun altro abbia assolutamente torto che siamo i più pericolosi per noi stessi e per gli altri […]. La verità è che, alla fine, siamo tutti solo esseri umani, capaci sia di bene che di male. Alexander Solzhenitsyn diceva che la separazione tra bene e male non è tra Stati, classi sociali o partiti politici, ma attraversa ogni cuore umano. Più diventiamo consapevoli di questa verità, più permettiamo all’umiltà di dominare i nostri cuori e ci apriamo agli altri nonostante le nostre differenze e più ci rendiamo conto che ci assomigliamo più di quanto crediamo. Abbiamo, in realtà, bisogno gli uni degli altri. E più ce ne rendiamo conto, più diamo spazio dentro di noi all’umiltà e all’apertura verso l’altro, al di là delle nostre differenze».

«Pregare e costruire insieme»

Questa la conclusione del vero e proprio sermone, prima dell’accorata «ultima richiesta» rivolta direttamente al presidente (riportata integralmente all’inizio del presente scritto).

«È facile pregare per l’unità nelle celebrazioni solenni. È molto più difficile quando ci confrontiamo con le differenze reali nella nostra vita privata e nel mondo politico. Senza una vera unità, costruiremmo la casa del nostro Paese sulla sabbia. Costruendo invece sulle solide fondamenta della dignità, dell’onestà/verità e dell’umiltà, faremo nostri e realizzeremo, come il tempo presente ci richiede, gli ideali e i sogni dell’America».

«Non so odiare»

Quanto alle accuse di odiare il neopresidente o di essere un’esponente della sinistra radicale, la vescova, rispondendo alla domanda di un giornalista del settimanale Time, si è limitata ad affermare testualmente: «Non chiederò scusa per aver invocato misericordia per gli altri. Non so odiare, mi sforzo di non odiare nessuno e non odio il presidente Trump. Non appartengo nemmeno alla sinistra radicale, qualunque cosa ciò significhi: non è quello che sono».

In un’intervista rilasciata alla Associated Press la vescova ha assicurato che avrebbe continuato a pregare per il presidente, come sua abitudine. «Non condivido molte delle sue idee sulla società americana e su come rispondere alle sfide del nostro tempo. In realtà, sono fortemente in disaccordo, ma credo che possiamo essere in disaccordo senza mancarci di rispetto, esprimendo le nostre idee e continuando a sostenere le nostre convinzioni senza ricorrere alla violenza verbale».

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19 Commenti

  1. Giampaolo Sevieri 18 febbraio 2025
  2. Claudio 13 febbraio 2025
    • Anima errante 14 febbraio 2025
      • Claudio 14 febbraio 2025
        • anima errante 15 febbraio 2025
      • Giampaolo Sevieri 14 febbraio 2025
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          • anima errante 15 febbraio 2025
  3. Adelmo Li Cauzi 12 febbraio 2025
  4. Aldo 11 febbraio 2025
  5. Gian Piero 11 febbraio 2025
    • Enrico 12 febbraio 2025
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  6. Una donna 11 febbraio 2025
  7. Claudio 10 febbraio 2025
    • anima errante 11 febbraio 2025
      • Marina Umbra 12 febbraio 2025
    • Claudia 13 febbraio 2025

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