Sono trascorsi sette anni da quel 22 aprile 2013 quando furono rapiti da “sconosciuti” i due metropoliti di Aleppo, Mor Gregorios Youanna Ibrahim (siro-ortodosso) e Boulois Yazigi (greco-ortodosso). Erano in viaggio nell’ambito di una missione umanitaria e si trovavano al confine siro-turco Bab Al-Hawa sulla direttrice di Aleppo. Da allora sulla loro sorte non si è saputo più niente.
Il 22 aprile scorso, due patriarchi, il siro-ortodosso di Antiochia, Mor Ignatius Aphrem II, e Youanna X (greco-ortodosso) hanno pubblicato una dichiarazione comune in cui ricordano che nonostante «migliaia di ricerche» per ottenere informazioni, ogni loro tentativo è rimasto senza risposta. Nei 2.557 giorni trascorsi al compiersi dei sette anni, i due patriarchi scrivono: «Abbiamo bussato alle porte locali, regionali e internazionali, a quelle di governi, organizzazioni e personalità influenti pregandoli di occuparsi del caso». Il loro impegno ha acceso un «luce di speranza» – affermano – mentre il silenzio della comunità internazionale ha reso vano ogni tentativo di trovare una soluzione.
Nella loro dichiarazione invitano a pregare per i due metropoliti rapiti «ma anche per tutte le persone sequestrate, gli scomparsi, e tutti coloro che si trovano in situazioni drammatiche ma che, guardando alla croce di Cristo, hanno trovato consolazione». Ricordano che la vita umana in Medio Oriente non ha meno valore di quella delle altre regioni. La pandemia del coronavirus dimostra che tutti gli esseri umani «in qualsiasi circostanza si trovino, al di là di ogni diversità di origine, di religione e di nazionalità, sono sulla stessa barca. Ed è tempo che i politici, che hanno influsso sull’andamento delle cose, riconoscano che tutte le creature umane condividono la medesima dignità, indipendentemente dalla patria, dalla lingua, dalla cultura e dalla religione». È un riconoscimento amaro da digerire, ma la pandemia ha dimostrato chiaramente che tutte le creature umane «dovunque nel mondo condividono una comune esistenza e una fraternità umana».
Riferendosi quindi al loro ruolo in Oriente, i due patriarchi proseguono affermando che la logica delle contrapposizioni tra minoranza e maggioranza non ha alcun significato, al suo posto deve subentrare la logica dell’incontro, del dialogo e del ruolo pionieristico dei cristiani: «Noi – sottolineano – non siamo una carta che ognuno può giocare. Siamo un ponte di comunicazione e di incontro tra est e ovest, tra il cristianesimo e le altre religioni».
Tornando ai due metropoliti rapiti, il segretario generale del Consiglio mondiale delle Chiese, il teologo romeno-ortodosso prof. Ioan Sauca, ha assicurato la solidarietà con tutti coloro che pregano per il ritorno dei due vescovi rapiti: «Siamo in comunione di preghiera – ha dichiarato –, siamo solidali con le loro famiglie e partecipiamo al loro dolore e al loro strazio».
Anche la Società per i popoli minacciati, con sede a Gottinga, lo scorso 22 aprile, ricordando i due metropoliti rapiti, ha affermato che, anche dopo sette anni di attesa, c’è sempre la speranza di un loro ritorno. Non bisogna perdere la speranza, ha detto la Società di Gottinga che, nel 2014, aveva proposto con successo l’assegnazione ai due metropoliti rapiti del premio di Weimar per i diritti umani.
Le notizie a loro riguardo continuano ad essere confuse. Per esempio, lo scorso gennaio Mansur Salib di origine siriana, ma residente negli Stati Uniti, ha affermato in un resoconto che, nel dicembre 2016, i due vescovi sarebbero stati uccisi dai miliziani del gruppo jihadista “Nur-ed-din al Zengi” (nome di una capo musulmano di Mosul). Ma, i due attuali patriarchi di Antiochia, riferendosi al rapporto di Salib, hanno scritto che dal 2013 – e in maniera più accentuata negli ultimi mesi del 2019 – sono state diffuse «informazioni false e fuorvianti» circa la sorte dei due metropoliti rapiti. Perciò i patriarcati non cesseranno di ribaltare ogni pietra per ricercare il luogo dove si trovano e la sorte dei metropoliti. Affermano letteralmente: «Non possiamo né confermare né smentire le notizie che corrono sui due metropoliti. Riceviamo affermazioni del genere tutti i giorni».
Nella dichiarazione del 22 aprile ricordano, infine che i cristiani orientali «insieme ad altri gruppi della regione» con la loro vita e la loro sorte pagano il prezzo del terrorismo e della violenza sotto forma di «espulsioni, rapimenti, assassini e difficoltà di ogni genere. Ciò nonostante sono rimasti fedeli a Cristo che 2000 anni fa li ha chiamati a diffondere nella regione mediorientale “la gioia del suo Vangelo”».