Silvano Tagliagambe approfondisce le caratteristiche specifiche della cultura russa e va alla ricerca dei riferimenti utilizzati da Vladimir Putin e dal patriarca Kirill nella costruzione ideologica del russkij mir in opposizione all’Occidente. Propone lo studio degli autori e il confronto approfondito sulle idee, quali strumenti di pace.
- Professore, quali sono i caratteri che lei ritiene peculiari – diversi rispetto all’Occidente – della cultura russa?
Per rispondere, richiamo un testo illuminate di Juri Lotman e Boris Uspenskij – Rol’ dual’nych modelei v dinamike russkoj kul’tury do konca XVIII veka (ossia Il ruolo dei modelli bipolari nella dinamica della cultura russa fino alla fine del XVIII secolo), in ‘Trudy po russkoj i slavianskoj filologii’ – che risale al 1977, quindi a tempi ben precedenti l’attuale temperie.
I citati autori mettono ben evidenza due aspetti.
Vediamo il primo. La cultura russa è costruita per polarizzazioni contrapposte: santo/dannato, bene/male, per capirci. Manca pertanto, nella cultura russa, a differenza di quella occidentale, l’idea di una gradazione che consenta una facile conciliazione degli opposti.
Nella cultura russa manca sostanzialmente il concetto di uno spazio intermedio tra le polarità del mondo. L’autore russo che ha, in opposizione a questa visione, introdotto il concetto di spazio intermedio, innovando profondamente la cultura del tempo, è Pavel Florenskij: un autore chiave su cui tornerò anche oggi, benché ne abbia già parlato (qui).
La tesi sostenuta da Lotman e Uspenskij – ma non solo – è che tale “scarto” tra gli estremi sia attribuibile alla mancanza del Purgatorio nella teologia e nella predicazione della Chiesa russo ortodossa: ciò avrebbe maggiormente differenziato la Chiesa ortodossa da quella cattolica, quindi la cultura dell’Oriente russo dall’Occidente.
Il concetto di Purgatorio – per cui la cultura occidentale è debitrice soprattutto a Dante – genera nel pensiero occidentale quella zona intermedia, tra gli opposti, che non è né buona né cattiva., né santa né peccatrice e che consente raccordi e transizioni moderate o modulari, graduali, nel tempo.
Il concetto si risolve poi nella storia, per cui, mentre in Occidente i passaggi dal Medioevo al Rinascimento e dall’Età Moderna alla Contemporanea, sono avvenuti senza antitesi radicali, altrettanto non sarebbe avvenuto nel mondo russo. Nella cultura e quindi, per certi versi, nella storia russa, tutto è avvenuto per rovesciamenti successivi.
La cultura con la storia della Russia può essere interpretata quale serie di sbandamenti – oscillazioni – tra l’Oriente e l’Occidente, tra la slavofilia più chiusa e inaspettate aperture: l’esempio storico paradigmatico è costituito da Pietro il Grande, zar dal 1682 e primo imperatore della Grande Russia dal 1721 al 1725, anno della morte: Pietro rivolse decisamente il suo sguardo all’Europa con la fondazione di Pietroburgo, mente zar successivi tornarono rapidamente a ripiegarsi sul nucleo orientale, slavofilo, del proprio impero.
Questo già ci dice quanto l’atteggiamento della Russia nei confronti dell’Europa non sia stato – e quindi non possa tuttora facilmente essere – “equilibrato”, almeno nel senso che noi comunemente consideriamo.
Il secondo aspetto – correlato – altrettanto tipico della cultura russa, è l’idea di presente. Generalmente, nella cultura occidentale, il presente costituisce la base temporale del futuro, ovvero ciò che prepara consapevolmente al futuro. Nella cultura russa invece – in specie nel pensiero degli slavofili – il presente è visto come il portato della concatenazione degli eventi del passato, in una visione sostanzialmente fideistica o fatalistica del vissuto del popolo.
La memoria del passato – un passato magnificato e persino idolatrato – in questo modo diviene il fondamentale e quasi unico criterio di lettura del presente, di fronte ad un futuro che, di per sé, non esiste.
Questo aspetto è stato acutamente analizzato – e criticato – da un intellettuale russo quale fu Alexander Ivanovič Herzen, già a metà dell’800. Herzen se la prende con gli slavofili, scrivendone: «La loro adesione alla tradizione medievale russa, di cui si dichiarano eredi e sostenitori, li induce a condannare senza appello Pietro I perché creatore di uno Stato che persegue l’ideale del rinnovamento. In odio al mondo contemporaneo, essi esaltano le forme più antiche del possesso e della distribuzione delle terre delle comunità contadine. Il loro è un idoleggiamento delle origini, un mito della Russia al di fuori dal tempo».
È, a questo proposito, opportuno citare Vissario Belenskij, noto critico letterario che, nella prima metà dell’800, attraverso l’analisi linguistica, contrappone il russo narod’nost’ – da narod popolo – a national’nost’, espressione di derivazione latina, in particolare francese: mentre questa contiene in sé il dinamismo dei nazionalismi europei, il termine narod’nost’ suppone qualcosa di stabile, immobile, inabile alla trasformazione, destinato a durare nel tempo: la cultura del passato, del popolo russo, in un eterno presente.
Sia Herzen che Belinskij criticamente evidenziano la staticità della cultura russa e lo sguardo del popolo rivolto al passato: a uno spirito originario, mitico.
Integralità
- Chi sono gli slavofili? Quali altri pensieri hanno coltivato?
Al principio della corrente slavofila, io pongo due nomi: quello di Ivan Kireevskij e quello di Aleksej Chomiakov.
È singolare notare come Kireevskij si sia inizialmente formato sui testi della letteratura e della filosofia tedesca, in particolare di Goethe e di Shelling, assorbendo – sì – una razionalità occidentale, ma quella “romantica”, appunto tedesca, diversa da quella francese e inglese dell’epoca: una razionalità penetrata dallo spirito e quindi espressione dell’integralità della natura umana, fatta di mente e di cuore. In una fase successiva, Kireevskij si abbevera delle letture dei Padri della Chiesa orientale, in particolare di Isacco di Ninive – e poi di Gregorio Palamas – conferendo, nei suoi scritti, una connotazione sempre più religiosa e mistica dell’essere umano integrale.
L’altro autore slavofilo – Chomiakov – prende questa concezione integrale della persona umana individuale per spostarla maggiormente sul popolo, sulla cultura del popolo: narod’nost’. Ciò che significativamente aggiunge è che debba esserci un’istituzione a garantire la permanenza della cultura del popolo, e che questo soggetto istituzionale non possa che essere la Chiesa russo-ortodossa.
Ho già più volte citato qui la centralità, nella visione antropologica di questi autori, dell’integralità, cel’nost’ in russo. Cel’nost’ è centrale in altri autori russi. Lo stesso Pavel Florenskij ne fa significativo impiego per sostenere la globalità e quindi l’interdisciplinarietà naturale della cultura (contro i segni che aveva già colto di settorializzazione spinta del sapere in ambito occidentale). Per Chomiakov, in particolare, cel’nost’ significa un’integralità culturale che comprende le istituzioni e che solo può essere garantita dai livelli politico-istituzionali: da ciò la teorizzazione, per via filosofica, della stretta relazione tra la società e la Chiesa, tra l’autorità statale e l’autorità religiosa, tra il potere dello zar e quello del patriarca.
In questo modo ha rafforzato l’auto-definizione “Santa Russia”, che è, evidentemente, precedente.
Putin e Cirillo
- È in questi presupposti culturali che affonda la concezione contemporanea del “mondo russo” – russkij mir – proclamato da Putin e da Kirill?
A quanto detto, va aggiunto il termine e il concetto sotteso mir, oggi, appunto, continuamente evocato in Russia, dal presidente e dal patriarca. Il mir è, per tradizione, l’aggregazione delle piccole comunità rurali russe – ciascuna detta obščina – che dà luogo a una comunità sempre più vasta, sino a costituire un vero e proprio “mondo russo”.
Per Chomiakov, mir avrebbe potuto e dovuto raggiungere l’estensione massima – istituzionale – dell’intera Russia.
Sicuramente è a questo mondo concettuale che fa riferimento Putin e, insieme a lui, il patriarca Kirill, anche se le fonti e gli autori non sono precisamente gli stessi, tra i due. Sicuramente nel progetto condiviso del russkij mir sta l’imprescindibilità del rapporto tra il governo politico e l’autorità religiosa.
- Quali autori cita esplicitamente Putin per la promozione del “mondo russo”? Li cita a proposito o a sproposito?
Gli autori che gli è capitato di citare in discorsi ufficiali, recentemente, sono Vladimir Solov’ëv, Fëdor Dostoevskij, Nikolaj Berdjaev.
Solov’ëv è stato l’ispiratore degli ultimi romanzi di Dostoevskij, tra cui I fratelli Karamazov. In questi lavori è ben evidente l’immagine della rinascita dopo la caduta, una delle eredità, appunto, di Solov’ëv. A lui si deve pure la figura dell’Anghelos, ossia del doppio, che fa da guida divina all’uomo e al popolo. Nella sua vita Solov’ëv ha realizzato viaggi di studio in Egitto e nel Vicino Oriente, diffondendo la conoscenza del misticismo orientale nella cultura russa.
Bastano forse questi cenni per intuire che il discorso di Solov’ëv è assai articolato e profondo, non riducibile al modello slavofilo, anche se non può essere negata una certa sua influenza sulla concezione del “mondo russo”. Non so quanto sia quindi citato a proposito da Putin.
Berdjaev, dissidente anticomunista, espulso dalla Russia dei bolscevichi nel 1922, emigrò in Francia, dove visse fino alla morte. Fu uno dei maggiori esponenti dell’esistenzialismo e dell’anarchismo cristiano. Fu uno dei pochi che, nel 1914, anno di pubblicazione del capolavoro di Florenskij La colonna e il fondamento della verità, non si unì al coro di ammirazione e di stupore con cui questo singolare “trattato” teologico-filosofico venne accolto, anzi riservò all’autore critiche pungenti, fortemente polemiche e persino stizzite, mostrandosi del tutto indisponibile a cogliere la portata innovativa del metodo epistolare, messo in atto da Florenskij, oltre che dei contenuti.
La reazione di allora mostra le profonde differenze tra questi autori. Chi cita con ammirazione e adesione Berdjaev non è in genere ben disposto nei confronti di Florenskij, al quale non si perdona, in particolare, per il nostro tema, il dispiegamento di una vasta competenza nei diversi campi dello scibile in vista di un confronto veritativo con i nuclei portanti dell’esperienza di fede cristiana, ripensati in una logica di complementarità, piuttosto che di opposizione, tra Oriente e Occidente.
Ecco perché – a proposito del russkij mir – Putin cita Berdjaev, e non Florenskij (che infatti mi risulta non sia mai citato), anche se neppure Berdjaev può essere ritenuto uno slavofilo, in senso stretto.
Un discorso a parte penso meriti Dostoevskij, il letterato russo più famoso. Certamente nelle pagine e pagine dei romanzi di Dostoevskij incontriamo il narod’nost’, quindi la funzione salvifica del popolo russo con i valori slavo-cristiani contrapposti a quelli occidentali. Ma penso che dalla sua sterminata letteratura non possa essere tratta una semplice conclusione di slavofilia.
Come risulta da studi molto interessanti di neurologi quali Norman Geschwind, la valutazione della sua opera, soprattutto nella seconda fase, successiva alla condanna, alla finta fucilazione, agli anni di carcere, non può prescindere dall’impatto della malattia epilettica di cui Dostoevskij ha sofferto, specie dopo il 1860 e sino alla morte nel 1881. Ricordo le parole messe sulle labbra del personaggio emblematico del principe Myškin ne L’idiota: «…che importa se è malattia, che importa se questa tensione è anomala, quando il suo stesso risultato è l’attimo della suprema percezione, ricordato e analizzato in un momento di lucidità con l’effetto che esso produce, armonico e sublime?».
In Dostoevskij, dunque, il senso di una – sofferta – superiorità spirituale va valutato prestando la debita attenzione anche alla condizione patologica da lui sperimentata nel corpo e nella mente, piuttosto che a una compiuta teoria filosofico-culturale. Non so quindi, anche in questo caso, se sia citato proprio a proposito da Putin.
Voglio peraltro segnalare quella che appare ai miei occhi un’importante omissione nella galleria degli autori più consoni a sostenere il russkij mir, quella di Lev Šestov. Questi è, tra i filosofi-teologi più apprezzati dalla Chiesa russa: colui che maggiormente sottolinea la lontananza tra la cultura con i valori del popolo russo e la cultura dei popoli europei.
Šestov ha scritto interi libri per sostenere l’antinomia tra la fede cristiana ortodossa e la ragione occidentale prodotta dal cattolicesimo, quali Sulla bilancia di Giobbe e Filosofia della tragedia; in particolare, col volume edito in francese Athènes et Jérusalem, ha teorizzato l’impossibilità della conciliazione tra il mondo culturale di Atene e quello di Gerusalemme, quindi tra la ragione e la fede.
Probabilmente Šestov non viene citato da Putin perché – come altri filosofi e teologi – lasciò la Russia nel 1922, a seguito della rivoluzione, per trasferirsi a Parigi, ove morì. Eppure, Šestov è l’epigono ideale degli slavofili, nel XIX secolo.
Popolazione e religione
- Quanto la radice slavofila è da considerarsi tuttora vitale nella cultura e nella vita del popolo russo?
Certamente esiste una Russia profonda. Ma quanto si sta verificando in Russia è pure quanto si sta osservando un po’ in tutto il mondo, con lo scarto, spesso, enorme, che sussiste tra chi vive nelle campagne e chi vive nelle città, tra chi vive nei villaggi e chi nelle grandi metropoli. Le recenti elezioni in Turchia hanno messo ben evidenza i diversi orientamenti politici e culturali di chi vive nell’Anatolia profonda rispetto, ad ed esempio, a chi sta ad Istanbul oppure ad Ankara. Qualcosa di simile c’è in Russia: questo posso dire per il ricordo diretto che ho di Mosca o di San Pietroburgo.
Le nuove generazioni russe delle grandi città – non c’è dubbio – hanno come riferimento l’Occidente. Il pensiero degli slavofili, col loro “mondo russo”, non è cosa che possa attrarli.
- Esiste ancora una Russia pagana nella Russia cristiana delle campagne e dei villaggi?
Penso che a questa domanda abbia già risposto Pavel Florenskij nella sua opera Primi passi della filosofia: si tratta di una raccolta di conferenze del 1909 nell’Accademia Teologica di Mosca, in cui l’autore ha retrodatato di almeno 2.500 anni la nascita della filosofia che, secondo la tradizione, data al VI secolo a.C. a Mileto.
Secondo Florenskij, le categorie fondamentali della filosofia – in tutte le culture e non solo in quella greca – erano già contenute nei miti che, contrariamente a quanto si pensava o si pensa, non esprimono un pensiero politeista, bensì l’orientamento a un’unica divinità che si manifesta in diverse forme o dèi, assumendo i relativi nomi. Anche nel pensiero pagano dunque – pure in quello dei territori della antica Rus’ precedente il cristianesimo – la realtà si manifestava agli occhi umani, costantemente, nella stretta relazione tra il visibile e l’invisibile, tra l’umano e il divino: questo è uno dei punti saldi della teologia – filosofia e scienza – di Florenskij, sacerdote ortodosso; da questo punto fermo di diretta esperienza personale proviene la stessa idea della divinizzazione dell’umano. Ciò spiega la saldatura – tuttora sussistente nella Russia profonda – tra un paganesimo, tutt’altro che insignificante, e il cristianesimo ortodosso, quale dato di fatto che, per Florenskij, va studiato e compreso nelle sue radici.
Occidente
- Perché Pavel Florenskij non può essere assolutamente annoverato tra gli slavofili che si oppongono all’Occidente?
Perché tutta la sua opera è decisamente orientata a costruire il futuro. Ci sono elementi biografici che lo stanno a confermare. Da matematico e ingegnere – oltre a molto altro qual era – Florenskij fu chiamato da Lenin, benché pope inviso al regime sovietico, di cui fu successivamente vittima e martire, a lavorare al piano di elettrificazione della Russia. Fu il redattore responsabile delle voci di tecnologia della grande enciclopedia sovietica. Uno dei suoi principali testi scientifici resta, tuttora, il saggio Organoprojekcija – la proiezione degli organi – in cui ipotizzò la continuità tra la biologia e la tecnologia.
Tutto questo non ha evidentemente nulla a che fare con la visione statica, rivolta al passato, come ho detto, degli slavofili e, oggi, del russkij mir. Tanto è vero che la causa di beatificazione che la Chiesa russa aveva a suo tempo intrapreso è stata bruscamente interrotta. Non solo: ogni riferimento alla sua opera viene cancellato. Tanto meno compare nei discorsi di Putin e di Kirill.
- Leggendo certe pagine di Florenskij non ritiene si possa cogliere pure un certo senso di superiorità dell’ortodossia russa sul cattolicesimo?
Può darsi. Tuttavia, io ritengo si tratti di una chiamata ad una maggiore aderenza ai valori evangelici, oltre che della convinzione dell’incisività del culto – permeato di grande bellezza, in quanto convergenza e ibridazione di parola, canto, e immagini delle icone nel rito russo ortodosso – sulla realtà.
Non sono certo questi i segni che il patriarca Kirill sta ora richiamando, quando rivendica la superiorità del mondo russo sull’occidente degenerato. I suoi discorsi sono più politici che evangelici, tanto che le divisioni tra il patriarcato di Mosca e quello di Kiev, sono solo di natura politica: non c’è nulla di divisivo dal punto di vista strettamente teologico.
- Si riesce ad andare alle radici culturali – se ce ne sono – di certa aggressività verbale e soprattutto dell’attuale aggressione militare russa?
Senza spiegare o tanto meno giustificare nulla, io penso che davvero oggi il “mondo russo” avverta il pericolo di una possibile estinzione. Per questo “mondo” la minaccia è duplice: da una parte, c’è – sì – l’Occidente, che mette pressione con la sua saldatura, politico-militare, tra Stati Uniti ed Europa, tramite la NATO; ma, dall’altra parte, non possiamo dimenticare il fatto che gran parte delle Repubbliche asiatiche che costituivano l’Unione Sovietica sono a stragrande maggioranza di religione e cultura islamica, mentre, dal punto di vista demografico, la popolazione cristiana russo-ortodossa, nella stessa Federazione russa, sta regredendo: i musulmani crescono e cristiani calano. Anche questo secondo fattore sta determinando una enorme pressione psicologica, anche se molto poco dichiarata.
In questo contesto va valutato poi l’impatto del distacco del patriarcato di Kiev da quello di Mosca con la concessione dell’autocefalia da parte di Costantinopoli nel 2018: un evento tragico per chi pensa il “mondo russo” unico e unito, come ho detto. Non solo tale evento ha ridimensionato il peso della Chiesa russo-ortodossa, ma ha anche indebolito di molto il numero e quindi la rilevanza – culturale, religiosa e politica – dei cristiani ortodossi in ciò che è stato l’impero sovietico e russo in precedenza.
Questo “sentire” russo – assai poco considerato dalle nostre parti – di per sé rafforza il ritorno del russkij mir e rialimenta la missione di Mosca quale “Terza Roma” incaricata di salvare la cristianità autentica coi suoi valori, sia dalle degenerazioni occidentali, sia dalla minaccia culturale islamica. Così si guarda indietro: alla Rus’ di Kiev!
Oltre la guerra
- Perché questo timore della cultura islamica non viene esplicitato e, nel mentre, la Russia ortodossa fa la guerra all’Ucraina che è pure cristiana ortodossa?
Certo è paradossale e drammatico. E tuttavia è piuttosto evidente la ragione per cui né Putin né Kirill possono manifestare i loro timori: immediatamente, infatti, si alienerebbero le forme di alleanza politica oggi in essere, con la Turchia, con i Paesi arabi, con tutto il mondo orientale, con gli stessi soldati – non cristiani – che stanno combattendo e morendo in Ucraina per la Russia.
- Qual è il contributo che la cultura può dare per cercare di uscire dalla situazione – orribile – generata da questa guerra?
Da referente – con Roberto Battiston e Edoardo Boncinelli – del Festival di Scienze e Filosofia di Foligno, ho proposto quest’anno, in aprile, di aprire il convegno con una intervista a Romano Prodi, perché Prodi – da Presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004, aveva intelligentemente coniato la definizione di un’Europa estesa “dai Pirenei agli Urali”, tentando una relazione politica e culturale costante – non solo energetica e non solo quindi contingente – con la Russia. Per tanti motivi, che Prodi è in grado di spiegare, il disegno sotteso alla definizione non è andato in porto.
Ci dobbiamo ora intensamente chiedere, secondo me, quali conseguenze quel fallimento abbiano prodotto rispetto alla perenne oscillazione russa tra l’Oriente e l’Occidente: probabilmente la Russia che si è sentita respinta dall’Europa, ha pensato bene, ancora una volta, di volgere lo sguardo altrove.
Mi chiedo e chiedo quanto il fallimento del progetto di Prodi – che ora andrebbe ben ricordato – ha prodotto un effetto di reazione in Russia, ridando fiato a quelli che si dichiarano apertamente slavofili e promotori del russkij mir, facendosi eredi della più pura identità russa.
- Lei ritiene che una diversa relazione tra Europa e Russia sarebbe stata possibile dopo il crollo della Unione Sovietica? Con quale leader?
Sì. Certamente con Gorbačëv, certamente meno con El’cin, forse con lo stesso Putin nei primi anni della sua presidenza.
- C’è altro che la cultura italiana – anche ecclesiale – possa fare?
Certo, si può e si deve cercare di sciogliere e combattere l’ostracismo che è montato nei confronti della cultura russa in questo anno e passa: lo dico nel nostro stesso interesse di italiani e di europei. Se non studiamo e non conosciamo la cultura russa in profondità, ci precludiamo, evidentemente, la possibilità di capirla e di comprendere, quindi, le decisioni dei russi. Non dico certo che dobbiamo condividere lo loro scelte, ma capirle sì.
Proprio il semiologo Lotman, che ho citato all’inizio, assieme ad Andrej Kolmogorov – uno dei più grandi matematici del ’900 – ha corretto, arricchito e approfondito l’idea tradizionale della comunicazione. La condizione indispensabile perché una comunicazione autentica possa avvenire – tra un mittente e un destinatario – è che il primo conosca e possieda il modello culturale del secondo per farsi capire, mentre, dall’altra parte, il secondo conosca e possieda il modello culturale del primo per potergli rispondere a tono.
In altre parole, questi uomini di scienza integrale – russi – hanno messo in evidenza quanto sia importante per comunicare, parlare, capire, sapersi “mettere nei panni dell’altro”. Se manca questa capacità, determinata dalla conoscenza, la comunicazione è destinata a chiudersi o a fallire. Questo i due autori l’hanno scritto in tempi non sospetti, negli anni ’70 del secolo scorso. Ma potrebbero ben averlo scritto nei tempi che stiamo vivendo.
Ora, se manca lo sforzo di “metterci nei panni dell’altro”, che pure consideriamo a buon diritto un “nemico”, o se persino teorizziamo la necessità di chiudere ogni porta di accesso alla cultura russa, come potremo mai proporci di mettere fine a questa guerra, non solo in maniera provvisoria e contingente bensì permanente? Questo sforzo oggi francamente manca. Io non lo vedo. Mentre non posso che auspicare e adoperarmi, per quanto posso, perché riprenda, con uno studio intenso e rinnovato.