Il 17 luglio, in occasione dell’anniversario della strage della famiglia dello zar di Russia (16-17 luglio 1918), la responsabile della commissione d’inchiesta della Chiesa ortodossa russa sui resti imperiali, Marina Molodtsova, ha confermato alla Izvestia l’autenticità dei resti ritrovati nel 1991 e nel 2007, aggiungendo tuttavia che le ricerche continuano. La parola finale toccherà al sinodo della Chiesa.
Succeduto a una precedente commissione statuale, l’attuale gruppo di ricerca, avviato nel 2015, ha effettuato 37 nuovi esami. «Continuiamo a raccogliere materiali e a provvedere ad altri esami medico-legali che consideriamo necessari per togliere ogni dubbio». Fra questi lo studio sul cappello dello zar Nicola II, danneggiato nell’attentato da lui subìto in un viaggio in Giappone. Se gli strappi nel tessuto coincidessero con le ferite ritrovate sul cranio si confermerebbe ulteriormente l’autenticità dei resti. Sono oltre 2.000 le fonti storiche visionate che riguardano l’assassinio della famiglia imperiale.
La strage è avvenuta nella notte fra il 16 e il 17 luglio nella cantina di casa Ipat’ev a Ekaterinburg dove la famiglia imperiale era prigioniera dei soviet.
Il giorno successivo, durante la seduta ordinaria del Consiglio dei commissari del popolo a Mosca, mentre il commissario alla sanità presenta un progetto di legge, il compagno J.M. Svardlov annuncia: «Compagni, secondo le informazioni che ci sono arrivate da Ekaterinburg, Nicola è stato giustiziato, in conformità con la decisione presa dal soviet regionale».
Lenin ascolta e, senza dare alcun rilievo alla notizia, continua l’ordine del giorno. Trotzkij, commissario del popolo alla guerra, commenta successivamente: «La severità di questo atto sommario provava al mondo che eravamo determinati a continuare la lotta, implacabilmente, senza fermarci davanti a nessun ostacolo».
I resti dei cadaveri sono portati ad alcuni chilometri di distanza in una località prima identificata con Ganina Juma, poi, più correttamente, con Porosenko Log (Burrone del maialino).
Memoria fra politica e Chiesa
Alla caduta del regime comunista, il ritrovamento dei resti è solennizzato nella deposizione degli stessi nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a San Pietroburgo nel 1998. Per l’occasione, l’allora presidente B. Eltsin afferma: «Mettendo nel sepolcro questi resti, vogliamo espiare il peccato dei nostri avi. Coloro che hanno commesso questo atto di barbarie e tutti quello che l’hanno approvato nei decenni successivi sono colpevoli. Dobbiamo concludere un secolo che è stato segnato dal sangue e dall’illegalità».
Ma proprio in quell’occasione la Chiesa si allontana dalle conclusioni di autenticità che lo stato riteneva acquisite per verificare in proprio i risultati e avere l’ultima parola. Il patriarca Alessio non partecipa alla cerimonia e, nella celebrazione liturgica, i resti vengono ricordati come anonimi («sei tu Signore, che conosci i loro nomi»).
Alla gerarchia non piace che l’ultima parola sia affidata a una semplice commissione scientifica dopo il riconoscimento di santità prima da parte della Chiesa russa d’Oltre frontiera (1982, successivamente rientrata nell’obbedienza a Mosca) e poi della Chiesa russa nel 2000. Un riconoscimento per la morte subìta e sopportata senza violenza: una figura di santità chiamata stratoterpsi, coloro che accettano di subire la passione senza difendersi.
La nuova commissione (2015) è presieduta dal metropolita Varsonofij di san Pietroburgo e dal vescovo Tichon Ševkunov in qualità di segretario. I limiti addebitati al lavoro precedente sono: la non completezza dell’esame del DNA, l’esumazione confusa e abborracciata dei resti raccolti, gli importanti documenti scoperti successivamente, l’imprecisione della storia delle tombe ritrovate, prima considerate manomesse e poi no.
«Abbiamo argomenti seri»
Il vescovo Tichon commenta; «Siamo fatti passare come oscurantisti e capricciosi, contrari al buon senso comune. Non è così. Se decidiamo in merito è perché abbiamo argomenti seri, molto seri per farlo». «La Chiesa ritornerà sul tema del riconoscimento delle reliquie, ma è il sinodo che deciderà in merito». La Chiesa è sollecitata anche dalla contrapposizione interna fra chi ritiene che i resti mortali dello zar siano stati completamente distrutti e chi no.
Nel 2018 il responsabile del dipartimento sinodale per le relazioni con la società e i media, Vladimir Legojada, conferma la prudenza ecclesiale sull’autenticità dei resti mortali e ricorda che la Chiesa su questo tema non può permettersi alcun errore. La sicurezza attuale di attribuzione non supera il 70%.
È difficile tuttavia che non si arrivi a un pieno riconoscimento delle ossa e dei reperti ritrovati. Questo significherà anche il cambiamento di alcune pratiche e credenze ancora diffuse. Come l’archiviazione definitiva dell’eccidio come assassinio rituale (legato all’identità ebraica del commissario J. Kurovskij, diretto responsabile dell’eccidio), il riconoscimento del luogo vero della sepoltura (Porosenko Log), il culto dei resti raccolti nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di san Pietroburgo, la delegittimazione delle credenze circa la sopravvivenza di due delle figlie dello zar. Solo col riconoscimento ecclesiale si compirà la saldatura della memoria statuale con quella ecclesiale e dei discendenti dei Romanov.