Correva l’anno 1259: la violenza delle operazioni militari mongole, per consolidare il controllo di Baghdad, costrinse il patriarca caldeo ad abbandonare la città. Da allora, la storia della regione non ha più conosciuto simili eventi, almeno sino al 15 luglio scorso, quando il patriarca caldeo Louis Sako, per motivi di sicurezza personale, è stato costretto a lasciare Baghdad (cf. qui).
Le minacce alla sua vita − e al ruolo di massima autorità religiosa dei cristiani caldei − sono giunte da quello che potremmo definire il nuovo aspirante al ruolo di re mongolo, il deputato caldeo e capo della milizia filo-khomeinista Babilonia, l’onorevole deputato Rayan al Kaldani (che significa Rayan il caldeo), armato dal capo dei pasdaran sciiti ai tempi della battaglia contro l’ISIS, ora riconosciuto responsabile di gravi violazioni dei diritti umani.
Un filmato, apparso tempo fa sul web, lo ha ripreso intento a tagliare un orecchio di un prigioniero ammanettato. Oggi capeggia il gruppo di quattro dei cinque deputati caldei che la costituzione irachena riconosce ai caldei quale minoranza etnica e religiosa insopprimibile, benché possa essere votata da chiunque. Difficilmente gli iracheni caldei possono averlo votato − essendo questo Rayan molto noto per l’occupazione e il saccheggio delle loro case e dei loro negozi nella piana di Ninive − ma i componenti le milizie khomeiniste senz’altro sì, lo hanno votato.
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Poco prima della decisione del patriarca Sako di ritirarsi in un convento nel Kurdistan iracheno, il Presidente della Repubblica aveva incontrato proprio l’onorevole Kaldani decidendo di abrogare il decreto presidenziale che riconosceva Sako patriarca e quindi suprema autorità religiosa, pure responsabile dei beni ecclesiastici: un fatto senza precedenti nelle ere a noi note.
Il senso piuttosto evidente e profondo di una tale aggressione al patriarca Sako è che l’Iraq è ormai un Paese in preda alle milizie e alle loro scorribande, condizionate dai desideri o disegni dell’Iran. La situazione affonda nel «golpe bianco» di un anno fa, quando la volontà popolare fu, ancora una volta, capovolta con abili giochi parlamentari.
Il quadro iracheno è composito e comprende − nel tutto − l’ultima impresa delle milizie irachene, ossia il rogo dell’ambasciata svedese, seguita dall’espulsione dell’ambasciatore.
Il blocco risultato sconfitto nelle elezioni di due anni fa, infatti, fu quello delle milizie khomeiniste, che vide precipitare il consenso. Allora, fece man bassa di voti il giovane ribelle sciita − mix di figura religiosa e capo milizia − Moqtada al Sadr, erede del più amato capo spirituale dello sciismo iracheno, famoso quale leader in armi ai tempi della lotta contro Saddam e poi contro gli americani.
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Da tempo, al Sadr ha fatto proprio, però, un discorso nazionalista che, almeno a parole, ne accreditava la trasformazione: intendeva porre termine all’influenza dei pasdaran e dei mullah iraniani sul Paese. Il suo assunto politico, negli anni recenti, può essere così speso: «Basta iraniani, l’Iraq agli iracheni». Questi sono effettivamente stanchi del fondamentalismo miliziano dei pasdaran e delle loro vessazioni.
Le elezioni così gli hanno dato ragione, accreditando una sua metamorfosi. Ma i capi delle milizie più fedeli ai pasdaran sono riusciti ad impedire, con abili manovre parlamentari, che Sadr formasse il governo. Perciò, dopo un anno di paralisi, al Sadr ha deciso di ritirare tutti i suoi deputati. Subentrarono, un anno fa, appunto, i primi dei non eletti: tutti candidati delle milizie khomeiniste, armate e foraggiate dai pasdaran. E al Sadr da un anno è uscito di scena.
L’aggressione contro il patriarca Sako si è consumata pochi giorni fa, e il mondo non ha ancora reagito all’enormità dell’accaduto. Si prefigura la confisca dei beni della Chiesa caldea da parte di un’efferata milizia, esibita quale rappresentanza parlamentare delle vittime.
Al Sadr, poco dopo, ha così colto l’occasione per tornare sulla scena, «grazie» al Corano: nessuno in Medio Oriente si era ancora occupato dei roghi svedesi del Corano da parte di un estremista islamofobo di origini irachene, trasferitosi in Scandinavia tanto tempo fa. Ci ha pensato Moqtada al Sadr, così ripresentandosi a tutti i «tutori dell’Islam», a cominciare dai silenti ayatollah e pasdaran iraniani. Possono ancora prescindere da lui? O lo hanno scelto per innescare una provocazione che ora sembra potersi espandere? È stato al Sadr a scagliare i suoi seguaci, sempre numerosissimi, all’assalto dell’ambasciata svedese, naturalmente per difendere il Corano.
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Non sbaglia chi ritiene che al Sadr voglia difendere, in realtà, sé stesso e ritrovare un ruolo, diciamo così, «politico», nel marasma iracheno. Possono i khomeinisti criticarlo? O c’è proprio qualcuno a Tehran, dietro di lui?
A parole il governo, oggi filoiraniano, si è detto sgomento, ma poi ha dovuto recuperare, espellendo l’ambasciatore svedese. Sadr sarà gongolante: dopo un anno di rimozione dalla scena politica da parte dei suoi rivali, pare che lui, con la sua milizia, possa tornare protagonista.
Ma quali siano ora i suoi rapporti, veri, con gli ayatollah di Teheran è difficile dire, sebbene sia arduo che tutto questo si verifichi senza un benestare iraniano. Quel che è chiaro è comunque che le milizie hanno un nuovo interlocutore con cui fare i conti per spartirsi le spoglie di un Paese allo sbando, come ai tempi in cui spadroneggiavano prima al Qaida e poi l’ISIS.