Santa Sede: per un Libano multiconfessionale

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La lunga missione libanese del segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, prosegue sino a giovedì 27 giugno. I timori di una guerra totale tra Hezbollah e Israele pongono in evidenza tutta la centralità di Beirut in questo momento, per chiunque voglia evitare uno sviluppo catastrofico del conflitto.

Ed è proprio lì, a Beirut, che il segretario di Stato vaticano ha deciso di fermarsi per ben quattro giorni. Ponendo al centro della sua iniziativa diplomatica lo sblocco della paralisi istituzionale del Libano, che dall’ottobre del 2022 aspetta inutilmente il suo nuovo presidente della Repubblica: per prassi consolidata un cristiano maronita. Solo un presidente potrebbe restituire al Paese un governo nella pienezza dei suoi poteri. Mentre l’attuale può sbrigare solo gli affari correnti, ossia è senza poteri. Il governatore della banca centrale libanese è – pure – un semplice reggente facente funzione.

I malevoli interpretano la volontà del Vaticano di favorire la nomina di un presidente come disponibilità a qualsiasi presidente: l’importante sarebbe conservare un capo di Stato arabo, dagli ampi poteri e di fede cristiana. È una tesi plausibile, ma a mio avviso non fondata. Sostenerlo vuol dire sostenere che il Vaticano accetterebbe la presidenza di Sleiman Frangieh, esponente di un partito cristiano personalizzato – noto quale amico diretto di Bashar al-Assad – candidato sinora ritenuto irrinunciabile da parte di Hezbollah.

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Situazione inedita? Affatto! Il Libano è arrivato alla bancarotta in cui versa tuttora sotto la presidenza di Michel Aoun, l’ex presidente imposto da Hezbollah al termine di un braccio di ferro altrettanto lungo, e definibile «una cassetta delle lettere per Hezbollah» nel palazzo presidenziale.

Quindi, cosa cambierebbe rispetto al già visto, che ha ridotto uno Stato al fallimento? Avere il presidente di uno Stato comunque fallito equivale a non avere un capo di Stato. Parolin lo sa benissimo.

Ma il ssegretario di Stato vaticano non è andato a infilarsi nelle dispute tra maroniti, in molti casi afflitti da quella che io definisco la sindrome presidenziale, sino al suicidio. Divisi, da sempre, su tutto, i maroniti sanno che Hezbollah non può più decidere da solo: i numeri non sono più tali, i fedelissimi nelle altre confessioni sono diminuiti, la quota per imporre il diktat non c’è.

Ma non è questo il punto che segna l’approccio del segretario vaticano. Lui pensa, secondo me, a un maronita presidente, non ad un presidente maronita. Voglio dire che, nella sua visione, il campo cristiano converge su un identikit da proporre – con una propria visione – alle altre comunità, per arrivare, assieme, al nome migliore.

La «cassetta delle lettere per Hezbollah» già esiste. Chiunque oggi voglia negoziare con Hezbollah, pur non potendo farlo direttamente – poiché per molti Paesi Hezbollah è un gruppo terrorista – va a parlare con Nabih Berri, intramontabile presidente del parlamento, sciita e fedelissimo alleato di Hezbollah. Questo per il leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah, è sufficiente: Berri è una cassetta delle lettere che gli toglie di torno il fastidio chiamato Stato libanese; oggi il Libano, nei fatti, è Hezbollah. Sono i calcoli di Hezbollah a decidere la guerra e, semmai, la pace, così come ogni altra cosa.

Mentre l’impostazione – che mi appare attribuibile a Parolin – vuol riportare in vita lo Stato libanese: non escluderebbe ovviamente, nessuna comunità, nessuna forza politica, ma ricreerebbe le istituzioni di uno Stato multiconfessionale, rappresentativo di tutti.

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Sostengo ciò non per partito preso, ma per due fatti: Parolin, proprio in questa visita, ha sottolineato le responsabilità oltre che dei cristiani anche “istituzionali”, riferendosi alla presidenza della Camera, per la non elezione del capo dello Stato, per via dell’evidente violazione della Costituzione libanese, cioè del sistema di voto parlamentare. Sono parole giustissime – e anche fortissime – quelle di Parolin, dette in Libano.

In effetti, le cose stanno così, per scelta del duo sciita: Hezbollah e il potente presidente del Parlamento, Nabih Berri. Noi, italiani, siamo in grado di ben comprendere: alle prime votazioni si vota a maggioranza qualificata, poi subentra la maggioranza semplice. Dovrebbe essere così anche in Libano, ma il presidente del Parlamento, Berri, ogni volta, afferma che si ricomincia da capo, impedendo l’abbassamento del quorum.

L’affermazione del segretario di Stato vaticano – che io attribuisco a una questione precisa, documentata e grave – ci ricorda allora quanto accadde il 14 giugno 2023, quando per la prima volta nella loro storia i cristiani si accordarono su un nome tecnico: ottenne tanti voti ma non fu eletto, per poco e a causa di Berri. Se si fosse, infatti, tornati a votare subito – mentre da allora non si è più votato – avrebbe avuto buone chance, posto che ebbe 60 voti su 128. Col rispetto delle regole, gli sarebbero bastati altri cinque consensi.

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Dunque, l’idea del Vaticano è di salvaguardare lo Stato multiconfessionale libanese, quale soggetto che dovrebbe esprimersi anche sulla guerra, trattando con Hezbollah una soluzione interna che tenga conto dei problemi e delle priorità di tutti. Perché ben pochi, oggi, in Libano, col Paese in bancarotta, si pongono la priorità della guerra.

Secondo la mia interpretazione, il cardinale Parolin non penserebbe affatto ad una candidatura identitaria – o ad una candidatura quale che sia, purché sia – bensì ad un accordo tra cristiani che proponga una base di confronto in vista di un accordo tra quanti più libanesi. Sarebbe il ritorno alla sostanza del vecchio Levante, che esiste se unisce le diversità.

Ma non è evidentemente questa l’idea di Hezbollah, come ancora dimostra l’incidente che ha segnato la prima giornata libanese di Parolin. Il patriarca Beshara Rai aveva convocato, in onore dell’ospite, un summit con tutti i leader religiosi del Paese, insieme alle personalità politiche. Alla base dell’incontro aveva posto l’auspicio di un pieno rispetto delle risoluzioni dell’ONU sul Libano.

Risoluzioni che però Hezbollah non apprezza. Infatti, ha spinto il presidente del Consiglio Supremo Sciita a boicottare l’incontro. Lui ha spiegato ovviamente che i rapporti col Vaticano sono preziosi, stimati e da tutelare. Ma ha scelto di non andare – unico – per affermare che Hezbollah non riconosce altre autorità: non è questo il miglior viatico per una presidenza affidata ad un cristiano autentico.

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