Sarajevo: 30 anni dall’inizio della guerra

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30 inizio guerra

Questo mese segna il trentennale dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, che cominciò il 5 aprile 1992 e, essendo finito ufficialmente soltanto il 29 febbraio 1996, è ricordato come l’assedio più lungo sostenuto da una capitale nella storia moderna. E anche uno dei più crudeli, avendo mietuto undicimila vittime, di cui oltre mille bambini.

Le comunità nazionali della Bosnia Erzegovina stanno ricordando in questi primi mesi dell’anno l’inizio della guerra civile degli anni Novanta in modi molto diversi.

Se, all’inizio di gennaio, la Republika Srpska (RS) ha festeggiato il suo trentennale organizzando un corteo che avrebbe dovuto svolgersi in pompa magna ma che ha poi ha coinvolto poche migliaia di partecipanti, dal lato bosniaco-musulmano, dopo trent’anni, continuano le identificazioni delle vittime di quella guerra.

La comunità internazionale, per parte sua, promuove in questi giorni, attraverso una campagna di affissioni, l’impegno volto allo sminamento completo del paese, opera evidentemente non ancora conclusa.

Il paese oggi

A trent’anni dall’inizio della guerra, il paese sta conoscendo un crescente benessere grazie allo sviluppo di alcuni settori dell’economia privata cui però non si accompagna una maggiore qualità dei servizi pubblici, un rinnovamento della macchina burocratica e una chiara volontà della politica di superare le fratture del passato.

Una rete autostradale che colleghi le maggiori città del paese ancora non esiste. Il treno Banja Luka-Sarajevo impiega oltre cinque ore per fare duecentocinquanta chilometri. Le scuole bosniache continuano a sfornare studenti le cui abilità risultano costantemente al di sotto della media dei paesi che partecipano ai test PISA.

L’economia, tuttavia, tiene; specie nella Federazione croato-musulmana. La crescita nel 2021 è stata del 7,5% su base annua. Ma l’economia tiene grazie a un regime fiscale orientato alla crescita (flat tax del 10%) e a un costo del lavoro che rimane basso per via, tra le altre cose, di una disoccupazione stabilmente intorno al 30%, che, a fronte di un tessuto industriale poco diversificato e tecnologicamente ancora arretrato, pone i lavoratori in una posizione svantaggiosa. Una crescita, insomma, che tende a creare pochi benestanti e molti insoddisfatti.

Toni aspri nel dibattito pubblico

Che il discorso pubblico sia ancora dominato da rivendicazioni, recriminazioni e revanscismi lo dice la retorica incendiaria di questi giorni. Spicca su tutti, anche se non unico a usare questi toni, il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, che, di fronte alla decisione dell’Alto Rappresentante della Comunità Internazionale, il tedesco Christian Schmitt, di sospendere una nuova normativa della RS sulla proprietà immobiliare in attesa di verificarne la costituzionalità, ha invitato Schmitt a tornarsene in Germania, aggiungendo che la presenza di un contingente tedesco nell’EUFOR è indice di un ritorno del nazismo.

sminamento

Cartello EUFOR: fine dello sminamento entro il 2023

A suffragare il sospetto che questa normativa non sia soltanto una faccenda ragionieristica ma si iscriva nell’ormai sbandierato disegno di affrancamento della RS dalle istituzioni federali in una prospettiva secessionistica, mercoledì 20 aprile si è tenuto un corteo convocato dall’Associazione dei Veterani di Guerra al grido di “Libertà! Tutti nello stesso posto, come nel 1992“.

Il corteo è cominciato con mezz’ora di ritardo a causa del numero insufficiente di partecipanti. Dodik e la Presidente della RS Zeljka Cvijanović non hanno tenuto discorsi ma circola in rete un video in cui li si vede divertiti mentre un gruppo di attempati cantori, suonando una fisarmonica, intonano una canzone dal sapore goliardico nei cui versi inseriscono minacce contro Schmitt.

Sono giorni difficili questi per la leadership della RS. A fronte dei reiterati tentativi di compromettere il funzionamento delle istituzioni bosniache per dimostrare l’insostenibilità del progetto statuale scaturito dagli accordi di Dayton, il governo britannico ha sanzionato sia Dodik che Cvijanovic congelando i loro asset e impedendo loro l’ingresso nel Regno Unito.

Balcani instabili

Per parte sua, la Germania, dove da tempo si susseguono allarmi sui possibili effetti che la guerra in Ucraina potrebbe avere sulla stabilità dei Balcani, ha sospeso progetti infrastrutturali per 100 milioni di euro previsti in RS. Dal canto suo, Dodik si fa forte della separazione di fatto che esiste fra le comunità serba e bosniaco-musulmana per accusare questi ultimi di ogni immaginabile trama ai danni dei primi, inclusa quella di voler usare lo status quo scaturito dagli accordi di Dayton per ridurre la minoranza serba a uno stato di apartheid.

Il leader della SDA, il partito nazionalista bosniaco-musulmano, per parte sua, non perde occasione per esaltare la dimensione islamica dell’identità bosniaca e in passato si è distinto come sostenitore del progetto neo-ottomano di Erdogan.

Non aiuta, inoltre, che egli sia il figlio di Alija Izetbegović, negli anni Settanta giovane radicale islamico represso dal regime di Tito e negli anni Novanta protagonista, insieme a Tudjman e a Milošević, della guerra civile. L’identificazione tra il leader attuale del partito di maggioranza bosniaco-musulmano e suo padre è tale che il più delle volte i media e le persone comuni si riferiscono a lui chiamandolo semplicemente per nome, Bakir. Per parte loro, i croati non sono da meno in quanto a ostruire il progetto di una Bosnia federale e pluralista.

È di qualche giorno fa la notizia di una conferenza stampa tenutasi a Mostar in cui alcuni europarlamentari della Croazia hanno dichiarato che il progetto di una Bosnia come stato civico è irrealistico e hanno qualificato le sanzioni comminate a Dodik dall’UE come irrilevanti.

A trent’anni dall’assedio di Sarajevo, insomma, la Bosnia rimane un paese incapace di riconoscersi in un nazionalismo civico invece che etnico-religioso. Dall’inizio della guerra in Ucraina, molti continuano a vedere delle similitudini fra le contese territoriali che caratterizzano quel conflitto e la guerra di Bosnia, indicando in quest’ultima il precedente che potrebbe aver ispirato gli orrori che vediamo oggi in Ucraina.

Un’importante differenza, tuttavia, si distingue fra le altre. La guerra di Bosnia avvenne per gran parte sotto un embargo ONU all’invio di armi. Ciò diede mano libera all’esercito jugoslavo prima e a quello della Republika Srpska poi di continuare ad assediare la città per 1.425 giorni. Guardando all’oggi, la comunità internazionale sembra aver imboccato una strada diversa. Dirà il tempo se diversi saranno anche i risultati.

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