La campagna elettorale per le Europee è iniziata da circa due mesi, e ha ancora un mese davanti a sé. Ma c’è solo un aggettivo per definirla sin qui: sconfortante.
Per chi ha avuto voglia e coraggio di seguire giornali, social, talk show politici, è chiarissimo. L’unico tema di cui si è discusso, praticamente, è la composizione delle liste. La discesa in campo o meno dei leader o delle leader, e la loro posizione in elenco.
Finalmente, dopo settimane e settimane di patemi, sappiamo che la Segretaria Elly Schlein e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni (anzi, Giorgia tout court) saranno della partita. Con grande sollievo e conforto per tutti. E, di conseguenza, dietro a loro, non potevano mancare Renzi, Calenda e Tajani. Tutti pronti, ovviamente, a prendere quotidianamente l’aereo per Bruxelles e per Strasburgo…
Unica eccezione allo schieramento dei leaders, tra i partiti “maggiori”, i M5S, l’Alleanza Verdi/Sinistra e la Lega. Che però hanno largamente supplito all’assenza di Conte, Bonelli/Fratoianni e Salvini con altri nomi “di cartello”, capaci di monopolizzare il dibattito, come e più della discesa in campo dei big di partito. In particolare, la candidatura di Ilaria Salis, capolista AVS al Nord–ovest, ha suscitato ampie discussioni e grande attenzione nel dibattito pubblico nazionale. Ma non quanto la discesa in campo dell’ineffabile generale Roberto Vannacci (anzi, il Generale tout court), presente in tutte le liste della Lega, e addirittura capolista nelle circoscrizioni Centro e Sud.
Se non temessimo di essere quasi blasfemi, ci verrebbe da citare quel famoso passaggio del film Schindler’s List”: “La lista è il bene assoluto. Fuori dalla lista, il nulla”. Non si potrebbero fotografare meglio le attuali priorità della nostra classe politica.
L’assoluto della lista. Tre corollari
Non spenderemo allora una parola in più per unirci ai commenti sui nomi che compongono le liste. Giacché – come dicevamo – non si è parlato d’altro, sin qui.
Ci asterremo quindi da ogni giudizio e commento, in rigorosa par condicio, per insistere invece su una analisi puramente fattuale, come ci avrebbero insegnato, nella grande tradizione italiana, Machiavelli e Guicciardini.
Non possiamo in questo senso esimerci da far risaltare tre grandi fatti impliciti, tre “corollari” dello spettacolo elettorale puramente nominalistico cui abbiamo sin qui assistito (e il termine spettacolo è scelto con cognizione di causa).
- La politica italiana non ha nessun reale interesse verso le elezioni Europee, se non come sondaggio sul consenso.
È necessario commentare l’asserto? Quello cui abbiamo assistito sin qui ci dice, senza tema di smentite, che l’obiettivo reale dell’azione dei partiti non è quello di garantire la massima competenza e qualità nella pattuglia italiana a Bruxelles e Strasburgo. Bensì, quello di massimizzare i voti e la visibilità. Ribadiamo: questa è l’analisi da un punto di vista oggettivo, fattuale, non retorico.
Le Europee, per la politica italiana, sono un gigantesco sondaggio gratuito (gratuito per i partiti, non per gli elettori, ovviamente). Un’occasione per misurarsi e – auspicabilmente – uscire rafforzati, anche solo da un piccolo miglioramento nelle percentuali. Giù giù verso la più pronunciata deriva proporzionalista. Ma, soprattutto, giù verso l’unica reale preoccupazione di confermare la propria forza: nel Paese ma – ancor di più – verso gli alleati e – ancora di più – verso i rivali interni.
Ecco allora perché per Meloni, Schlein, per la coppia Salvini/Vannacci e via dicendo questa impostazione “sondaggistica” è, insieme, una grande opportunità, e un piccolo rischio. Una scommessa, in cui probabilmente nessuno perderà. Al peggio, proporzionalmente, tutti “avranno tenuto”.
- Le Europee sono un esame di riparazione. Servono (quasi solo) a rilanciare carriere personali.
Dietro ai celebrati capilista, ci sono elenchi di dieci e più nomi a partito e a collegio, di cui il grande pubblico – viceversa – non sa niente o quasi.
In quelle liste trovano posto quasi solo dei “problemi” che le Europee consentono di risolvere. Uomini e donne di partito che hanno esaurito le tappe del cursus honorum in Italia; o che hanno perso battaglie decisive e ora – per proseguire la professione politica – devono per forza passare da Bruxelles. Che, notoriamente, è lontanissima dai riflettori. Ma sempre meglio che niente.
Così le persone realmente competenti, che conoscono i dossier europei, e che vanno in lista per fare davvero il lavoro del parlamentare, si riducono a pochissime unità. Beato l’elettore che sa individuarli nelle popolosissime liste (perché alcuni ci sono!) e saprà far cadere su di loro la propria (tripla) preferenza.
Intanto, però, le liste danno contentini a tanti rampanti e delusi, ed evitano ai segretari di avere troppi arrabbiati in casa da gestire. Che son sempre grane.
- Ormai in politica conta solo il nome. Della persona, non del partito.
I politologi segnalano da tempo la fluidità del voto. Non ci sono più appartenenze, o sono molto fragili. Circa il 60% degli elettori ha cambiato partito sulla scheda nelle ultime tre elezioni. Pensate ai tempi in cui si nasceva e si moriva democristiani, o comunisti: completamente andati.
Così ormai la gente non vota più i partiti. Fate un sondaggio coi vostri amici… Chiedete: chi voti alle Europee? Vediamo quanti vi risponderanno col nome di un partito. La maggior parte – se vi risponderà – lo farà con un nome di persona: “voto Calenda”, “voto Renzi”, “voto la Meloni” (anzi, “voto Giorgia”).
È possibile che di alcuni partiti (come quelli delle complicate galassie centriste o di sinistra) gli elettori di base non conoscano nemmeno il nome esatto, o il simbolo.
Ecco perché, alla fine della fiera, nel simbolo ci va scritto ormai quasi obbligatoriamente il nome del leader: Renzi, Calenda, Meloni… Persino la Schlein – che pure ha ancora a mano uno dei pochi partiti conosciuto col suo nome statutario – ha avuto la tentazione di inserire il suo nome proprio nel simbolo. Uno dei passaggi più tristi e sconfortanti – opinione personale – di questo primo scorcio di campagna europea.
Dunque, se conta solo il nome e se la gente, ormai, guarda solo quello, di cos’altro mai dovremmo parlare in campagna? È ovvio: di nomi. Solo di nomi.
La personalizzazione definitiva
Per la verità, ci starebbe bene anche un quarto corollario. O, meglio, la sintesi di tutti i precedenti. Lo enunciamo in una sola parola: personalizzazione.
Questa campagna ci dimostra che la curva verso la personalizzazione della politica, iniziata in Italia almeno dai tempi di Craxi prima e Berlusconi poi, è ormai avanzatissima, e incontrovertibile.
Ridicolo anche solo pensare che i programmi contino ancora qualcosa. Al massimo, qualche tema di bandiera. “Famiglia”, “diritti”, “migranti”, “grilli da mangiare”… Anche questi puri nomi, specchietti per allodole, sotto cui sta il nulla. Slogan destinati a durare il tempo di una campagna: poche settimane. E la cui coerenza organica non ha nessun peso. Tanto che Tajani può correre con lo slogan “L’Europa al Centro” e Salvini – suo alleato e suo collega vicepresidente dello stesso medesimo governo – può correre con lo slogan opposto, “Meno Europa”.
Parole, parole, soltanto parole. Utili per solleticare e attirare qualche voto dai manifesti jumbo sulle tangenziali. E che poi saranno ricoperti, a breve, da quelli dei resort per le vacanze o dei discount alimentari.
Tutto questo, mentre quelli che avremo votato decideranno, nel nostro disinteresse a posteriori, se la futura Europa sarà in mano ancora all’asse “storico” tra popolari e socialdemocratici, o se troverà un nuovo equilibrio basato su partiti conservatori, destre e nazionalisti. Roba da nulla, rispetto al problema dei nomi…
In questa totale personalizzazione e perdita di peso del contenuto, c’è una sola certezza, che solo un ingenuo o un idealista potrebbe non vedere chiaramente: l’Italia finirà dentro a piedi pari nel presidenzialismo. In quello tutto nomi e slogan, un po’ alla sudamericana (in quanto, di per sé, il presidenzialismo, quello vero, è cosa tutt’altro che da sdegnare).
Presidenzialismo che, ad essere sinceri, in Italia c’è sostanzialmente già. È solo questione di qualche anno, un decennio al massimo, e troverà spazio anche nel dettato normativo.
Le nostre Europee ci dicono che la china è quella, ed è irreversibile, almeno nel breve. Per la destra come – sia chiaro – per la sinistra, che ha dimostrato di non avere un linguaggio culturalmente e antropologicamente diverso.
Per parlare di Europa
Dopo un bagno così profondo di realismo guicciardiniano (“il mondo com’è” e non come dovrebbe essere, direbbe il povero Francesco De Sanctis) quel tanto di serietà, idealismo e senso di cittadinanza che sopravvive in noi grida con gemiti inesprimibili. E ritengo avvenga così per tanti altri cittadini.
Concediamoci allora il lusso – perché di questo si tratta – di pensare ancora una volta, forse un’ultima volta, che il merito conti, che la politica si occupi ancora del nostro futuro e delle questioni strategiche della nostra vita, della nostra Europa. Di quel sogno che i poveri De Gasperi, Schumann, Monnet o Spinelli stenterebbero oggi a riconoscere.
Lo facciamo necessariamente per punti, tre punti, per non tediare un pubblico (ché dire elettorato ormai par troppo) ormai avvezzo solo a parlare di nomi. E per suggerire solo qualche tema che sarebbe bello, quasi commovente, sentire discutere dai candidati alle Europee e dai loro partiti.
L’Europa e la pace
Siamo tutti preoccupati della pace nel mondo. Anche un po’ della nostra, e dei nostri figli, per chi ancora ne ha. Ripartiamo allora col dire che l’Unione Europea (allora Comunità Europea) è nata proprio e soprattutto per garantire la pace. A guerra mondiale appena finita. Per intuizione di politici che ancora meritavano quel nome. E che si chiesero: come facciamo a far sì che non capiti mai più? La risposta fu: l’Europa. Condividiamo in un unico mercato tutte le cose per le quali fino ad oggi abbiamo litigato e fatto guerra: i confini commerciali, il carbone della Ruhr e della Saar, un domani anche l’energia atomica…
E qui sia chiara l’enorme differenza col dibattito odierno. Oggi si discute di pace in termini di riarmo, di esercito europeo. Si vis pacem, para bellum. Allora, alla nascita dell’Europa, se ne parlò in termine di eliminazione delle cause delle guerre. Si vis pacem, para pacem. Cioè, previeni. Elimina il conflitto commerciale, economico e strategico sulle risorse-chiave. Sarebbe bello riparlarne oggi.
L’Europa e la legge
Come sappiamo bene, ma sembriamo dimenticare, le nostre leggi si fanno più a Bruxelles e Strasburgo, che a Roma. L’80% delle nostre leggi sono puri recepimenti di norme europee. Ne deriverebbe – a esser logici – che il parlamentare europeo è più importante di quello italiano. E che a Bruxelles bisogna mandare i migliori, e semmai a Roma quel che resta. Non viceversa.
Né si può dire che al Parlamento europeo si occupino solo di farina di grilli e di dimensioni delle sardine. Dalla concorrenza al PNRR, dall’intelligenza artificiale al futuro dell’automobile, dal nostro debito pubblico alle politiche sociali: gran parte del nostro futuro, e della nostra vita reale, verrà deciso più in Europa che in Italia. Ma facciamo finta di non accorgercene, tutti.
E in campagna parliamo di nomi. Non di economia globale, non di transizione ecologica. Non del nuovo patto di stabilità che, col nostro debito pubblico, rischia di spazzarci via come Paese, per sempre. Ci meritiamo, tutti e tutto, il futuro che ci costruiamo con questa campagna sconfortante.
L’Europa e l’Est
Terzo e ultimo tema che – scusandoci con tutti per la noia provocata – ci parrebbe utile affrontare in campagna europea, sta in una sola parola: Est. Anzi, se preferite, Est, Est, Est. Non il vino, ma tre volte il tema dell’Est, che, per l’Europa, sembra essere ormai il vero destino. Anche l’orizzonte nella cui direzione guardare, un po’ come se aspettassimo da là i Tartari di Buzzati.
Est, innanzitutto, è il tema della Cina: dell’avere ormai là tutta la capacità produttiva di chip, di auto elettriche, di pannelli solari. E il controllo di buona parte dei minerali, in giro per il mondo. Come recuperare sulle industrie strategiche per il futuro nostro e dei nostri figli? Potrà farlo Roma, anzi, Montecitorio, se a stento ci riesce Bruxelles?
Est, poi, è ciò che sta ai nostri confini: la Russia e il Medio Oriente. Come scenari di guerra, ma anche come potenze energetiche da cui non possiamo prescindere, e che ormai condizionano pesantissimamente le nostre “democrazie”, comprando industrie, media strategici, persino calciatori e – probabilmente – anche diversi dei nostri opinionisti e politici.
Che fare davvero col mondo islamico, che ormai popola metà delle nostre città (specie delle nostre periferie) e con cui non riusciamo a trovare un equilibrio, come anche quel mondo fatica, tra integrazione e conflitto, tra modernità e tradizione?
E, già che guardiamo a oriente, che ruolo dare ai paesi dell’Est Europa, che chiedono l’accesso all’Unione, e che sono “cuscinetti” di questo scenario? Allargamento, a rischio di paralisi e crisi di valori non più davvero condivisi, come in Ungheria? O vera integrazione, in un’Europa anche a più velocità, ma davvero spazio comune come faro di diritto e umanesimo integrale?
Est, infine, è il tema delle migrazioni (e quindi, un po’ anche del Sud, in questo caso). Est è il tema del Mediterraneo che per l’Europa non è più una periferia marginale rispetto al Reno, ma un nuovo baricentro, dove trovare – come disperatamente ci segnala da dieci anni papa Francesco – una soluzione di sviluppo e di equità ai flussi migratori che non possono essere contenuti, ma che vanno gestiti nella giustizia, con visione strategica globale.
Semplicemente, perché non c’è alternativa. Ogni muro della storia, che fosse muraglia cinese, vallo romano o cemento armato a Berlino, è stato sempre scavalcato. La storia non si è mai fermata alzando barriere. Altro bel tema da Europa e da Europee.
Domande a un candidato
Ci capiterà in questi giorni – da cittadini, da elettori, forse più facilmente da spettatori e consumatori di politica, quali ormai siamo – di incontrare, vedere, sentire candidati alle Europee. Leader e capilista, bravi e seri parlamentari europei (perché ce ne sono, pochi, ma ci sono) o riempitivi in cerca di un futuro personale. Non importa, a tutti possiamo fare, magari idealmente, una domanda, delle domande. Come forma di resistenza al nominalismo, alla personalizzazione. Come forma di igiene della politica. Come ultimo, disperato, insensato attaccamento a quando la politica si occupava ancora davvero del nostro futuro.
Come mio esercizio di igiene mentale personale ho buttato giù una lista di dieci domande che mi piacerebbe porre, idealmente, ad ogni candidato alle Europee, per capire chi sto votando e se merita il mio voto. Condivido qui questa mia lista, ma ovviamente ognuno può – e dovrebbe – costruirsi la propria.
- Qual è la cosa più importante da fare per assicurare ancora in futuro la pace in Europa?
- Quali sono le risorse strategiche su cui va prevenuto un conflitto europeo/mondiale?
- Sei favorevole all’esercito europeo? Se sì, fatto come? Con che rapporto con la NATO?
- Sei favorevole all’ingresso in Europa di Turchia, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Albania, Ucraina, Moldavia, Bosnia-Erzegovina e Georgia? Se sì, riformando come il voto in Commissione?
- Voteresti una Commissione in cui vi siano gruppi politici europei che ospitano Orban e Le Pen?
- Come dobbiamo modificare ancora le politiche migratorie e di asilo europee?
- Quali sono i temi più importanti su cui vorresti che l’Europa intervenisse con regolazione comune?
- Tra questi temi, ci sono i servizi sociali e la sanità pubblica universalistica?
- Cosa deve fare l’Europa sul tema dell’innovazione tecnologica e dell’intelligenza artificiale?
- E, infine: sei favorevole agli Stati Uniti d’Europa? Se sì, come e in che termini? Se no, perché?
Quest’ultima domanda è davvero la più importante. La madre di tutte le domande. Perché ormai è chiaro che allargamento, voto all’unanimità, innovazione, politica estera, difesa, insomma tutti i temi strategici sopra richiamati, non si possono affrontare efficacemente nell’attuale assetto istituzionale europeo.
Del resto, ci direbbero Machiavelli e Guicciardini col loro sano realismo, finché le “vere” elezioni sono quelle nazionali, i leader europei guarderanno sempre prima a quelle, e daranno ai loro elettorati slogan (e nomi) che pagano a livello nazionale: l’Europa sarà sempre un secondo livello, una seconda scelta, persino un ripiego.
Solo quando voteremo davvero per un Parlamento che determina un Governo o un Presidente europeo, in qualsiasi forma, quelle elezioni diventeranno importanti e decisive sul serio. E non mega-sondaggi proporzionali destinati al mercato politico nazionale.
Se non sapremo porre oggi, in campagna, domande come queste, poi non potremo lamentarci se il futuro non assomiglierà a quello che Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli avevano sognato per noi, loro nipoti e pronipoti.
COMPLIMENTI: un testo straordinariamente limpido e puntuale. Grazie al suo autore!
Purtroppo sono convinto che un popolo ha la classe politica che si merita. Sono giunto alla convinzione (sconsolata) che questa classe politica rappresenti degnamente il popolo italico in questa fase storica. Si è citato Altiero Spinelli che al confino, mentre la Germania occupava mezza Europa, immaginava una qualche forma di Istituzione europea democratica sovranazionale. Qualcosa di simile aveva pensato Giuseppe Mazzini mentre era in esilio. Ma, mi domando, quanti Italiani li conoscono? Se la maggioranza dei nostri connazionali non è in grado di leggere e comprendere un testo scritto di bassa intelligibilità qualche conseguenza c’è da aspettarsela. Il non considerare non dico la cultura ma almeno l’istruzione qualcosa di utile ci priva del discernimento. Ho conosciuto analfabeti che declamavano Ariosto a memoria, quello che non vedo oggi è la curiosità di conoscere per capire nonostante siamo tutti iperconnessi…