Il 15 marzo scorso la Siria è entrata entra ufficialmente nel suo decimo anno di guerra. Il Sir ha intervistato il card. Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, per tracciare un bilancio di questo decennio di conflitto che ha provocato oltre mezzo milione di morti e milioni di sfollati. La più grande crisi umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale.
«Oggi, 15 marzo, la Siria entra ufficialmente nel suo decimo anno di guerra. È impossibile tracciare un bilancio di questo lungo tempo. Valgono le parole del Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che lo scorso 12 marzo ha parlato di crisi umanitaria di proporzioni “monumentali” con più della metà della popolazione costretta ad abbandonare le proprie case, un numero imprecisato di vittime, con 11 milioni bisognosi di assistenza umanitaria».
A parlare così al Sir è il card. Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria. Descrivere la Siria come «un cumulo di macerie» potrebbe non bastare per raccontare «una lunga serie di atrocità orribili, inclusi crimini di guerra», perpetrati dalle parti in lotta.
«Sono stati nove anni di violazioni sistematiche di diritti umani su scala massiva».
Nell’udienza generale del 12 febbraio, papa Francesco, che ha nominato la Siria più di ogni altra nazione, ha ricordato che «l’amata e martoriata Siria sanguina da anni». E continua a sanguinare perché la guerra continua.
– Eminenza, Damasco, Homs, Aleppo, Ghouta, Maaloula, Raqqa, Deraa, Palmira, fino ad Idlib, e poi l’avvento dello Stato Islamico, sono solo alcuni dei momenti più cruenti di questa guerra…
Direi piuttosto che sono le tappe di un lungo Calvario che dura dal 2011. Ricordo di un sacrista di Homs che il Venerdì Santo del 2012 chiese al suo parroco il luogo dove preparare il Calvario per la liturgia. Il parroco gli rispose di prendere una lunga corda e di fare il giro dei quartieri distrutti, di chiudere quindi il perimetro e di apporvi la scritta: “Calvario”. Oggi quella corda dovrebbe essere lunga diverse migliaia di chilometri per abbracciare questo moderno Calvario che è oggi la Siria. Diceva Blaise Pascal: «Cristo sarà in agonia fino alla fine del mondo».
Le ferite del popolo siriano
Una vera e propria “Via dolorosa”. Quella a Gerusalemme è lunga qualche centinaio di metri, ma qui in Siria si prolunga per chilometri. Pensiamo a tutta la popolazione che, in questo periodo, sta fuggendo da Idlib verso il nord. Molti di loro sono sfollati anche dieci volte, non sanno più dove andare. Ma su questa “Via dolorosa” si incontrano anche “Veroniche” moderne che asciugano i volti sfigurati, “Cirenei” e “Buoni Samaritani”, alcuni dei quali sono stati uccisi dai “ladroni”.
– La Siria è come il viandante della parabola del Buon Samaritano?
La Siria è stata derubata e lasciata, come il malcapitato della parabola evangelica, mezza morta sul ciglio della strada. Mi vengono in mente i versi del Pascoli, La quercia caduta. Ora la Siria non è caduta ma bastonata certamente sì. La poesia recita: «…Ognuno taglia. A sera ognuno col suo grave fascio va. Nell’aria, un pianto…». Geir Pedersen, inviato speciale dell’ONU per la Siria, al Consiglio di Sicurezza del 30 aprile 2019, disse che «oggi in Siria sono operanti 5 tra i più potenti eserciti del mondo, spesso in dissidio tra loro».
– Di questa guerra si conoscono le cifre drammatiche ma ci sono anche le ferite nascoste del popolo di cui poco o nulla si parla…
Sono nunzio da oltre vent’anni e solo in Paesi devastati da conflitti: prima in Costa d’Avorio, Niger e Burkina Faso, poi in Sri Lanka, e dal 2008, in Siria. Mi definisco un nunzio di guerra. Credo che, dopo tanti anni di guerra, la più grande disgrazia che può capitare a questi Paesi coinvolti è quella del silenzio. Papa Francesco lo ha ricordato, ricevendo il 9 gennaio scorso, gli auguri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
A proposito della Siria il pontefice ha parlato di «una coltre di silenzio che rischia di coprire la guerra che ha devastato la Siria nel corso di questo decennio». I media si sono svegliati in queste ultime settimane dopo essere stati a lungo in silenzio. Significativo l’appello, apparso su The New York Times International Edition, il 7 febbraio di quest’anno, di Waad Al-Kateab, pseudonimo di una giornalista fuggita da Aleppo tre anni fa con sua figlia e rifugiatasi in Francia: «Siamo lasciati soli di fronte alla morte.
Durante i trascorsi nove anni, noi siriani siamo stati uccisi in ogni modo possibile: bombe barile, colpi di artiglieria, mitragliatrici, tortura, fame. Ma credo che il modo più duro di essere uccisi è quello di essere uccisi in silenzio; per questo continuo a raccontare».
Non dobbiamo dimenticare le sofferenze atroci di questa povera gente.
Anche se in molti luoghi non cadono più bombe e mortai, la popolazione combatte una guerra economica. La bomba è quella della povertà che colpisce l’80% della popolazione. La gente è sempre più povera e ammalata. A tale riguardo vorrei fare una precisazione…
– Quale?
In Siria fino ad oggi – e speriamo anche in futuro – non abbiamo ufficialmente casi di contagio da coronavirus, ma tante patologie collegate ai nove anni di guerra.
– Il Governo siriano venerdì sera ha deciso di chiudere scuole, università, teatri fino al 2 aprile per contenere la pandemia. È così?
Esatto, sono alcune delle misure precauzionali emanate dal Primo Ministro. Speriamo che la Siria resti fuori da questa pandemia. Secondo l’OMS, alla fine del 2018, poco più della metà degli ospedali siriani è chiusa o parzialmente operante. Il 46% lavora normalmente. Se fosse colpita dal virus sarebbe una catastrofe.
– A proposito di sanità, lei si è fatto promotore nel 2017, di un progetto, denominato “Ospedali aperti”. Come sta andando?
Con Ospedali aperti vogliamo assicurare l’accesso gratuito alle cure mediche ai siriani più poveri. Con il sostegno di papa Francesco, con il patrocinio del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, e grazie a diversi benefattori come la CEI, abbiamo potenziato tre ospedali non profit: l’Ospedale italiano e l’Ospedale francese a Damasco, e l’Ospedale St. Louis ad Aleppo.
Prossimità del cristianesimo
Il programma, portato avanti con la gestione di Avsi, è su tre anni ma sarà prolungato. In due anni abbiamo assistito oltre 30.000 pazienti poveri. Curiamo i corpi per tentare di ricucire il tessuto sociale oggi a brandelli per la guerra. Il personale medico che lavora in questi tre nosocomi racconta della riconoscenza enorme che tante famiglie musulmane curate nutrono per i cristiani. Questo, insieme a tutti i progetti e programmi portati avanti dalle Chiese, aiuta molto il lavoro di ricucitura sociale.
– Con la guerra entrata nel suo decimo anno, cosa dice la Siria al mondo che il mondo non vuole sentire?
Mi ha colpito molto un’immagine evocata da papa Francesco nell’omelia al recente incontro dei vescovi del Mediterraneo a Bari. Il papa ha parlato dell’agonia della speranza: «Nei Getsemani di oggi, nel nostro mondo indifferente e ingiusto, dove sembra di assistere all’agonia della speranza, il cristiano non può fare come quei discepoli, che prima impugnarono la spada e poi fuggirono. No, la soluzione non è sfoderare la spada contro qualcuno e nemmeno fuggire dai tempi che viviamo. La soluzione è la via di Gesù: l’amore attivo, l’amore umile, l’amore fino alla fine».
– In Siria bisogna reagire con la forza dell’amore.
La crisi umanitaria è un peso che poggia su tutta la comunità internazionale. Pensiamo solo un attimo alle donne e ai bambini. È una vera strage degli innocenti, abusati, violentati, mutilati, torturati, annegati, morti di fame e di freddo, costretti a combattere, fatti sposare in età precoce. Due milioni di bambini che non possono andare a scuola. La Siria rischia di perdere intere generazioni e la perdita dei giovani è una bomba per la società. Queste donne, questi bambini non sono né contro né a favore dei belligeranti ma appartengono all’intera umanità.
– Parlare di pace e di ricostruzione in Siria ha ancora senso?
Ciascuno deve fare la propria parte, a cominciare dalla comunità internazionale. Ad oggi non si vede né la ricostruzione né la ripresa economica. Alcune delle sanzioni internazionali fanno sentire i loro effetti negativi. A pesare è anche la crisi in Libano, che influisce molto sulla Siria. Ma ripeto: ciascuno deve fare la propria parte.
– A questo riguardo cosa sta facendo la Chiesa in Siria?
Per ciò che ci riguarda siamo incoraggiati da papa Francesco ad essere “Chiesa in uscita”, “Chiesa ospedale da campo”. Questo è il momento di essere presente con progetti e programmi, grazie all’aiuto dei cristiani sparsi nel mondo, e di essere pronti a sporcarci le mani. Credo che non sia mai stato un tempo così favorevole per la Chiesa, “Chiesa di sale”, sale che si scioglie nel cibo, che non si vede, ma che si sente e dà sapore. Ma è anche un Chiesa ferita: più della metà dei cristiani sono emigrati.
Le chiese edifici sono quasi tutte ricostruite, ma la Chiesa viva manca purtroppo di diverse pietre vive, soprattutto giovani. Si tratta di una ferita inferta anche alla società siriana: i cristiani, con il loro contributo allo sviluppo del Paese, soprattutto nel campo educativo, della sanità e anche politico, sono per la Siria come una finestra aperta sul mondo. Ogni volta che qualcuno parte, questa finestra che tende progressivamente a chiudersi.
– Tornerà mai a fiorire quello che un tempo era un giardino e oggi solo un deserto siriano?
Sì, se verrà innaffiato da tante gocce di solidarietà. Dopo le pioggerelline di marzo, il deserto pietroso siriano si copre di una incantevole sottile coltre di verde. E questo potrà accadere grazie anche all’impegno fattivo e alla generosa solidarietà di istituzioni, organizzazioni umanitarie e di semplici persone.
- Riprendiamo questa intervista dall’Agenzia Sir, 15 marzo 2020.