Siria: l’impasse del mondo arabo

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Il mondo arabo non ha conosciuto a tutt’oggi né una rivoluzione industriale, né quella dei Lumi, né una riforma religiosa: così anche la sua componente cristiana è in buona parte (per paure e pressioni) ancora pre-conciliare. Questo ci obbliga a osservare con preoccupazione, e consapevolezza della diversità, gli enormi problemi che non si riassumono in una parola – Islam -, ma in un’urgenza evidente: quella di avviare la riforma. La politica ancora non riesce a liberare la riforma.

Due immagini: la prima ci mostra un libanese che esce smarrito da un penitenziario siriano, di lui si erano perse le tracce 42 anni fa ma tutti i governi libanesi avevano assicurato da decenni che non ve ne era più neanche uno di loro in quelle prigioni.

La seconda: il vescovo latino di Aleppo, Hanna Jallouf, ad Avvenire ha assicurato che con gli insorti è migliorata anche la distribuzione dell’acqua, il pane non manca più. Forse, leggendo con questo anche le affermazioni degli insorti, bisognava far dimenticare i trascorsi di alcuni dei loro capi “miliziani”; ma i trascorsi di Assad e dei suoi capi militari non sono diversi. È innegabile.

Assad e le monarchie del Golfo

Davanti alla tragedia di un popolo calpestato dal 1970, l’anno del golpe degli Assad, emergono due evidenze: Assad è una sostanza inquinante, infatti ha graziato alcuni dei suoi più inquietanti nemici nel 2011, a differenza degli insorti “non violenti”, che restarono in carcere. Nella sua determinazione a proibire tutto, tranne il proprio e l’opposto estremismo, non ha potuto proibire anche di andare in moschea a pregare, facendo delle moschee il solo luogo dove esprimere dissenso e quindi, seguitando a reprimere, radicalizzando anche il pensiero religioso. È uno dei motivi per cui la sua politica ha voluto l’estremismo, perché o lo cavalca o lo sfrutta per la sua propaganda.

Basta guardare la seconda città siriana caduta in mano agli insorti dopo Aleppo, Hama: è la culla culturale dell’assadismo. Lì, nel 1982, per fermare gli islamisti Assad padre fece crollare il centro cittadino sui suoi abitanti, così la sua capitale culturale è un buco nero nel quale sono precipitate decine di migliaia di persone. Ma davanti a lui c’è un dato politico-culturale che emerge evidente. Per i leader arabi chi conta davvero? La loro “stabilità” o i loro cittadini? E così allora per gli sconfitti siriani quale idea di “riscatto” sarebbe oggi pensabile? Non essendo intervenuta alcuna riforma… ed essendo proseguito l’abisso per decenni…

Si racconta, e probabilmente è vero, che già prima del 2011 i leader arabi delle ricche monarchie del Golfo avrebbero volentieri sostituito Assad con un leader più prono ai loro loro interessi commerciali, invece che a quelli dei loro nemici iraniani; ma quando la rivoluzione siriana sembrò poter prevalere, mandarono i loro gruppi di jihadisti in Siria. Nei fatti dirottarono il treno della rivoluzione, di certo sequestrarono i leader rivoluzionari, come accadde con la più nota attivista siriana per i diritti umani Razan Zaitune. Perché, come ha sostenuto Assad, lo volevano rovesciare, o perché temevano soprattutto il contagio democratico? È legittima questa impressione.

Ora, i regimi arabi del Golfo, nemici da sempre dell’Iran che sostiene Assad, lo difendono apertamente e gli propongono di separarsi dall’Iran, di cui è fedelissimo alleato da prima del 2011, in cambio dell’eliminazione delle sanzioni internazionali che lo penalizzano.

Assad certamente non avrebbe problemi se vedesse in questo un modo per sopravvivere, ma siccome lui sa che il suo regime non ha un esercito – sono coscritti con la forza e affamati –  e che i regimi del Golfo non hanno miliziani o mercenari da inviare – poi vedremo perché -, Assad non può che seguitare a basarsi sull’aviazione russa ancora presente e sui miliziani di terra che l’Iran riesce ancora a mettere a sua disposizione, attingendo ai serbatoi fanatizzati – quelli libanese, iracheno, afghano e pakistano.

Dunque, la risposta di Assad ai regimi arabi del Golfo per ora è stata “non voglio”, sebbene sappia di aver perso l’apporto dei suoi alleati che funzionava: i mercenari del gruppo Wagner e i miliziani di Hezbollah, risucchiati in Libano. Le città siriane cadono come birilli, e in queste ore potrebbe toccare anche ad Homs, la terza città siriana. La Siria costiera, dove sono le basi russe e la città natale di Assad, non sarebbe più raggiungibile da Damasco; se così fosse saremmo quasi al capolinea.

Le monarchie del Golfo e l’Iran

Lo scontro tra corone del Golfo e Iran va capito. Alleate degli Stati Uniti, le corone si sono trovate contro le Repubbliche, scivolate nel campo sovietico. La rivoluzione khomeinista, teocratica, anti-americana, le sfidava come corrotte e colluse, per intestarsi tutto l’Islam. Ecco che il quadro era emergenziale, i nemici erano due ed entrambi potenti. Così le corone hanno creato un loro islamismo molto aggressivo, che le legittimasse nell’urto. È andata così fino all’11 settembre, quando è cominciato un complesso e difficilissimo lavoro di ridefinizione di sé.

L’arrivo della Primavera araba ha colto tutti di sorpresa e tutti hanno cercato nella repressione la sopravvivenza, perché tutti si sentivano sfidati dalla Primavera, spontanea, ma chiaramente anti-totalitaria. L’Iran doveva reprimere la Primavera, una rivoluzione opposta alla sua. Su Assad non esistono dubbi.  E le monarchie del Golfo? Di certo non amavano il regime siriano, ma temevano anch’esse il vento democratico di quella rivoluzione. Qualcuno sostiene che il contagio democratico, per loro “anarchico”, appariva in quella turbolenza il male maggiore.

Il costo pagato dai siriani è stato inammissibile: la maggioranza, sunnita e quindi ritenuta costituzionalmente infedele dal regime alleato degli sciiti khomeinisti, ha visto circa 13 milioni (su un totale di 23/24 milioni di abitanti) deportati all’estero o internati in piccole aree di frontiera trasformate in campi profughi, nei quali lo stesso regime ha trasferito i miliziani islamisti per poter definire tutti gli abitanti di quelle zone “terroristi”.

L’avanzata dei ribelli, sostenuti da Ankara, comprende e trasporta queste storie nell’oggi, ma non può farlo senza i resti di un gruppo estremista, nemico giurato degli sciiti, non solo dei khomeinisti. Così siamo all’intreccio di dolore e paura. Il dolore di chi è stato vittima di orrendi misfatti da parte del regime e dei suoi alleati; e la paura di chi appartiene a comunità diverse da quelle degli insorti. Ma tra gli insorti ci sono anche milioni di deportati che sperano di poter finalmente tornare a casa, o nelle terre d’origine da cui sono stati cacciati.

Sono giovani privati di tutto da circa dieci anni, costretti a una vita miserevole – che hanno avuto solo un microscopico aiuto umanitario negli ultimi dieci anni. Il mettere sempre le comunità in urto tra di loro ha fatto sopravvivere Assad per tanti anni. Lo vediamo chiaramente anche negli sguardi di chi fugge per paura davanti all’arrivo degli insorti. È la paura creata dal continuo mettere in urto le comunità, che in ogni comunità ha creato gruppi estremisti.

Le corone del Golfo ora si aggrappano ad Assad per tante paure: temono soprattutto un ritorno dell’islam politico, che ha tante forme e che conoscono: da alcune tendenze se ne sono separati, ma sanno che queste hanno ancora presenze nei loro Paesi e un successo siriano potrebbe essere galvanizzante per loro.

La paura che blocca processi di riforma

Ma comprendendo ogni paura si rischia di non facilitare mai una vera riforma. E non basta un concerto di Beyoncé a Gedda: quello delle corone del Golfo è un occidentalismo selettivo, dice sì al consumismo, ma non dice sì a diritti sociali, ad una anche lenta ma vera transizione politica e sociale.

Le corone arabe non vedono l’opportunità che avrebbero? Difficile: il khomeinismo, l’ideologia teocratica che le ha sfidate, è alle corde; le repubbliche laiciste, ancora immerse in totalitarismi novecenteschi, sono in crisi.

Ma queste corone non riescono ancora a scommettere su monarchie costituzionali, non so se non vogliano partiti demo-islamici, vero perno di una riforma religiosa auspicabile, o temano colpi di coda del vecchio. Ma in questa incertezza ci sono dei nodi che vanno affrontati, per forza. Per alcuni avevano bisogno ancora di tempo e quindi forse hanno dovuto preferire un tiranno per evitare salti nel buio, pericolosi anche a casa loro. Per altri questo non rientra nel loro orizzonte. E allora?

A mio avviso, tempo addietro, avrebbero dovuto spingere Putin a intimare ad Assad di fare l’indispensabile, offrendo al leader russo le garanzie che gli interessano: lui poteva chiedere ad Assad il passo indietro. Un passo indietro che oltre a salvarlo favorisse l’incontro inter-etnico e inter-confessionale, cioè una prospettiva federale che unisse le garanzie di tutti alla preservazione dell’unità del Paese oggi in pericolo. Un nuovo federalismo invece del possibile collasso dello Stato!

Forse Papa Francesco saprebbe spiegare che si trattava di “avviare un processo”, che poi è la riforma economica, religiosa, politica e culturale. Questo induce alcuni a ritenere che non si sentissero pronte, altri che non ci credano. Per ora il loro rimane un modello di occidentalizzazione estremamente selettivo, e in tempi così non sembra bastare.

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3 Commenti

  1. Angela 7 dicembre 2024
    • Riccardo 8 dicembre 2024
      • Angela 9 dicembre 2024

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