C’è una significativa differenza tra la sentenza per crimini contro l’umanità pronunciata nei giorni scorsi dal Tribunale di Coblenza, in Germania, avverso l’ex ufficiale siriano Anwar Raslan, e le sentenze di Norimberga, nella stessa Germania, molti anni fa.
Nel secondo caso – come sappiamo – la corte riunita nella città tedesca giudicò i gerarchi nazisti arrestati e consegnati alla giustizia dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Per quanto importante – per certi versi davvero storico – sia ora il risultato raggiunto, nulla del genere è ancora accaduto a Coblenza.
Giustizia per le vittime
La corte tedesca ha in questo caso infatti giudicato un gerarca siriano riconosciuto e denunciato dalle sue vittime. Lo ha fatto in base al principio giuridico secondo il quale i crimini contro l’umanità, ovunque commessi, sono ovunque perseguibili, purché l’imputato sia in aula. Il primo valore affermato da questa vicenda è dunque questo: grazie alla corte tedesca e alla consapevolezza che il Paese – la Germania – ha acquisito in materia di crimini contro l’umanità – peraltro già dimostrata in precedenti processi in ragione del genocidio degli yazidi, del Rwanda e dei massacri nella Repubblica Democratica del Congo -, non sono i vincitori di una guerra, ma le vittime della stessa ad aver vinto in tribunale.
Perciò la condanna emessa da Coblenza non può essere la condanna di una singola persona. Deve significare molto di più.
Il Tribunale di Coblenza – dopo aver condannato a quattro anni di reclusione per concorso in crimini contro l’umanità un autista, Eyahd al-Gharib, incaricato del trasporto dei detenuti nel luogo di detenzione e tortura – ha condannato all’ergastolo un colonnello siriano responsabile di almeno 27 assassinii e di 4.000 casi di tortura.
Anwar Raslan, 58 anni, è stato membro di alto livello dei servizi di intelligence siriani, con un ruolo di primo piano nella repressione del dissenso politico in Siria, nel famigerato dipartimento 251 di Damasco, la prigione siriana nota per l’efferatezza dei trattamenti.
Condanna personale di un sistema di repressione
Raslan, dapprima fuggito secondo alcune fonti in Giordania e probabilmente transitato in Turchia nel 2013, ha ottenuto asilo politico in Germania nel 2014. Ma mentre stava liberamente passeggiando per strada, è stato riconosciuto da una sua vecchia vittima che lo ha riconosciuto, pedinato e quindi denunciato nel 2019. Questo il racconto reso alla polizia.
Ora, benché le responsabilità attribuite siano personali, è davvero difficile anche solo pensare che alla sbarra ci fosse solo la singola figura di Anwar Raslan: alla sbarra, evidentemente, possiamo e dobbiamo pensare che ci fosse tutto il sistema che governa, senza interruzioni, la Siria dal 1971.
Il sistema della famiglia al-Assad che, dopo i crimini terribili e le indicibili violazioni dei diritti umani – è noto soprattutto il massacro di Hama dove, per reprimere l’insurrezione dei Fratelli Musulmani, fu bombardata e distrutta ampia parte della città attaccata con la tattica della “terra bruciata” seguita da giorni di razzie che rendono approssimativa per difetto la stima di 30/40mila vittime -, dal 2011 ha soppresso nel sangue le attese e le pacifiche proteste di piazza del popolo siriano, rafforzando pervicacemente un’autentica macchina della morte di cui Anwar Raslan è stato “solo” uno dei tanti terribili aguzzini dalle mani orrendamente macchiate.
Reazioni alla sentenza
È ora importante cogliere tutte le reazioni politiche internazionali alla sentenza, a cominciare dalla definizione di “sentenza storica” da parte di Michelle Bachelet, Alto Commissario ONU per i Diritti Umani.
A mio modo di vedere, una prima reazione del regime c’è già stata ed è da rivenire nell’affrettato annuncio dell’adesione siriana alla proposta cinese della via della seta. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha infatti – sinora – impedito il deferimento di Bashar al-Assad al Tribunale Internazionale dell’Aja per la stessa accusa di crimini contro l’umanità. Il regime di Damasco si affanna a scongiurare tale eventualità anche per il futuro.
Non avendo mai la Siria aderito allo Statuto della Corte Penale Internazionale dell’Aja, un veto al Consiglio di Sicurezza è decisivo. Russia e Cina hanno sempre opposto il loro veto a risoluzioni sgradite al regime siriano, ma Mosca, dopo l’enorme investimento finanziario profuso per sostenerlo nel conflitto appare ansiosa di passare alla fase di incasso di parte dei benefici attesi dai grandi investimenti degli altri Paesi per la ricostruzione di una Siria devastata e tenuta ormai abbastanza “sotto controllo”.
Forse possiamo cogliere un’altra – pressoché contemporanea – reazione al verdetto: poche ore prima della pronuncia, i presidenti – uno democratico e l’altro repubblicano – delle commissioni esteri dei due rami del Congresso americano, hanno intimato all’amministrazione Biden di non consentire disgeli diplomatici con Bashar al-Assad.
Non può essere omesso che nella loro missiva hanno richiamato l’inquietudine che sta destando la diffusissima produzione della nuova droga sintetica, il captagon, proprio in Siria, ora candidata a divenire – se non lo è già – una sorta di narco-stato. La lettera appare finalizzata a sollecitare l’amministrazione americana ad arrestare i propositi manifestati da Arabia Saudita, Giordania ed Egitto, Paesi alleati del Stati Uniti, ma da tempo orientati a ristabilire le relazioni diplomatiche con Damasco, chiaramente per interessi propri.
Riscrivere la storia
La questione assai spinosa – specie dal punto di vista morale – del regime di al-Assad sta rientrando dunque in un confronto di forze e di influenze tra le grandi potenze? Vedremo. Quel che mi sembra certo è che la sentenza di Coblenza non potrà essere facilmente messa da parte: è un auspicio, come sempre avviene in occasione di grandi operazioni di verità e di giustizia. Ma è anche una constatazione.
In Germania, infatti, già si prepara un altro processo. Sul banco degli imputati andrà un medico siriano in passato funzionario governativo. Il suo caso sta per arrivare al dibattimento, ma intanto sta già determinando gli interrogatori di altri funzionari fuggiti in Germania.
Coblenza ha ufficialmente scoperchiato il vaso – letteralmente nauseante – del regime siriano: i miasmi non possono non essere avvertiti ovunque. Ma se la giustizia ha aperto una porta che non si chiude con la sentenza di Coblenza, le opinioni pubbliche devono cominciare a fare i conti con una nuova realtà. I fatti non sono più denunciati, sono acclarati. Dunque, la storia va riscritta.
Se già il 2011 è stato un anno irripetibile per avviare la costruzione dei diritti di cittadinanza nel mondo arabo, col contributo dell’Europa e un po’ di ispirazione cristiana, Coblenza sembra volerci dire che c’è un’altra, forse l’ultima, possibilità. Chiudere gli occhi potrebbe voler dire consegnare all’odio il nostro futuro chissà per quanto ancora.
Mi sembra importante ricordare quanto affermò il Segretario di Stato Vaticano, card. Pietro Parolin, dopo che papa Francesco inviò il cardinale Turkson a Damasco con una missiva per il presidente Bashar al-Assad: “a Papa Francesco sta particolarmente a cuore anche la situazione dei prigionieri politici, ai quali – egli affermò – non si possono negare le condizioni di umanità”. Nel marzo 2018 l’Independent International Commission of Inquiry on the Syrian Arab Republic ha pubblicato una relazione a questo proposito, parlando di decine di migliaia di persone detenute arbitrariamente.
A volte in carceri non ufficiali e in luoghi sconosciuti, essi subirebbero diverse forme di tortura senza avere alcuna assistenza legale né contatto con le loro famiglie. La relazione rileva che “molti di essi purtroppo muoiono in carcere, mentre altri vengono sommariamente giustiziati”.
Questo denunciò la Santa Sede ormai tempo fa, ottenendo però scarsa attenzione da parte dei media.
Processo di Coblenza – SettimanaNews:
Siria: crimini contro l’umanità
Processo contro il sistema Assad