Il mondo si accinge a non ricordare il decimo anniversario della strage perpetrata con armi chimiche nella Ghouta, un insieme di sobborghi di Damasco che la mattina del 21 agosto del 2013 fu devastato da un attacco con veleni che causò un numero tuttora imprecisato di vittime civili, molte delle quali bambini. I bilanci ufficiali oscillano, paurosamente, tra 281 e 1.729 morti, un numero – quest’ultimo – che ne farebbe il più grave massacro chimico nella storia del Medio Oriente, dopo la tristemente famosa carneficina commessa da Saddam Hussein ai danni dei curdi di Halabja nel 1988.
La «linea rossa»
A lungo la comunità internazionale non ha saputo far luce e condannare Assad per quanto avvenuto nella Ghouta: ancora non lo sa fare, pure da parte delle voci ecclesiastiche che allora sostennero che erano stati i «ribelli» a compiere quella nefandezza per incolparne il regime di Damasco.
Col tempo, e soprattutto con l’evolvere del conflitto a favore di Assad e dei suoi alleati russi e iraniani, la tardiva certezza portata dagli esperti internazionali – grazie ai risultati dell’ispezione che il regime consentì solo dopo quattro giorni il tragico avvenimento – è risultata e risulta quasi irrilevante.
Chi, a Damasco, decise l’attacco sapeva che si stava giocando una partita decisiva. Il presidente americano, Barack Obama, recalcitrante ad armare l’Esercito Libero Siriano, a oggettivo vantaggio dei gruppi jihadisti, sola opposizione veramente armata contro la violenza indiscriminata del regime, fissò, a parole, una «linea rossa» nelle sabbie del deserto siriano: l’uso di armi chimiche contro i civili non sarebbe stato tollerato, quale limite invalicabile della decenza umana.
Per i detrattori di Obama, l’evento fu uno strano modo per autorizzare, di fatto, qualsiasi ferocia: dalla deportazione di massa alla tortura sistematica, sino ai barili bomba. Si badi: barili riempiti di esplosivi e di detriti arrugginiti, di ogni sorta, con cui il regime stava già sistematicamente colpendo i centri abitati e i campi coltivati.
Per il regime di Damasco invece quella «linea rossa» costituì la chance con cui uscire dall’angolo in cui era cacciato. Se Damasco avesse usato le armi chimiche – di cui disponeva il più grande arsenale del Medio Oriente (un fiume di veleni che Assad aveva sempre negato di possedere) – la Casa Bianca si sarebbe trovata a dover scegliere, nel dilemma: attaccare, rischiando che il gigantesco arsenale proibito finisse in mani, secondo Washington, ancor più pericolose, oppure cercare un accordo?
Uno Stato feroce
Le cose andarono così: con l’aiuto dell’amica Russia, il regime di Damasco ammise di possedere un arsenale chimico di proporzioni inaudite, si impegnò a distruggerlo, sotto il controllo ONU; in cambio avrebbe potuto – e poté – continuare ad assassinare i siriani con tutte le altre armi. Per di più, va aggiunto che una piccola parte – ma ben sufficiente! – di quell’arsenale chimico non fu consegnata: il rais la tenne per sé, come dimostrano, appunto, gli impieghi documentati dall’ONU.
Alcuni osservatori – tra i quali chi scrive – sostengono che la Santa Sede puntò alla soluzione negoziale, anziché appoggiare l’azione militare statunitense contro strutture militari siriane – usate pure per il lancio dei missili con testate chimiche contro la Ghouta – nella speranza che un accordo russo-americano innescasse un circolo virtuoso nella diplomazia mondiale, tale da accompagnare Assad fuori dalla scena politica, per effetto di quel famigerato processo di cambiamento democratico allora indicato da una delle tante risoluzioni dell’ONU, quale obiettivo unanime della Comunità Internazionale.
Le cose sono andate purtroppo nel verso più disastroso, verosimilmente a motivo del gelo calato tra Obama e Putin, nel 2014, a proposito dell’Ucraina. Putin intervenne in Siria nel 2015 a fianco – o a capo – di Assad, a suon di bombe, peraltro benedette dal patriarcato di Mosca e purtroppo da molti patriarcati siriani, cattolici e ortodossi.
Il regime di Damasco rimase quel che era: uno Stato feroce coi suoi stessi cittadini, come continua a mostrare – per chi abbia occhi per vedere – anche in questi giorni: da ultimo, mentre scrivo, oggi, corrente 10 agosto.
Una storia emblematica
È un piccolo fatto, in mezzo a molto altro, ma atrocemente significativo. In questa data, infatti, con probabile e preciso calcolo, il regime ha voluto che venisse alla luce la storia di un deportato da Aleppo, Mohammad Abdel Rahman.
Costretto a lasciare Aleppo dopo la vittoria russo-siriana, ha vissuto, da allora sino ad oggi, in un campo profughi per siriani in Siria. Finché, nel mese scorso, ha accettato quanto prescritto ai cittadini siriani dalla attuale legge del Paese quale condizione per poter rientrare nelle proprie case, ossia sottoponendosi al processo di verifica delle autorità nazionali e offrendo la disponibilità a svolgere il servizio militare: «garanzie» in assenza delle quali tutti i beni personali e famigliari vengono confiscati dallo Stato.
Tutto è andato bene, almeno sino a un certo punto. La famiglia è tornata con lui, a casa. Sino a quando Mohammad è improvvisamente sparito: la mattina del 9 agosto il suo corpo, orrendamente torturato, è stato riconsegnato ai congiunti con un messaggio speciale per la moglie, portato a voce da un agente dell’intelligence siriana: «Lei è fortunata, avrà un luogo dove piangere suo marito». Per i parenti degli oltre centomila siriani scomparsi nel nulla e dei quali è ignoto il destino, infatti, non è proprio così.
La piccola, tragica, storia di Mohammad Abdel Rahman è istruttiva: chi rientra in Siria, come richiesto da tutto il mondo che non sopporta più i milioni di siriani deportati dal regime e assiepati nei campi profughi ai suoi confini, sa quale destino lo attende.
Soccorsi: l’accordo con l’ONU
Ma questa data del 10 agosto è importante anche per un altro motivo. Le Nazioni Unite, dopo un mese di paralisi dei soccorsi per i quattro milioni di siriani che, come Mohammad Abdel Rahman, vivono nei campi profughi nel Nord della Siria, fuori dal controllo del regime, hanno trovato un’intesa: non tanto tra i membri del Consiglio di Sicurezza, quanto tra questi e la giunta di Damasco; tale intesa consente alle agenzie ONU di attraversare i valichi di frontiera con la Turchia e di portare aiuti di prima necessità a tutti i deportati.
La Siria, militarmente impegnata a riconquistare il controllo delle terre a Nord, bombardate da mesi, reclamava il diritto/dovere di portare gli aiuti «in proprio», trovandosi, gli sventurati, ancora in territorio siriano: l’esercito siriano, dunque, lo stesso che li bombarda al mattino, avrebbe potuto/dovuto portare loro acqua, cibo e medicine, di sera. Di questi tempi, le cose più assurde possono essere sostenute e accadere – e pure con qualche ragione – posto che un vero diritto umanitario internazionale non esiste e la cooperazione è data solo tra gli Stati.
Chi, alla fine, ha ceduto, Damasco? Non direi. Strano: i termini dell’accordo sono rimasti segreti, fatto a dir poco inusuale per l’ONU che ha sempre fatto sapere, prima, «chi avrebbe portato cosa» nelle zone del soccorso. In questo caso, invece, ciò non sta accadendo, nella migliore delle ipotesi per consentire a Damasco di poter dire – è una mia supposizione – che le operazioni saranno effettuate dalla Mezzaluna Rossa Siriana, strettamente controllata dal regime. E se pure così non fosse, chi potrà denunciare le manovre del regime tra sei mesi, quando l’accordo − dai contenuti ignoti − andrà rinnovato?
Vittorie diplomatiche
Sembra proprio che Damasco stia vincendo in diplomazia, mentre il suo capo, Assad, vince, in politica presso quei «fratelli arabi» che lo hanno riammesso nel salotto buono della Lega Araba dopo averlo accusato, per un decennio, di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità.
Gli Arabi lo hanno fatto per due motivi: ottenere che Assad riapra i confini patri per i milioni di siriani deportati (e la risposta l’hanno avuta con la sorte riservata a Mohammad Abdul Rahman); e che sospenda la produzione del Captagon, la droga sintetica con cui Assad (con Hezbollah) sta invadendo, oltre che la Siria, l’intero Medio Oriente, se non il mondo, con utili miliardari e devastazione delle comunità, incluse quelle più piccole: quelle cristiane. Su questa seconda questione, Assad, interpellato, ha risposto con un’intervista apparsa sempre oggi 10 agosto, nella quale dice: «Il Captagon? Mai sentito nominare».
L’astuto saudita Mohammad bin Salman, che pensava di aver ingabbiato Assad, è servito: con lui tutti i governanti occidentali che pensano di poter ancora trattare con il padrone dello Stato del terrore.
In tale scenario – ben attuale – nessuno, per favore, versi ipocrite lacrime alla memoria delle vittime della strage della Ghouta: è meglio; ma non succederà. Proprio nulla succederà il prossimo 21 agosto.
Povera Siria ,dilaniata dai jadisti e da tutte le fazioni musulmane ! al nord il rapace e spietato turco Erdogan. Al sud i soldi e la ferocia dei katarioti…
Parole amare ma purtroppo vere. A noi occidentali in fondo non interessa nulla del resto del mondo a meno che non sia funzionale ai nostri interessi. E questo vale anche per i cattolici. Ci infiammiamo per dibattiti astratti e solipsisticii (tipo i preti sposati oppure no, riformare le prelature personali oppure no) ma spesso non facciamo altrettanto per le questioni che davvero contano. La tragedia umanitaria tuttora in corso in Siria ne è un esempio. Milioni di persone sottoposte da un decennio a brutalità e indifferenza inaudite. Fare memoria dell’inizio di questa storia tragica sarebbe già un primo passo per prenderne coscienza e aiutarci a renderci conto che ci riguarda per davvero, e non solo perché cristiani