
© Omar Haj Kadhour / AFP
La Germania ha deciso di riaprire la propria ambasciata in Siria, segnalando che un cambiamento profondo nelle relazioni tra Siria e Germania, tra Siria ed Europa, è possibile se ci si muoverà in modo da garantire le libertà fondamentali a tutti i siriani. È un passo importante, come è di enorme portata il cambiamento a cui queste nuove relazioni vengono legate. Ci si riuscirà? Poco aiuta: scelte sbagliate, ingerenze e minacce si vedono a occhio nudo. Cosa possono fare i siriani?
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Damasco: un’automobile di colore scuro, evidentemente degli islamisti di al-Sharaa, gira per un quartiere a prevalenza cristiana: con un megafono legato sul tetto di quell’automobile si chiama alla preghiera. Un gruppo di passanti ferma l’automobile, chiede agli occupanti di scendere, per chiarirsi; loro lo fanno, dopo essersi accostati. Nella piazza c’è tensione, la gente osserva, mormora, qualcuno ha paura. I passanti si qualificano confessionalmente: noi, dicono, siamo tutti musulmani sunniti, cioè della vostra stessa confessione. Ma non è questo che vogliamo, non è l’imposizione ad altri della nostra fede ciò che rivendichiamo, ma la libertà di essere quel che siamo e quindi la libertà di essere ciò che sono per gli altri. Passano pochi secondi e l’automobile con l’altoparlante si muove, ma in silenzio, l’altoparlante non chiama più, la vettura si allontana. Per il momento.
Intanto, ad Homs, un giovane alawita, appartenente alla comunità da cui veniva Assad e che gli ha dato tanti ufficiali criminali, ben prima che tramonti il sole chiude la sua piccola bottega e in fretta si prepara ad andare a casa. Ha paura del buio? Ha paura di non arrivare a casa in tempo utile per nascondersi, per mettersi al sicuro? Passano pochi minuti e arriva un’automobile, la guida un suo amico sunnita, cioè della comunità maggiormente tartassata dagli Assad, per decenni: lui sale a bordo e l’amico gli dice che quella sera avrebbe dormito da lui, per sicurezza. L’amico sa che lui è un alawita che si è sempre opposto alla visione criminale degli Assad.
A Nord, nella regione siriana abitata soprattutto, o anche dai curdi, dipende dalle zone, si festeggia il capodanno curdo. Tre giorni di festa cominciati ieri, con animo nuovo. È lontana l’epoca in cui gli Assad la proibivano e anche grazie al recente accordo tra il nuovo governo di Damasco e i leader curdi, nonostante persistenti dissapori, pare si sia visto da loro anche qualche arabo sunnita; costoro dunque si sarebbero uniti alla festa laica dei curdi.
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I carichi di armi, le manovre turche, iraniane, israeliane, sono fatti più noti, come la fuga a piedi di tanti alawiti verso il Libano, per paura della vendetta settaria sulla quale la commissione d’inchiesta non ha ancora fatto sapere alcunché. È molto difficile indagare tra le pieghe della realtà quotidiana da lontano, percependo soltanto alcuni sussurrii, ma bisogna provare a capire se, tra tante preoccupazioni, qualche indizio possa dirci che, se la storia va cambiata, qualcuno se ne dimostra consapevole: le comunità non sono gabbie, ma non devono esserlo neanche nel nostro modo di rappresentarle.
Ho citato casi gravissimi, specchio di una realtà inquietante: sono casi verificatisi in questi giorni ma con risvolti da registrare: qualche persona sunnita protesta contro il fondamentalismo prevaricatore di un megafono, o si espone per prevenire la vendetta settaria. Poi la novità della festa autorizzata, finalmente.
Cosa ci dice questa indicazione di qualche sunnita che sarebbe andato a festeggiare con i curdi? Che le comunità sono una ricchezza se sanno discernere. Che decisione prendere? Difendere un alawita perché la giustizia non può mai essere sommaria o far finta di nulla? Lasciare che un megafono governativo chiami alla preghiera islamica in un quartiere cristiano o dirgli di non farlo, ad alta voce. Andare a festeggiare con i curdi dopo che la loro identità è stata negata per decenni o lasciarli festeggiare da soli? Sono tre decisioni per una sola scelta: la mia comunità non è un pozzo tutto sano tra gli altri tutti avvelenati. Piccoli fatti senza valore?
Un amico informato nel dettaglio dei lavori dell’Assemblea Costituente, organizzata con i piedi dalle nuove autorità e che si è svolta pochi giorni fa in Siria, mi ha detto che nei gruppi di lavoro si è andati molto più avanti sulla via dell’inclusività rispetto a quanto poi è emerso nella Costituzione provvisoria varata tra i dissapori. Questo vorrebbe dire che nella società il piccolo gruppo sunnita che ha contestato l’auto con il megafono, il sunnita di Homs che ha ospitato il suo amico alauita per tutelarlo, gli arabi che sono (sarebbero) andati a festeggiare con i curdi, pesano più di quanto appaia? Ma se questo comunque non emerge, se ognuno lo tiene per sé, se queste voci non emergono anche fuori della Siria, se si continua a dire soltanto «aspettiamo che al-Sharaa migliori», oppure «aspettiamo che le condizioni politiche lo obblighino a fare le scelte necessarie», sarà più difficile che queste condizioni si realizzino, un giorno.
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C’è un’idea che tarda a prendere corpo nel Levante: per far coesistere le comunità occorre riconoscere l’individuo. Questo termine, «individuo», assai problematico soprattutto per molti pensieri religiosi, presuppone un riconoscimento: le identità sono tutte plurime, complesse. Riconoscere l’individuo non vuol dire cedere all’individualismo ma porre un argine a queste derive comunitarie.
Un modo concreto per procedere in tal senso è dare vita a partiti interconfessionali. Per strano che possa sembrare il caso più noto in quelle terre è quello del Partito comunista, poi perseguitato da tanti, anche dai «laici». Partito interconfessionale, ben noto in Libano, Siria e Iraq, ha creato, e ne ha dato preziosa testimonianza Amin Maalouf, scrittore cristiano di origini libanesi, legami diretti, interpersonali, tra appartenenti a diverse comunità religiose.
Ma per arrivare domani ai partiti interconfessionali occorre che i «laici» prendano il sopravvento nelle comunità di fede. È il leader religioso che deve esprimere il punto di vista «politico» della tale comunità, o devono farlo loro, i «laici»? In questo i cristiani, rispolverando il ruolo di «avanguardia laica» che ebbero nell’Ottocento, potrebbero tornare a esserlo. Al di là delle loro differenti appartenenze ecclesiali, potrebbero far emergere un partito cristiano che dica quale sia a loro avviso la scelta politica più giusta, più necessaria: sarebbe urgente.
Non credo che questo compito vada affidato ai patriarchi. Da una tale iniziativa si potrebbe poi sperare che emergano somiglianze e differenze, e che essa possa poi favorire la formazione di partiti interconfessionali. Il tempo passa, i guai sono evidenti, è ora di prendere iniziative concrete.