Ha fatto molto scalpore la notizia diffusa giovedì 1° marzo scorso del bombardamento che ha colpito il sito memoriale di Babij Jar. Al quinto giorno della guerra di invasione sferrata dalla Russia di Vladimir Putin nei confronti della confinante Ucraina che, secondo il presidente russo, sarebbe governata da «una banda di drogati e nazisti» (ANSA, 25 febbraio 2022), si è dovuto aggiungere all’elenco degli effetti collaterali anche questo sfregio.
Sembrerebbe, infatti, che il memoriale non fosse l’obiettivo del tiro dell’artiglieria che mirava alla torre della televisione di Kiev, poi effettivamente centrata. Ma il bersaglio della torre ha esposto ai colpi tutta la zona e a farne le spese, appunto, è stato il memoriale, distante poche centinaia di metri.
Violare l’intangibilità
Al di là dell’entità reale dei danni, si è subito intuito il valore simbolico dell’accaduto. Sebbene “involontarie”, a quanto pare, quelle bombe hanno di fatto violato l’intangibilità di un luogo che per la sua sola esistenza dovrebbe scongiurare il ripetersi di nuove atrocità, come a dire che quelle del passato, di cui si conserva la memoria, bastano e dunque mai più!
E invece, se ancora fosse necessario dimostrare che la storia, come diceva Gramsci, è per lo più maestra senza scolari, ecco che proprio su quella stessa terra si torna a distruggere e a uccidere. Bambini compresi.
Babij Jar è tristemente conosciuto perché lì si è consumato uno dei massacri più sconvolgenti dello sterminio degli ebrei d’Europa durante la Seconda guerra mondiale.
Siamo nel settembre del 1941. Le truppe tedesche sono entrate a Kiev il giorno 19, un venerdì. L’occupazione rientra nell’ambito dell’operazione Barbarossa iniziata nel giugno precedente, quando Hitler, rompendo il patto di non aggressione firmato due anni prima, dichiara guerra all’Unione Sovietica.
Fin da subito, per le strade della città si moltiplicano episodi di violenza gratuita e feroce nei confronti della popolazione ebraica. Tre giorni dopo, lunedì 22, sui muri della città vengono affissi manifesti che avvisano del fatto che «ebrei, comunisti, commissari e partigiani saranno eliminati», tanto perché non si possa avere dubbi. La delazione viene incoraggiata ricompensando la denuncia di un comunista o di un partigiano con 200 rubli (Vasilij Grossman e Il’ja Erenburg, Il libro nero, Mondadori, Milano 2001, pp. 23-24). Gli ebrei vengono uccisi direttamente in strada e spesso gettati nel fiume Dnepr, che attraversa la città e che porta via i cadaveri gonfi di vecchi e bambini.
I tedeschi a Kiev
Il clima è pesantissimo, da girone infernale, come sta accadendo un po’ ovunque sul territorio sovietico occupato via via dall’avanzata tedesca. I commando degli Einsatzgruppe seminano il terrore, uccidendo a ritmi terrificanti decine di migliaia di civili. È la cosiddetta «Shoah con le pallottole», che precede la soluzione finale della questione ebraica in Europa consumata nei campi di sterminio e che darà la morte a circa un milione e mezzo di ebrei nei territori sovietici invasi dall’esercito tedesco.
Il giorno 24 si dà il via a un’operazione organizzata da tempo dalla resistenza e dai servizi sovietici: il centro di Kiev, il Kreščatik, viene letteralmente fatto saltare in aria. La prima esplosione avviene fra le tre e le quattro del pomeriggio, e fa crollare l’edificio divenuto sede del comando tedesco. A seguire, in una successione regolare ma imprevedibile, esplodono mine disseminate negli edifici intorno.
Le esplosioni si susseguono per tutta la notte, e continuano fino al giorno 28, provocando un incendio colossale che durerà per almeno due settimane. Ancora a dicembre, dalla zona devastata si alza il fumo di qualche focolaio. «Nessuna capitale europea», annota Anatolij Kuznecov nel suo resoconto dei fatti di Babij Jar, «aveva accolto Hitler come lo accolse Kiev» (Babij Jar, Adelphi, Milano 2019, p. 87).
I tedeschi, che subiscono perdite gravi e soprattutto faticano molto a riprendere il controllo della città, diventano «cupi e rabbiosi» (ivi, p. 90), e preparano la rappresaglia, che però, curiosamente, prende di mira gli ebrei. Non si tratta di un effetto collaterale, perché gli ebrei sono dichiaratamente messi nel mirino, ma i responsabili della distruzione del Kreščatik non sono loro. O forse sì. Perché in fondo, secondo i nazisti, non esiste alcuna distinzione tra bolscevismo e giudaismo.
Nei giorni 27 e 28, per le vie della città appaiono dei nuovi manifesti. Stavolta sono di carta grezza e recano, a grandi lettere e in tre lingue, russo, ucraino e, in basso, in corpo più piccolo, in tedesco, le seguenti disposizioni: «È fatto obbligo a tutti i giudei della città di Kiev e dei suoi dintorni di presentarsi lunedì 29 settembre 1941 alle 8 del mattino all’angolo fra via Mel’nikovskaja e via Dochturovskaja (vicino al cimitero). Dotarsi di documenti, denaro, oggetti di valore, e anche di indumenti pesanti, biancheria, ecc. I giudei che non ottemperassero a queste disposizioni e venissero trovati altrove saranno fucilati […]» (ivi, p. 93).
Il comunicato non è firmato e pare redatto frettolosamente, mal tradotto, perché le vie indicate sono scritte in modo sbagliato e quei nomi a Kiev semplicemente non esistono, ma tutti capiscono di che luogo si tratta: vicino al cimitero russo e a quello ebraico, ma soprattutto nei pressi di una stazione ferroviaria, circostanza che induce a pensare che i tedeschi vogliano trasferire gli ebrei deportandoli nei campi di lavoro.
E invece quella convocazione è di fatto una condanna a morte per gli oltre 60.000/70.000 ebrei che vivono ancora in città. Sono quelli che non sono riusciti, o non hanno potuto o voluto andare via quando è iniziata la guerra: circa un terzo della popolazione ebraica che Kiev annoverava tra i suoi cittadini.
Quello che accade tra la mattina di lunedì 29 e martedì 30 è qualcosa di inimmaginabile. Gli ebrei, che forse hanno capito ma non smettono di sperare, si radunano in massa. Un fiume interminabile di persone con le poche cose che riescono a portare con sé scorre per le vie della capitale diretto al luogo stabilito. E qui inizia la meticolosa operazione di sterminio.
Costretti ad abbandonare tutti i loro averi, gli ebrei vengono fatti spogliare e, incalzati dalle urla, dai colpi di bastone o di badile e dai cani aizzati contro di loro, avviati verso la gigantesca fossa di Babij Jar, una forra naturale, «un burrone enorme […] profondo e ampio come una gola di montagna […]. Le pareti erte, scoscese, in alcuni punti addirittura verticali» (ivi, p. 25). Il luogo è stato preparato con cura.
È completamente recintato e inavvicinabile per gli estranei. Qui, smistati «dai soldati tedeschi con placche sul petto, e anche uomini della polizia ausiliaria ucraina arruolata dalle SS, i cosiddetti “polizei”, in divisa nera con i paramani grigi» (ivi, p. 102), a gruppi successivi gli ebrei vengono schierati sul bordo del burrone e falciati a colpi di arma da fuoco. I corpi precipitano e si accatastano sul fondo della gola. Per risparmiare munizioni, i bambini più piccoli vengono gettati di sotto ancora vivi. Una mattanza inenarrabile. Nell’arco di quelle quarantotto ore vengono uccisi in questo modo 33.771 ebrei.
Il successo dell’operazione e la praticità del luogo rinfrancano i tedeschi, che nel corso dei due anni successivi accumuleranno in quella gola i corpi di circa altre 100.000/150.000 persone, tra ebrei, prigionieri militari sovietici, partigiani ucraini, rom e sinti, facendo diventare Babij Jar la fossa comune più grande mai vista in Europa.
Collaboratori
Il coinvolgimento di uomini ucraini nei massacri non è un fatto isolato, e non si limita alle fucilazioni «all’aperto», perché spesso li si troverà in servizio anche nei campi di concentramento e di sterminio. L’invettiva di Putin nei confronti dell’attuale classe dirigente ucraina si riferisce strumentalmente anche a questa circostanza e ai gruppi di ispirazione nazista attivi nelle aree del Sud del paese e che aggrediscono i filorussi. In realtà, in tutti i territori sovietici occupati sono migliaia i volontari che si schierano con i nazisti invasori per combattere il comune nemico bolscevico e, nel contempo, per sfogare il proprio odio nei confronti della popolazione ebraica.
Accade anche nell’Europa occidentale, dove aderiscono alle SS belgi, danesi, finlandesi, francesi, inglesi, irlandesi, italiani, norvegesi, olandesi, spagnoli. Sarà lo stesso Himmler a organizzarne il reclutamento nelle file delle SS creando contingenti «di ausiliari di polizia non tedeschi – gli Schutzmannschaften (comunemente noti come Schuma)».
Restando sul lato orientale dell’Europa, fra il 1939 e il 1945 «le SS assorbirono più di un milione di uomini appartenenti alle Ostruppen (truppe dell’Est) sovietiche, molti dei quali musulmani. Indiani, arabi, albanesi, croati, ossezi, tagiki, uzbeki, bosniaci, ucraini, azeri e perfino mongoli buddhisti» (Christopher Hale, I carnefici stranieri di Hitler, Garzanti, Milano 2012, pp. 28-29).
Si calcola che, a fine aprile 1945, quando Hitler si suicidava nel bunker a Berlino, fossero «almeno 10.000 gli ucraini in forza alle SS che marciavano verso ovest nella speranza di arrendersi agli alleati e di sottrarsi alla cattura da parte dei vendicativi battaglioni sovietici dell’NKVD [il Commissariato del popolo per gli affari interni]» (ivi, p. 29).
Babij Jar: l’occultamento
Ma torniamo a Babij Jar. A fine settembre 1941, portata a termine la strage, la storia di questo luogo intriso di sangue è ancora solo all’inizio. Nell’agosto del 1943, a partire dal giorno 18, per l’esattezza, secondo le direttive della cosiddetta Aktion 1005, trecento prigionieri del campo di concentramento adiacente alla gola vengono costretti a riesumare i corpi sepolti e a bruciarli.
Si tratta di cancellare le prove dei massacri, perché l’Armata Rossa sta contrattaccando e avanza riconquistando i territori occupati dai tedeschi che devono prepararsi alla ritirata. Babij Jar diventa così un gigantesco cantiere, Baustelle, «cantiere edile», come lo chiamano anche i tedeschi, attrezzato con scavatori e bulldozer, che recuperano a pezzi i cadaveri dissepolti per poi bruciarli nei forni. Un lavoro immane, che non viene portato a termine in modo definitivo, anche perché le ceneri e le ossa calcificate sono in tale quantità e penetrano nel terreno al punto che per anni continueranno ad affiorare.
Strano a dirsi, ma ci penseranno poi i sovietici a proseguire i lavori di occultamento.
Il motivo per cui da parte delle autorità di Mosca si sia voluto cancellare Babij Jar non è facile da comprendere. Bisogna entrare nelle contorsioni dell’ideologia paranoide staliniana. Nulla deve essere detto o fatto che possa anche solo lontanamente adombrare lo scintillio della sapiente guida del partito e della nazione, cioè Stalin.
Nulla deve instillare il dubbio che l’Unione Sovietica non sia la perfezione in terra. E, soprattutto, non devono esistere identità etniche che possano distinguersi dalla comune identità sovietica; ogni individualismo, del singolo o di gruppi, si deve annullare nell’indistinto della massa. Ecco perché chiunque provi a ricordare gli eventi di Babij Jar o a chiedere che venga posto un monumento a memoria delle vittime, viene censurato.
Già, perché tanto per cominciare di quali vittime si dovrebbe parlare? Non degli ebrei, per esempio. Dopo la guerra riesplode in URSS un’ondata potente di antisemitismo. «Più di una volta», ricorda Kuznecov, «ho sentito i comunisti di Kiev fare discorsi di questo genere: “Quale Babij Jar? Quello dove hanno sparato ai giudei? E perché dovremmo mettere un monumento a quei rognosi?”» (ivi, p. 449).
Erano stati uccisi anche miliari sovietici e patrioti ucraini, sì, ma quanti? Di più o di meno degli ebrei? E quanti di più o quanti di meno? In quali percentuali? E una volta stabilita la percentuale, dichiararla avrebbe o no danneggiato l’immagine immacolata del popolo sovietico? Così, per tagliare la testa al toro a queste complicazioni, il comitato centrale del partito in Ucraina decise di rimuovere del tutto la questione. E tale oblio si è mantenuto intatto anche dopo la morte di Stalin.
«Non c’è un monumento a Babij Jar…» scrive Evgenij Evtušenko all’inizio della sua celebre poesia, che nel 1962 Dmítrij Šostakóvič traspone in musica componendo la Sinfonia n. 13 in Si bemolle minore op. 113. «Babij Jar non esiste più», scrive Kuznecov. «Secondo alcuni dirigenti politici [sovietici], non è mai esistito. Il burrone è stato colmato, ci passa la strada» (ibidem).
Dalla cancellazione al memoriale
Ma non è stato facile né indolore cancellare Babij Jar. Il primo tentativo, più rapido e semplice, fu quello di chiudere la gola con una diga e riempire l’invaso di fango, pensando che la terra si sarebbe depositata con il tempo solidificandosi. Ma la natura argillosa del terreno rallentava il drenaggio dell’acqua, così Babij Jar si trasformò negli anni in un gigantesco serbatoio di fango dalle pareti pressoché impermeabili.
Fino a quando, il 13 marzo 1961, in seguito al riversamento delle acque del disgelo, il fango tracimò. L’ondata che si abbatté sul quartiere adiacente la diga fu devastante, con case spazzate via e un numero incalcolabile di morti. Quanti? Anche stavolta, impossibile saperlo. «Babij Jar non ha fortuna con i numeri», commenta sarcastico Kuznecov (ivi, p. 451). Il disastro fu subito coperto dal silenzio. L’area colpita venne isolata con recinzioni e nessuno poté più avvicinarsi né tantomeno scattare fotografie.
Nel 1962 si provvide così a riempire la gola con tonnellate di terra e a spianare l’intera area, compresa la parte della città colpita dall’esondazione della diga. Sul luogo in cui sorgeva il campo di concentramento fu costruito un nuovo quartiere residenziale e venne cancellato l’intero cimitero ebraico, rimpiazzato dagli studi televisivi, quelli appunto bombardati sessant’anni dopo.
Nel 1966, in occasione del venticinquesimo anniversario della strage, a Babij Jar affluì un numero di persone tale che perfino le autorità comuniste dovettero prenderne atto e ricorrere a qualche riparo. Apparve così, nottetempo, un blocco di granito che riportava l’indicazione di un futuro monumento che sarebbe stato edificato a memoria.
Ma si è dovuto attendere il 1991, quando l’Ucraina è diventata indipendente, perché finalmente, sul luogo del cimitero ebraico, dunque non esattamente sul posto in cui sono stati commessi i crimini, fosse eretto un monumento a forma di menorah, il candelabro a sette braccia simbolo dell’ebraismo.
Ma che Babij Jar non sia un luogo destinato ad avere pace lo dimostra, prima del bombardamento di questi giorni, l’allestimento di un nuovo memoriale della Shoah inaugurato nei mesi scorsi in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’eccidio, grazie anche ai finanziamenti del miliardario russo Mikhail Fridman: una sorta di «Disneyland della Shoah» (dal titolo dell’articolo di Davide Lerner che ne ha dato conto sul «Venerdì di Repubblica» del 21 gennaio 2022).
A Babij Jar si è deciso di mettersi in competizione con le nuove tecnologie dell’intrattenimento e sono iniziati i lavori per le opere previste dal progetto diffuso e che verranno portare a termine entro il 2026, sebbene, data la nuova situazione, il condizionale è ben d’obbligo, come si usa dire. Tra un muro di carbone incastonato di scaglie di quarzo, ideato nientemeno che da Marina Abramovic ispirata dal Muro del pianto di Gerusalemme, «una sinagoga di legno a forma di libro, che si ripiega su sé stessa e il campo di specchi di acciaio inossidabile sfregiato dai proiettili del calibro della Seconda guerra mondiale, con annessi effetti sonori» (ivi, p. 22), chissà se resterà lo spazio per un pensiero.
Il Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, per esempio, ha scelto una strada diversa. Il suo direttore, lo storico Piotr Cywiński, ha difeso l’idea della conservazione, impedendo che si impiantassero strumentazioni e attrezzature che avrebbero stravolto il museo facendolo diventare una giostra delle emozioni.
Ma a Babij Jar non c’è nulla da conservare. Non c’è proprio nulla, se non le ceneri e le ossa delle migliaia di vittime sepolte sotto metri e metri di terra, strade e condomini; con loro anche la memoria, probabilmente destinata a evaporare insieme con i fumi del sensazionalismo tecnologico.
E ora, da ultimo, l’artiglieria russa che devasta. Per sbaglio. Forse. Chi può saperlo? Già che erano lì, con i cannoni puntati e con una buona scusa, perché no?