Il PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo) ha comunicato negli ultimi giorni di luglio la sua volontà di portare davanti alle Cortes (Parlamento) una Legge sulla Libertà di Coscienza, Religiosa e di Convinzioni – sospesa nell’ultima legislatura del Governo Zapatero – e di rinegoziare gli Accordi tra la Spagna e la Santa Sede del 1979, smarcandosi da una loro “denuncia” unilaterale.
Si tratta di un doppio annuncio che riaprirà, fra non molto, il dibattito sulla differenza tra l’“a-confessionalità” dello Stato (ma non della società), come si rileva nell’articolo 16.1 e 16.3 della Costituzione spagnola e sui diversi contenuti attribuiti a ciò che si intende per “laicità”, spesso contraddittori tra loro, oltre che giustapposti, alcuni di essi, alla a-confessionalità concordata nel patto costituzionale.
Il documento dei vescovi
Abbiamo anche conosciuto un documento della Conferenza episcopale spagnola, definito da alcuni commentatori – direi in maniera affrettata – come il miglior testo dei vescovi da molto tempo: Fedeli all’invio missionario. Approccio al contesto attuale e al quadro ecclesiale; orientamenti pastorali e linee di azione per la Conferenza episcopale spagnola (2021-2025).
In questo testo, approvato durante l’Assemblea plenaria della primavera 2021, i vescovi sostengono che in Spagna si assiste a «un deliberato tentativo di “decostruzione” o smantellamento della visione cristiana del mondo» a favore di «una proposta neopagana» che, guidata dalla scomparsa della «solidità nei grandi principi ideologici e nelle grandi cause», lascia il passo ad una società postmoderna, «liquida» e «volubile» a vantaggio di «emozioni e sensazioni».
Inoltre – è detto –, si tratterebbe di una demolizione che la cittadinanza starebbe vivendo «quasi con indifferenza, anzi, come una conquista della libertà», nonostante le sue conseguenze molto preoccupanti: «i populismi, i particolarismi nazionalisti, l’individualismo, i radicalismi dell’ideologia del genere, il fondamentalismo, la xenofobia o l’aporofobia (paura e ostilità verso i poveri) e, in generale, lo scontro per affermare la propria posizione». A queste conseguenze bisognerebbe aggiungere «la messa nell’angolo della scelta democratica» e il «risorgere artificiale delle “due Spagne” di così drammatica memoria».
Penso che il lettore di questo e di altri passaggi del documento – tra l’altro non presentato ufficialmente ai media – si troverà d’accordo su alcuni punti e dissentirà da altri per ragioni diverse. È impossibile soffermarsi su di essi in maniera dettagliata. Almeno, questo è quanto è successo a me. Ma questa difficoltà non mi impedisce di proporre, anche se di getto, un paio di considerazioni.
Smarcarsi dalla Chiesa
La prima, per riconoscere che in effetti stiamo assistendo a un importante cambiamento epocale. Personalmente, ritengo che questo cambiamento sia carico di preoccupanti incertezze. Ma, a differenza di quanto sostengono i vescovi, faccio fatica ad accettare che le nubi minacciose che essi vedono all’orizzonte obbediscano solo a una strategia dominata dalla volontà di instaurare una società “neopagana”, “liquida” o consumistica.
Mi disturba che i vescovi non prestino la dovuta attenzione alla liberazione che non pochi nostri concittadini avvertono dalla tutela onnipresente e autoritaria che per secoli la Chiesa cattolica ha esercitato su gran parte dell’Europa occidentale. E, tra noi in particolare, durante i quarant’anni della dittatura franchista, durante la quale vigeva il nazionalcattolicesimo: vale a dire, tutti cattolici per decreto.
È evidente che questa osservazione non mi impedisce di riconoscere il ruolo decisivo avuto dalla Chiesa, soprattutto attraverso le figure di papa Paolo VI e dal cardinale Tarancón, nel periodo di transizione politica verso la democrazia.
Il ruolo dello Stato
La seconda, per sottolineare che avverto nondimeno anche la mancanza di un nuovo modo di comunicare e, soprattutto, di porsi della Conferenza episcopale spagnola in questo momento.
Probabilmente, il compito più delicato e importante di uno Stato democratico è quello di regolare la convivenza libera e pacifica di tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalle verità e convinzioni che professano e dalla coerenza che possono esibire. Ciò significa, se non sbaglio, che la qualità di un buon governo si misura sulla sua capacità di favorire – nell’ambito del patto costituzionale – l’equilibrio tra la coerenza con il proprio programma politico e la cura della convivenza tra maggioranze e minoranze, come anche tra diverse religioni e concezioni della vita.
Allo stesso modo, ritengo che la qualità – in questo caso, evangelica, oltre che democratica – della Conferenza episcopale (e della Chiesa cattolica) si misuri in base alla sua libertà di affermare ciò che intende dire su qualsiasi tema, ma tenendo ben presente che la sua verità e la sua parola non sono quelle di tutti i cittadini.
Perciò, mi sembra più sensato che, senza occultare le loro diagnosi, i vescovi prestino maggiore attenzione alle possibilità che si aprono in questo momento. E, naturalmente, siano attenti a escludere ogni prospettiva analitica dominata dalla convinzione che «qualsiasi tempo passato», non essendo pagano, «era migliore».