Chi sta perdendo la guerra in Ucraina

di:
ucraina

Ucraina, veicoli militari russi distrutti a Kiev

Volodymyr Zelensky è tornato a casa da Bruxelles senza aver ottenuto quello che sperava. O, almeno, quello che diceva di sperare. Il suo «piano per la vittoria» fa pensare alle varie operazioni di maquillage lessicale, molto comuni nella propaganda politica, in cui le parole prendono il posto della realtà, fino a rovesciarla.

Lo stesso procedimento è d’altronde adottato dai suoi «alleati occidentali», che continuano a condire con altisonanti proclami di sostegno all’Ucraina – «finché non vincerà una pace giusta e duratura», dixit Joe Biden – il loro sostanziale rigetto del «piano» di Zelensky.

Fin dal suo viaggio a New York per l’Assemblea generale dell’ONU a settembre, il presidente ucraino doveva aver capito che il suo «piano per la vittoria» era nato morto. Anche se non è un politico, Zelensky ha accumulato in questi due anni e mezzo tanta esperienza quanta chi scambia la politica con i velluti parlamentari non riuscirà ad accumularne in tutta la vita.

La consapevolezza della scarsa popolarità della sua iniziativa lo ha spinto a raddoppiare gli sforzi diplomatici, cercando di stanare i possibili anelli deboli della catena dei suoi amici provvisori. Sforzi tanto più intensi quanto più il rischio di una seconda presidenza Trump si avvicina.

L’atmosfera sta cambiando?

Il segno che la partita era praticamente conclusa è probabilmente arrivato da un articolo del Financial Times del 7 ottobre scorso, che esordiva con la cruda descrizione dell’inesorabile arretramento dell’esercito ucraino e delle prospettive di una popolazione esposta «a ore senza luce né riscaldamento durante i mesi più freddi», ormai imminenti.

Nei circoli dirigenti di Kiev, secondo l’editorial board del quotidiano della City, si starebbe cominciando a riconoscere «in privato» che «gli effettivi, la potenza di fuoco e il sostegno occidentale» sono ormai insufficienti per ottenere la sbandierata vittoria; di conseguenza, «la migliore speranza potrebbe essere un accordo negoziato… in cui Mosca manterrebbe il controllo di fatto su quel quinto circa di territorio ucraino occupato – senza riconoscimento della sua sovranità – mentre il resto del paese sarebbe autorizzato a entrare nella Nato o a ricevere garanzie di sicurezza equivalenti».

Subito dopo, però, il giornale affermava che quest’ultima ipotesi non ha nessuna chance di essere accettata da Mosca, entrata in guerra non tanto per conquistare qualche migliaio di chilometri quadrati ma proprio per scongiurare il rischio di avere la Nato alle sue frontiere, su un territorio, aggiungiamo noi, che comunque il Cremlino considera suo.

Anche se l’articolo terminava raccomandando al «presidente Biden e ai suoi alleati europei di rafforzare Kiev quanto più possibile» per aiutarla a «riprendere il sopravvento», il Rubicone era stato attraversato: fin dal 24 febbraio del 2022, i media e i circoli dirigenti britannici hanno imperturbabilmente sostenuto che la sconfitta di Putin era questione di giorni, se non di ore; se adesso perfino Londra si mette a fare del disfattismo, allora è evidente che, come scriveva appunto il Financial Times, «the mood is shifting», l’atmosfera sta cambiando.

A Kiev ci si è affrettati a qualificare le affermazioni riportate nell’articolo come «pure chiacchiere». Ma che il mood stia cambiando appare evidente anche al più distratto degli osservatori.

Agli inesausti partigiani di Mosca, che in certi frangenti della guerra erano stati costretti ad abbassare la cresta, si uniscono ora le fresche pattuglie di coloro che non perdono occasione per saltare sul carro del mood dominante e si affrettano ad annunciare con la petulante insistenza dei neofiti la ormai imminente vittoria della Russia.

È tempo, quindi, di ridare la priorità all’analisi e di ricostruire il quadro generale. Che si potrebbe riassumere così: l’esito più probabile di questa guerra è che entrambi i contendenti, l’aggressore e l’aggredito, la perdano. E che l’aggressore perda più dell’aggredito.

La sconfitta ucraina

Non c’è dubbio che l’Ucraina sia sconfitta, almeno se ci riferisce all’obiettivo fissato da Zelensky e dal suo gruppo dirigente fin da quel 24 febbraio 2022: il ritiro totale e incondizionato dei russi dall’insieme del territorio occupato, ristabilendo l’integrità dei confini del 1991.

Lasciamo da parte le considerazioni sulla natura di quei confini, che pure sono utili a capire la genesi del conflitto. Resta il fatto che quell’obiettivo era fuori dalla portata di Kiev, non solo e non tanto perché il suo territorio era stato occupato da un paese con mezzi superiori, ma perché i russi del Donbass e della Crimea si sono sentiti di nuovo «a casa», soprattutto dopo il repulisti delle loro minoranze pro-Kiev.

Riconquistare quelle aree avrebbe di fatto significato, per gli ucraini, entrare in territorio ostile, con tutto ciò che ne consegue in termini militari e politici.

Tra l’altro, con il suo attacco e con la sottrazione di quelle regioni, Mosca ha fatto della restante Ucraina un paese molto più omogeneo di quanto non avrebbe mai potuto essere – compresa la volontà di separarsi per sempre da Mosca e di entrare a far parte del club occidentale.

Insomma, lanciando la parola d’ordine della «vittoria totale», il gruppo dirigente ucraino si è precluso qualsiasi altra possibilità, che sarebbe inevitabilmente vista come una disonorante capitolazione. Perché, allora, inchiodarsi da sé a una rivendicazione così inconcludente?

Molti pensano, benignamente, che quella parola d’ordine fosse necessaria per tenere alto il morale della popolazione e delle truppe; ma la storia insegna che spronare il morale con rodomontate irrealiste ha come necessario contraccolpo il crollo quando le cose si mettono a fare i conti con la realtà.

Secondo un’altra ipotesi, i dirigenti ucraini sarebbero stati «mal consigliati» dall’esterno – che si trattasse di Londra, Varsavia o anche Washington, le truppe di coloro che sarebbero felici di vedere la Russia sconfitta, possibilmente da altri, sono comunque nutrite. Ma non bisogna dimenticare che questo gruppo dirigente, prima di farsi le ossa con la guerra, era politicamente inconsistente, e quindi soggetto a tutte le possibili influenze.

E non soltanto esterne: basti pensare agli «oligarchi» locali, molto più solidamente impiantati di quanto la campagna populista di Zelensky nel 2019 volesse far credere; basti pensare ai gruppi paramilitari scopertamente fascisti che avevano combattuto nel Donbass nel 2014 e che hanno strenuamente tenuto Mariupol per tre mesi nel 2022.

Su queste milizie, sulla loro natura politica e sui loro efferati metodi d’azione, si è steso in Europa un generoso velo, come se i barbari stessero da una parte sola; a Kiev, invece, si sa bene che quella gente, spesso, fa delle offerte che non si possono rifiutare.

Subito prima dell’invasione, la popolarità di Zelensky era ai minimi. L’impeto con cui ha rigettato l’invito ad abbandonare la capitale il 24 febbraio 2022 e l’indubbio coraggio mostrato in seguito lo hanno trasformato in eroe, almeno a ovest di Donetsk e di Lugansk.

Oggi, la sua stella sta rapidamente impallidendo, a causa, soprattutto, del prolungarsi di una guerra di cui non si vedono le prospettive, ma anche del carattere sempre più autoritario del suo regime (in particolare dopo le destituzioni del popolare comandante in capo delle Forze armate Valerij Zalužnyj a febbraio, e del ministro degli Esteri Dmytro Kuleba a settembre) e per la messa fuorilegge della Chiesa ortodossa dipendente dal patriarcato di Mosca, a cui molti fedeli ucraini restano attaccati, non tanto per ragioni politiche quanto per tradizione.

Il suo «piano per la vittoria» sembra quindi sempre più un disperato espediente per tentare di sottrarsi alle possibili e probabili ritorsioni di tutti coloro che, per due anni e mezzo, hanno creduto, o finto di credere, che fosse davvero possibile sconfiggere i russi sul piano militare.

La sconfitta russa

Nondimeno, i russi sono stati sconfitti. Dalla inattesa e determinata resistenza ucraina, certo, ma soprattutto da sé stessi.

Per quel che riguarda la situazione in corso, conviene premettere che, come è stato recentemente detto a proposito di Israele, la somma di una serie di vittorie tattiche non dà necessariamente una vittoria strategica. Tradotto in termini più semplici: vincere molte battaglie non significa necessariamente vincere la guerra. E questo vale anche per la Russia.

I russi stanno guadagnando posizioni sul terreno, seppure a passo di lumaca, dispongono di più uomini e di più mezzi e, infine, possono sperare nell’elezione di Trump il 5 novembre.

Questa serie di condizioni autorizzerebbe a parlare di una possibile vittoria, ma solo se l’obiettivo del conflitto – che dura da 32 mesi e ha fatto centinaia di migliaia di vittime – fosse stato di prendersi un quinto scarso dell’Ucraina e se, per riuscirvi, l’economia del paese non fosse stata trasformata in economia di guerra, con ricadute civili positive solo a breve termine.

Nel 1984, Deng Xiaoping disse a Helmut Schmidt che «il tracollo economico dell’Unione sovietica dipende[va] strettamente dalle sue spese militari eccessive»: la diagnosi era esatta, e l’esito lo si sarebbe visto alla fine di quel decennio.

Semplificando, si potrebbe dire che la Russia è chiusa in un circolo vizioso: essendo strutturalmente debole, vittima di una geografia ostile, per mantenersi in piedi ha bisogno di mostrare i muscoli di una superpotenza; ma per sviluppare quei muscoli occorre spendere quasi tutte le poche risorse a disposizione, sacrificando lo sviluppo e finendo così per indebolirsi ulteriormente.

Per farla ancora più breve: ogni volta che mette in moto i suoi muscoli militari, la Russia si sfianca e, come è successo due volte nel Novecento, crolla – a meno di non essere aiutata da una vera superpotenza. Per questo, è lecito affermare che Mosca abbia perso questa guerra fin dal 24 febbraio del 2022.

Uno dei vantaggi che Putin e il gruppo dirigente russo hanno sui loro colleghi ucraini è di non avere mai detto quali fossero i loro veri obiettivi, lasciandosi così liberi di proclamare la «vittoria» in qualunque momento in cui le circostanze potessero apparire favorevoli.

L’unico scopo dichiarato – «denazificare l’Ucraina» – era privo di oggetto reale, ed è stato di volta in volta affiancato o sostituito da altri fantasiosi obiettivi: salvare i russi dal «genocidio» ucraino, difendersi dall’aggressione della Nato e dell’«Occidente collettivo», sconfiggere l’«unipolarismo americano», dar vita a un nuovo ordine mondiale e così via.

Cosa voleva la Russia, e cosa ha ottenuto

Nessuna di queste motivazioni ex post è molto più credibile della «denazificazione». Quali fossero i veri scopi dell’invasione dell’Ucraina, quindi, può solo essere oggetto di supposizioni. Vediamone alcune tra le più realiste, e vediamo come sono andate a finire.

(1) Conquistare l’Ucraina

Se questo era l’obiettivo della guerra, coloro che abbracciano oggi la tesi di una vittoria russa dovrebbero cominciare ad avere dei dubbi.

Quello che si è sempre vantato di essere l’esercito più potente del mondo non è riuscito a piegare uno degli eserciti più fragili del mondo, ha impiegato tre mesi per conquistare Mariupol radendola al suolo e ha dovuto mandare avanti i mercenari di Evgheni Progozhin per conquistare, dopo dieci mesi, due settimane e tre giorni di sanguinoso assedio, la città di Bakhmut, grande più o meno come Asti.

Ancora oggi, per continuare la sua «inarrestabile» offensiva, l’esercito più potente del mondo ha bisogno del generoso invio di carne da macello dalla Corea del Nord e di armi dall’Iran. Dimmi che amici hai e ti dirò chi sei.

(2) Impedire all’Ucraina di entrare nella NATO

Se questo era l’obiettivo, come suggerisce l’articolo del Financial Times, è stato per ora certamente raggiunto; è tuttavia improbabile che Washington avrebbe mai autorizzato l’Ucraina a compiere un tale passo.

Dire di volerlo fare è un segnale politico, utile a scompaginare i rapporti tra gli europei e i russi; farlo, rischiando di compromettere per sempre la carta russa, da sempre nella manica degli americani, è tutto un altro affare.

Si noti che più Zelensky insiste per ottenere scadenze e impegni precisi per l’ingresso del suo paese nella Nato, più i suoi «amici» si fanno evanescenti.

(3) Indebolire la NATO e, possibilmente, riconquistare un diritto di supervisione sui paesi ad est della vecchia cortina di ferro

Se questo era l’obiettivo, non sembra necessario spendere molte parole per constatare che è stato ottenuto il risultato opposto. La Nato non è mai stata così forte, e i paesi ex-satelliti – ad eccezione di Ungheria e, per ora, Slovacchia – non sono mai stati così armati e così ostili a Mosca.

(4) Ricompattare attorno a sé il «vicino estero», cioè le quattordici repubbliche ex-sovietiche separatesi da Mosca nel 1991

 Se questo era l’obiettivo, il successo si limita alla sola Bielorussia, il cui leader deve la sua sopravvivenza esclusivamente alla buona volontà del Cremlino. Le cinque repubbliche dell’Asia centrale sono sempre più attratte dalla massa (e dai capitali) cinesi, e il Kazakistan, più esposto al rischio di finire come l’Ucraina in ragione della sua cospicua minoranza russa, lo è a maggior ragione.

Nel Caucaso, l’Azerbaijan si comporta come se Mosca non esistesse più, e perfino l’Armenia, alleata fin dalla guerra russo-persiana del 1826, oggi manifesta l’intenzione di andarsene per conto suo, sospendendo tra l’altro la sua partecipazione all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, l’alleanza militare tra cinque delle quindici repubbliche ex-sovietiche.

La Moldavia e la Georgia, oggi in piena burrasca elettorale, continuano a essere dilaniate tra la nostalgia dell’impero e l’attrazione sempre più fievole del miraggio europeo.

(5) Rafforzare l’immagine sui teatri esteri dove sono presenti soldati russi

Se questo era l’obiettivo o, almeno, uno degli obiettivi, si può dire che sia stato, momentaneamente, raggiunto. Ma, che si tratti della Siria o dell’Africa occidentale, le popolazioni locali si stanno rendendo conto che la presenza russa non porta alcun miglioramento né sul piano della sicurezza né su quello della vita di tutti i giorni; anche questo successo marginale rischia quindi di risolversi in un’altra umiliazione per il Cremlino (e la decisione di rinominare il Gruppo Wagner “Africa Corps” non è certo di buon auspicio).

(6) Allontanare il cuore dell’Europa (Francia e Germania) dagli Stati Uniti

Se questo era l’obiettivo, il fallimento è palese. Qui, però, il Cremlino poteva legittimamente nutrire alcune speranze, in considerazione dell’atteggiamento di Parigi e Berlino all’epoca della Guerra del Golfo del 2003 e, soprattutto, dei due accordi di Minsk del 2014 e 2015. Ma Parigi e Berlino, questa volta, hanno imboccato – seppure a malincuore – la strada opposta, privando Mosca delle sue due principali sponde in Europa occidentale.

(7) Controbilanciare il peso della Cina nella sua relazione con la Russia con una dimostrazione di forza

Qui, il disastro non potrebbe essere più grande: in questi 32 mesi, la Cina ha infatti acquisito un peso e un’influenza sulla Russia tale che nessun dirigente della Città proibita avrebbe mai potuto osare sperare. La diffidenza e l’ostilità reciproca sono sempre state una costante nella storia dei due paesi (si veda oltre).

Oggi, il peso cinese in Russia cresce a ritmo sostenuto, e tra i suoi possibili effetti collaterali c’è anche, per Mosca, il rischio che l’India, dove la Cina è avvertita come minaccia esistenziale, allenti sempre più un’amicizia che dura solidamente almeno dal 1962.

Questi due ultimi punti – la perdita della sponda europea e la crescente influenza cinese – sono gli indicatori più evidenti della portata della sconfitta strategica russa. E ci introducono all’ultima parte di questo articolo, sulle ragioni della crescente freddezza di Washington nei confronti di Kiev.

Salvare il soldato Russia

Secondo l’articolo del Financial Times, sarebbe l’escalation della crisi mediorientale ad aver spinto Washington e le capitali europee a modificare il loro atteggiamento verso Kiev e ad auspicare una soluzione negoziale.

Non c’è dubbio che la guerra tous azimuts di Israele sia stata anche un regalo a Putin e abbia rimesso a nudo tutte le difficoltà americane, solo provvisoriamente oscurate dalla pronta reazione di Washington all’invasione dell’Ucraina.

Ma la ragione principale, per quel che riguarda gli Stati Uniti, dev’essere cercata altrove; e solo la geopolitica, andando alla radice dei fenomeni, ce la può spiegare. In un libro del 2001 – Does America Need a Foreign Policy? – Henry Kissinger scriveva che «nella prima metà del Novecento, gli Stati Uniti hanno combattuto due guerre per impedire il dominio sull’Europa da parte di un potenziale avversario […] Nella seconda metà del secolo (in realtà, a partire dal 1941), gli Stati Uniti hanno fatto tre guerre per difendere lo stesso principio in Asia – contro il Giappone, in Corea e in Vietnam».

È una delle migliori illustrazioni di come gli americani abbiano ripreso a proprio conto la dottrina del britannico Halford Mackinder, secondo il quale – parafrasando – il rischio maggiore per l’Impero di sua maestà derivava dalla unione delle forze (quale che ne fosse la forma) tra una grande potenza industriale e la Russia: la combinazione tra capitali e know how da una parte, territorio, materie prime e popolazione spendibile dall’altra avrebbero creato una massa d’urto eurasiatica irresistibile, in grado di rovesciare i rapporti di forza nel mondo.

Mackinder pensava alla Germania, ma quando la sua teoria divenne patrimonio americano, il suo autore, Nicholas Spykman, vi aggiunse il Giappone – con caratteristiche simili a quelle tedesche – avvertendo però che il pericolo più grande sarebbe venuto dalla Cina, una volta che quel paese si fosse riunificato e industrializzato: «Una Cina moderna, vitalizzata e militarizzata di 400 milioni di persone – scriveva Spykman nel 1942 – sarà una minaccia non solo per il Giappone, ma anche per la posizione delle potenze occidentali nel Mediterraneo asiatico», dove, per «Mediterraneo asiatico», intendeva i mari prospicienti le coste cinesi.

Spykman sollecitava gli Stati Uniti a creare e a mettere sotto il proprio controllo un anello di paesi attorno alla Russia (da lui chiamato «Rimland») proprio per impedire la congiunzione delle sue forze con quelle della Germania, del Giappone o, più tardi, anche della Cina. La carta da lui stesso disegnata all’epoca mostra in cosa consistesse questo Rimland.

rimland

La politica degli Stati Uniti nel dopoguerra si è essenzialmente basata sulla formula di Spykman: «Chi controlla il Rimland governa l’Eurasia, chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo». È quello che sarà poi chiamato «containment», il cui scopo era prevalentemente di trattenere la Germania e il Giappone dalla tentazione di allearsi di nuovo alla Russia.

Oggi, la possibile combinazione di forze tra la Cina «moderna, vitalizzata e militarizzata» e la Russia ricca di materie prime, territorio e popolazione spendibile, è il peggior incubo di tutti i tempi per gli Stati Uniti; infatti mai, in passato, la Germania o il Giappone hanno avuto la forza economica e demografica di cui dispone oggi la Cina.

Ma è anche il peggior incubo possibile per la Russia. Rileggiamo quel che scriveva nelle sue memorie Georgi Arbatov (1923-2010), consigliere di cinque segretari generali del PCUS e soprattutto del capo del KGB Yuri Andropov, il mentore di Putin:

«A metà degli anni 1960, la leadership sovietica ha cominciato a considerare la Cina il suo nemico principale. Non gli Stati Uniti, la Cina. Con gli Stati Uniti è sempre stato possibile trovare un accordo, fare qualche piccola concessione reciproca […] Ma con la Cina non è mai possibile accordarsi su nulla. Pechino non è in grado di fare concessioni reciproche; ha bisogno della completa sottomissione dell’altra parte».

Vale la pena di ricordare come i sentimenti fossero reciproci. Nel suo colloquio con Schmidt, Deng Xiaoping diceva infatti che «l’Unione sovietica non ha mai smesso di immischiarsi nei nostri affari interni, perché Mosca ha fatto di tutto per prendere il controllo della Cina».

Oggi, però, la possibilità che la Russia prenda il controllo della Cina è uguale a zero, mentre a Mosca, i dirigenti attuali, discepoli di Andropov, sanno che con gli Stati Uniti è sempre possibile trovare un accordo.

È un caso paradigmatico di convergenza di interessi, che per il momento non può però tradursi ancora in pratica perché ostacolata dalla guerra in Ucraina e dal vuoto pneumatico in cui galleggia la politica estera americana.

Secondo la tesi ufficiale degli «amici» occidentali di Zelensky, autorizzare Kiev a usare i loro missili per colpire la Russia e a far entrare l’Ucraina nella Nato provocherebbero una «pericolosa escalation».

Nondimeno, negli ultimi 32 mesi, quegli stessi «amici» si sono permessi di oltrepassare tutte le linee rosse ringhiosamente tracciate da Mosca senza provocare nessuna escalation, neppure verbale.

Quello che vuole Washington, in realtà, è salvare il soldato Russia, sottraendolo alle mani della Cina; ed è quello che vogliono in molti anche a Mosca (e, aggiungiamo, a Parigi e a Berlino). Anche se nessuno lo può dire apertamente.

Le elezioni del 5 novembre influiranno sulla forma ma non sulla sostanza di questo scenario. Joe Biden sta cautamente pavimentando la strada per Kamala Harris, mentre Donald Trump ha già proclamato che farà cessare la guerra in 24 ore.

Questo non vuol dire che le cose andranno come auspicano silenziosamente Washington e Mosca: le remore anti-russe sono bipartisan negli Stati Uniti, e potrebbero bloccare sia l’ipotesi di un disimpegno graduale e il più possibile indolore di Harris che quella brutale di Trump.

In quel caso, anche lo scenario ipotizzato dal Financial Times, e respinto oggi con sufficienza dal portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, potrebbe essere fatto passare dai russi come una vittoria; con gli occhi rivolti più a Pechino che a Kiev. Sempre che non sia già troppo tardi.

Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 23 ottobre 2024

appunti

Print Friendly, PDF & Email

3 Commenti

  1. Albertino 4 novembre 2024
    • Mihajlo 4 novembre 2024
      • Giampaolo Sevieri 5 novembre 2024

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto