Stati Uniti: una Chiesa non all’altezza

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Il cardinale Timothy Dolan e Donald Trump all’Alfred Smith Memorial Foundation Charity Dinner.

Il mondo è come sospeso a mezz’aria in attesa dell’esito delle elezioni presidenziali americane, con spostamenti politici internazionali che corrispondono all’altalena dei sondaggi (e della loro interpretazione). Tutti in attesa del vincitore, nella speranza di essersi schierati per tempo dalla sua parte. Tutto come se l’esito delle elezioni risolvesse la questione americana, da cui – volenti o nolenti – dipendono ancora in gran parte i destini del mondo.

Ci nutriamo di questa illusione con una fede che rasenta la magia – perché gli Stati Uniti, anche dopo le elezioni presidenziali, resteranno un problema: a sé stessi, in primo luogo; e poi, di conseguenza, per tutta la fragile e instabile trama delle relazioni internazionali. Di questo dovrebbero essere avveduti i politici, in Italia, in Europa e ovunque; mentre, in realtà, credono ancora che chi abiterà la Casa Bianca risolverà comunque tutti i loro problemi.

Ma chiunque sarà il nuovo/a inquilino/a della residenza presidenziale di Washington non potrà farlo – una cesura, questa, senza precedenti nell’ordine mondiale post-bellico e post Guerra Fredda. Non lo potrà fare perché si troverà a governare una Nazione frantumata in se stessa, oramai spossata dall’estenuante guerra dei valori che ha messo in scena per affermare il dominio di una parte sull’altra. Prendendo congedo da quella cultura democratica che gli Stati Uniti hanno preteso di insegnare, e imporre, a ogni angolo delle terra.

Se i politici possono permettersi una misera pragmatica di schieramento, non così dovrebbe essere per la Chiesa cattolica – in primis, quella americana. Se non si può tacere sui valori, solo su quelli non negoziabili però (come se tutti gli altri rasentassero l’irrilevanza), non si può nemmeno tacere sulla violenza verbale, sulla spregiudicatezza sociale, e sull’incoerenza morale con cui questi valori vengono politicamente realizzati e/o difesi nello spazio pubblico.

Il silenzio della Chiesa cattolica statunitense su questa violenza verbale e sull’impeto di stigmatizzazione che essa trascina con sé pregiudica, e mette in pericolo, quegli stessi valori di cui una larga parte del cattolicesimo americano si è eretto a paladino in cerca del suo messia.

L’ultimo scenario di questa contraddizione non percepita è stata la «Alfred Smith Memorial Foundation Charity Dinner» svoltasi giovedì scorso a New York. Ospitata dalla diocesi del card. Timothy Dolan, la serata ha offerto un pulpito da cui Donald Trump ha potuto fare il suo sermone, carico di risentimento, violenza e attacchi personali, del tutto indisturbato – sotto gli occhi compiacenti di una cardinale della Chiesa cattolica preposto alla guida di una tra le metropoli più importanti del globo.

C’è solo l’imbarazzo della scelta nel discorso di Trump per trovare ampie e buone ragioni per le quali la Chiesa cattolica americana non avrebbe dovuto offrirgli su un piatto d’argento l’opportunità di trasformare una serata di raccolta di fondi a fini caritativi in un comizio politico di cattivo gusto. «Abbiamo qualcuno alla Casa Bianca che può parlare a malapena, a fatica mette insieme due frasi coerenti tra di loro, e sembra avere le facoltà mentali di un bambino. Si tratta di una persona che non è in grado di fare nulla, che non ha un minimo di intelligenza. Ma basta parlare di Kamala Harris».

Tradizione vuole che, dagli anni ’60 quando Nixon e Kennedy parteciparono insieme al Charity Dinner, nelle annate delle elezioni presidenziali vi vengano invitati entrambi i candidati – solo nel 1996 l’arcidiocesi di New York decise di non farlo, molto probabilmente perché Clinton aveva posto il suo veto su una legge che impediva l’aborto in fase avanzata di gravidanza (in quell’occasione, per mantenere l’equilibrio, non venne invitato neanche il candidato repubblicano Bob Dole). Con il cambio in corsa del candidato democratico, Kamala Harris aveva declinato l’invito a partecipare adducendo motivi di carattere organizzativo. Probabile anche che vi abbia rinunciato per evitare un confronto/scontro con un ambiente che le è ostile come quello della Chiesa cattolica del suo paese.

Se certo non di poteva disinvitare Trump all’ultimo momento, non è altrettanto certo che si dovesse far passare sotto completo silenzio contenuto e toni del suo discorso alla Charity Dinner di New York. Comunque, la diocesi e suo cardinale si sono ben guardati dal farlo. Finendo, da ultimo, ad apporre il loro sigillo di approvazione non solo su quello che Trump ha detto, ma anche e soprattutto su come lo ha detto. Dando così un ulteriore contributo all’avvelenamento del clima civile all’interno della Nazione americana.

Battezzare in questo modo il linguaggio di Trump significa non tanto schierarsi politicamente, quanto piuttosto – fatto ben più grave – avallare la violenza dei toni, e la violenza contro le persone, quale veicolo adeguato per la realizzazione pubblica dei valori che la Chiesa americana vede incarnati nella persona di Trump – il quale glieli concede con la magnanimità che contraddistingue la condiscendenza con cui un imperatore assoluto concede briciole ai suoi sudditi.

In questo modo, anziché essere chiave di volta per risolvere la profonda spaccatura della Nazione, la Chiesa cattolica americana diventa parte integrante e volano dello stesso problema che gli Stati Uniti sono diventati a sé stessi. Una grave perdita non solo per il paese, ma più ampiamente per la Chiesa cattolica tutta – in particolare, per gli sforzi diplomatici della Santa Sede volti a ridare un minimo di ordine e coerenza col diritto internazionale alla geopolitica del caos che impera al momento sul destino immediato del mondo.

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Un commento

  1. Angela 20 ottobre 2024

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