Stati Uniti nazione alla deriva

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Il malessere diffuso che scuote il corpo della nazione americana da decenni palesa di essere sempre più una malattia cronica dalla quale non si vuole nemmeno cercare di guarire. Al di là degli episodi, per quanto eclatanti essi possano essere (come il recente attentato a Trump durante un comizio in Pennsylvania), sono saltati i meccanismi sociali e politici che presiedono a una convivenza che possa essere degna del nome civile.

La responsabilità di Trump è quella di aver sistematicamente introdotto nell’architettura della nazione la completa deregulation dell’arena politica, da un lato; e, dall’altro, di aver soffiato sul fuoco prodotto dalle molte lacerazioni del corpo sociale per produrre un senso di militanza a suo supporto. Sostanzialmente speculare è stata l’impalcatura della campagna presidenziale di Biden, che non è riuscita ad aprire gli orizzonti di una contesa tutta giocata tra il male della post-democrazia (incarnato da Trump) e la custodia del bene democratico (impersonata dalla fragilità pubblica a cui Biden si è esposto).

Il bene e il male si sono riconcorsi ad libitum tra loro, senza argini di contenimento, abbandonati al gusto dei cittadini e degli elettori per quanto riguarda la loro collocazione nel contesto della vita della nazione americana: personificati a piacere dall’uno o dall’altro dei due contendenti – come se fossero una pallina da flipper impazzita.

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In questo, attingendo all’anima ancestrale del paese che si nutre di forza, del nemico e della vittoria – da ultimo garantita dalla mano divina che accompagna la nazione messianica della modernità occidentale. L’élites statunitensi hanno cercato di addomesticare per sé quest’anima recondita, ma non sono riuscite ad esorcizzarla dal corpo profondo della nazione. Trump l’ha liberata, dando nuovo corso alla sua forza repressa.

Cruciale ed episodico al tempo stesso, come è di chiunque apra il vaso di Pandora. In merito, un amico americano mi ricordava che il “problema” non è tanto Trump in se stesso, ma il fatto che metà della popolazione statunitense senta la necessità di vivere sotto un assolutismo monarchico – lasciandosi alle spalle il sistema democratico come ordine di una convivenza complessa e conflittuale.

Sicurezza e riduzione della complessità sembrano essere i sentimenti che muovono le scelte politiche della massa elettorale che fa da sostegno al ritorno di Trump alla presidenza. Con uno spartiacque poco considerato – quello del Covid. Per quanto gestito male dall’allora presidente americano, se i cittadini guardano indietro per cercare l’ultima volta in cui si sono sentiti sicuri vedono Trump nelle sale della Casa Bianca.

Anche la scelta del vice-presidente, nella persona del senatore dell’Ohio J.D. Vance, fa perno sulla matassa emotiva di quella parte della popolazione americana che si è sentita messa nell’angolo dai grandi movimenti sociali che hanno orientato per più di mezzo secolo lo scenario statunitense. Il forgotten man (l’uomo dimenticato) è il maschio bianco dell’America rurale, l’alter ego razziale di Obama.

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Sono decenni che la Chiesa cattolica statunitense ha scelto di essere parte del problema, anziché luogo di una sua possibile elaborazione pacifica. La scelta di cavalcare le culture wars, unita all’incapacità di trovare un common ground interno alle comunità verso cui far convergere la disseminazione delle sensibilità politiche e sociali dei cattolici, ha reso la Chiesa americana complice della deriva della nazione.

Troppi i suoi silenzi e i suoi assensi più o meno larvati per potersi proporre ora come soggetto conciliatore e di mediazione di un paese in cui oramai il nemico è letteralmente il tuo prossimo. Senza comprendere che questo posizionamento partisan della Chiesa negli Stati Uniti ha ricadute che coinvolgono il destino del mondo intero. Parafrasando Kierkegaard, si potrebbe dire che il cristianesimo è una fede complessa e complicata – troppo per l’anima statunitense in questo momento. E così anche la Chiesa cattolica americana si è messa a offrire una sua versione light: fatta di confini chiaramente individuabili, di demarcatori identitari forti, di collocazione sicura e netta del bene e del male.

Francesco è un papa che confessa una fede cattolica all’altezza e capace della complessità, che rifugge la totalizzazione del giudizio, e che chiede di vedere nell’altro – chiunque esso sia – un fratello e una sorella. L’avversione nei suoi confronti è la reazione immunitaria di un cattolicesimo che si è provincializzato e smarrito in se stesso. La stoltezza dei vescovi americani è stata quella di aver cavalcato questa avversione, senza voler cercare alcun punto di incontro – indice, questo, di quanto anche questo ceto del paese sia immerso nella deriva verso l’ingovernabilità del caos (preferita alle mediazioni e compromessi della democrazia).

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La secessione americana del XXI secolo non solo è iniziata, ma ha probabilmente già raggiunto un punto di non ritorno. Con una grande differenza, che rende impropri i tanti parallelismi proposti da molti organi di informazione, rispetto alla Guerra Civile del XIX secolo: lì era questione di stati, ossia di un conflitto che rimaneva in un qualche modo interno al quadro istituzionale, oggi non è così.

Oggi sono saltati tutti i confini istituzionali, e quindi gli strumenti di contenimento, perché la secessione taglia in due case, quartieri, città, scuole, università… il nemico è lì, a due passi da te, anonimo – gode dei tuoi stessi diritti, e questo è del tutto insopportabile.

Il mare mai esplorato di quello che saranno gli Stati Uniti nel prossimo decennio lascia il mondo orfano dell’ordine disegnato a partire dalla fine della II Guerra mondiale. Ma soprattutto lo lascia senza alcuna regia, in preda agli istinti e alle occasioni del momento. Nel grande buio, però, anche una flebile luce può diventare occasione di orientamento. Per questo la diplomazia vaticana è chiamata ora, nella sua impossibilità di qualsivoglia ricorso alla forza, ad assumere una leadership inedita – per il bene dei popoli e della terra.

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