Sudan, la crisi infinita e la resistenza dei cristiani

di:
sudan

Associated Press / Lapresse

Riprendiamo dalla rivista dei missionari del PIME Mondo e Missione due testi sulla drammatica situazione del Sudan, dopo due anni di guerra civile, e sulla resistenza dei cristiani nel Paese (dal numero di marzo 2025, pp. 4-7 e pp. 8-9; articoli reperibili anche sul sito della rivista).

Un esodo senza fine. Una catastrofe umanitaria che le parole non riescono a descrivere. A quasi due anni dallo scoppio della guerra civile in Sudan, nell’aprile del 2023, circa 12 milioni e mezzo di persone (su circa 50 milioni) sono state costrette a lasciare le loro case. Più di 25 milioni sono colpite da crisi alimentare acuta. Mentre una nuova ondata di colera si diffonde in maniera preoccupante tra la popolazione che spesso non ha accesso a un sistema sanitario al collasso con l’80% degli ospedali fuori servizio. Intanto non si arrestano stragi e atrocità.

E si moltiplicano le accuse di crimini di guerra e contro l’umanità. Si parla di vero e proprio genocidio. I dati delle vittime – circa 28 mila – non rispecchiano neppure lontanamente la vastità del dramma. Perché la maggior parte delle persone muore di fame e malattie, usate intenzionalmente come armi da guerra. O per mancanza di aiuti umanitari, perché i belligeranti li bloccano, ma anche perché la comunità internazionale non sta rispondendo in maniera adeguata agli enormi bisogni.

Quella del Sudan è attualmente la più grave crisi al mondo e probabilmente la più sottaciuta. L’unica amara evidenza è che non si intravede una fine.

Non si vedono vie d’uscita

Ne è convinta anche Irene Panozzo, analista politica, già advisor del Rappresentante speciale UE per il Corno d’Africa, che il Sudan lo conosce molto da vicino, anche per esserci stata parecchie volte, sino a poche settimane prima dello scoppio del conflitto.

«Purtroppo in questo momento non si vedono vie d’uscita a breve termine, sia per la situazione militare interna, sia per gli interessi stranieri in campo, sia per la congiuntura internazionale che vede, in particolare, gli Stati Uniti all’inizio di un nuovo mandato-Trump e l’Unione Africana in fase di cambiamento dei vertici».

E mentre la diplomazia arranca, le armi continuano a far sentire la loro voce funesta. Se c’è una cosa che non manca in Sudan – dove manca tutto – sono proprio gli armamenti. Entrambi gli schieramenti in campo, le Sudanese Armed Forces (SAF), guidate dal generale Abdel Fattah al Burhan, e le Rapid Support Forces (RSF), le milizie paramilitari del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, non hanno avuto difficoltà a procurarseli, grazie anche agli alleati internazionali: Egitto, Iran e Russia (che mira ad aprire una base militare sul Mar Rosso) a supporto delle SAF; Emirati Arabi Uniti al fianco delle RSF.

«Questo conflitto ha rimescolato le carte sia sul fronte interno che esterno – fa notare Panozzo –. I nemici di oggi, Burhan ed Hemetti, sono stati, infatti, alleati nel colpo di Stato che ha portato alla deposizione del trentennale regime di Omar al Bashir nel 2019 e, prima ancora, nel conflitto in Darfur. Insieme, hanno messo fine anche al tentativo di transizione democratica nell’ottobre del 2021, arrestando il primo ministro e altre personalità politiche civili».

La loro alleanza, tuttavia, non è durata a lungo. Profondamente in disaccordo proprio su un possibile ritorno alla democrazia, dal 15 aprile 2023, si combattono senza esclusione di colpi, supportati da una galassia di milizie locali. Con il rischio – paradossale e gravissimo – che si ritorni drammaticamente al passato. In tutta questa sofferenza e devastazione, infatti, chi sta provando a rialzare la testa è proprio l’Islamic Movement, cuore del regime di Bashir.

Darfur ancora al centro del conflitto

«I leader rimasti – spiega Panozzo – hanno favorito un riavvicinamento delle SAF all’Iran. Si tratta di persone che si sono enormemente arricchite durante i trent’anni di regime, controllando ad esempio il sistema bancario. Oggi stanno acquisendo un ruolo sempre più importante dietro le quinte, ma non troppo. Anzi, si stanno dimostrando estremamente efficaci nel fare propaganda e disinformazione. E intanto si fanno strada milizie islamiche radicali e salafite».

Alcuni leader del movimento islamista, così come personalità di spicco delle SAF e delle RSF, sono stati sanzionati sia dall’Unione Europea che dagli Stati Uniti, in uno degli ultimi provvedimenti dell’amministrazione Biden, che ha anche accusato esplicitamente di genocidio le RSF e le milizie alleate per la pulizia etnica in Darfur.

È quanto denunciano da tempo anche organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, mentre la Corte Penale Internazionale sta indagando già da luglio 2023 sui massacri avvenuti in particolare a El Geneina, nel Darfur Occidentale, dove sono state uccise almeno 15 mila persone, principalmente di etnia masalit, poi gettate in fosse comuni.

Ancora oggi il Darfur – già brutalmente devastato nella guerra di vent’anni fa – è al centro dell’attuale conflitto che, però, si è esteso anche ad altre aree del Paese.

«Attualmente – ricostruisce Panozzo – le SAF stanno riconquistando la capitale Khartoum, dopo aver ripreso alcune enclavi strategiche, in particolare il quartier generale dell’esercito e la zona delle caserme, che permette loro di poter far passare i rifornimenti. Soprattutto, però, hanno riconquistato lo scorso 11 gennaio la città strategica di Wad Madani, crocevia di importanti assi stradali e capoluogo della regione più fertile e produttiva del Paese».

Poche luci nel buio

Ciononostante, le RSF continuano a controllare gran parte del Centro e del Sud-Ovest del Sudan, mentre le SAF si attestano nella parte Nord-Orientale, dove è stata trasferita anche l’amministrazione di un governo internazionalmente non riconosciuto, che attualmente si trova a Port Sudan, sul Mar Rosso.

Poi però ci sono anche città come El Fasher, che sono diventate il simbolo di violenze, abusi e brutalità senza fine. Situata sulla linea del fronte e sotto assedio da diversi mesi, lo scorso 26 gennaio ha subìto l’ennesimo attacco da parte dei miliziani delle RSF che hanno preso di mira il Saudi Teaching Maternal Hospital, provocando 70 morti tra pazienti e familiari. Un’altra struttura sanitaria era stata attaccata il giorno precedente.

Anche Medici senza Frontiere, una delle pochissime organizzazioni umanitarie che hanno potuto rimanere nel Paese, ha ripetutamente condannato gli attacchi contro strutture, personale e pazienti dei propri ospedali. Lo scorso gennaio, però, l’organizzazione è stata costretta a sospendere tutte le attività nel Bashair Teaching Hospital, nella parte meridionale di Khartoum, dove si sono «registrati ripetuti episodi di combattenti entrati armati in ospedale minacciando il personale medico».

Entrambe le parti in campo sembrano fare a gara per aumentare le sofferenze dei civili e ostacolare le forniture di cibo e gli aiuti umanitari, che arrivano difficilmente anche nei Paesi limitrofi – in particolare Sud Sudan, Ciad ed Egitto –, dove si sono riversati quasi tre milioni di profughi, in condizioni disperate.

«La situazione è drammatica – insiste Panozzo –. Le pochissime ONG straniere rimaste in Sudan vengono messe sempre più in difficoltà. A livello di società civile locale, invece, si sono riorganizzate le cosiddette Emergency Response Rooms, comitati di cittadini, che si danno da fare per portare aiuti di prossimità: hanno pochissimi mezzi, provenienti soprattutto dalla diaspora sudanese, e si prendono enormi rischi. Ma svolgono un ruolo fondamentale, anche se non sono formalmente riconosciute e dunque non possono ricevere ufficialmente finanziamenti. Ma se fossero registrate rischierebbero di venire bloccate. È un paradosso. Nonostante tutto, però, rappresentano oggi una delle rarissime luci di speranza in un Paese avvolto nel buio».


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Associated Press / Lapresse

La resistenza dei cristiani

La comunità internazionale «faccia tutto il possibile per far arrivare gli aiuti umanitari necessari agli sfollati e per aiutare i belligeranti a trovare presto strade per la pace». È l’ennesimo appello lanciato da papa Francesco all’Angelus di domenica 26 gennaio: un invito a mettere fine al conflitto che devasta il Sudan ormai da due anni e alle sofferenze della sua gente costretta a fuggire in massa, mettendo a rischio anche la stabilità dei Paesi limitrofi, a cominciare dal Sud Sudan.

«Sono vicino alle popolazioni di entrambi i Paesi e le invito alla fraternità, alla solidarietà, ad evitare ogni sorta di violenza e a non lasciarsi strumentalizzare. Rinnovo l’appello alle parti in guerra in Sudan affinché cessino le ostilità e accettino di sedere a un tavolo di negoziati», ha insistito il Pontefice, una delle poche voci che non si stancano di chiedere pace per questo Paese, dove anche la situazione dei cristiani è più precaria che mai. Non solo, infatti, rappresentano una piccolissima minoranza in un Paese dove il 95% della popolazione è musulmana, ma sono quasi tutti di origine sud sudanese, riparati al Nord (alcuni da diverse generazioni) durante il conflitto con il Sud e ora in fuga nella direzione opposta.

Chiese assaltate e saccheggiate

«I cristiani subiscono quello che patisce il resto della popolazione – commenta padre Diego Dalle Carbonare, superiore provinciale dei missionari comboniani di Sudan ed Egitto. Ma a volte è vero che c’è un accanimento contro il personale e le strutture della Chiesa, soprattutto da parte dei miliziani delle Rapid Support Forces (RSF), che attaccano, saccheggiano, uccidono e stuprano senza guardare in faccia nessuno. Molti di loro non hanno nemmeno idea di chi sia un cristiano o un prete. Sono completamente estranei alle dinamiche di vita urbana dove c’è un minimo di convivenza e pluralismo».

A testimoniarlo è stata, ad esempio, la visita a sorpresa del generale Abdel Fattah Burhan, guida delle Sudanese Armed Forces (SAF), nella parrocchia di Port Sudan a Natale. Ma in gran parte del Paese c’è una situazione di grande confusione. L’unica politica è quella del caos e della distruzione, ma anche dello sfruttamento, in particolare delle miniere di oro, la cui produzione è decuplicata. Entrambi i gruppi armati usano l’oro per pagarsi la guerra. Così come entrambi continuano ad assalire, saccheggiare e bruciare le chiese come parte integrante di un’azione di guerra santa. Non c’è un accanimento dichiarato, ma nei fatti è quello che avviene. Le chiese sono state tutte prese di mira.

Padre Diego, che è arrivato in Sudan dieci anni fa, ha lavorato a lungo a Khartoum nella direzione del prestigioso Comboni College, fondato nel 1929 con scuole primarie e secondarie e fiore all’occhiello della presenza dei comboniani in questo Paese, che è all’origine e al cuore stesso della missione africana di questa congregazione, sin dal tempo di san Daniele Comboni. Del resto, l’educazione è sempre stata una priorità assoluta. Oltre che per il Comboni College – che nel 2001 si è arricchito di un corso universitario di Scienze e Tecnologia – padre Diego ha lavorato anche per l’ufficio dell’educazione della diocesi di Khartoum, che coordinava una cinquantina di scuole. «Di queste oggi ne rimangono in funzione meno di  una decina», fa notare il missionario. Più promettente, invece, la situazione della sezione universitaria della Facoltà di infermieristica, che si è spostata a Port Sudan, grazie anche ai fondi delle Conferenze episcopali italiana e tedesca: in questo momento le lezioni si svolgono soprattutto on line per permettere anche ad alcuni studenti che sono nei campi profughi, in Darfur o addirittura fuori dal Sudan, di proseguire gli studi.

Migliaia di sfollati

«Allo scoppio del conflitto – continua padre Diego – noi comboniani eravamo in venti nel Paese. Adesso siamo rimasti in nove. Abbiamo dovuto abbandonare la casa provinciale di Khartoum e ci siamo in parte trasferiti a Port Sudan, che è diventata a tutti gli effetti la capitale. Anche l’arcivescovo di Khartoum si è spostato qui per qualche tempo, mentre adesso si trova ad Atbara. Un nostro missionario sudanese è rimasto nelle periferie di Khar­toum, dove ha dei familiari. Altri hanno dovuto lasciare anche El Obeid lo scorso luglio, perché la città era ormai assediata. Si sono trasferiti a Kosti, mentre le ultime religiose rimaste, quattro missionarie della Carità e due suore del Sacro Cuore, hanno lasciato a malincuore il Paese. A El Obeid sono rimasti solo il vescovo e tre preti diocesani».

Attualmente, la Chiesa è presente solo nelle zone controllate dalle SAF, mentre in quelle occupate dalle RSF non c’è più nessuna parrocchia attiva. «A Kosti – racconta padre Diego – ci sono il vescovo ausiliare di Khartoum con un prete diocesano e quattro missionari comboniani che portano avanti due parrocchie. Ci sono moltissimi sfollati, che purtroppo devono decidere se fermarsi in un Paese in guerra o proseguire in Sud Sudan, dove la situazione è sull’orlo del baratro».

E proprio dal Sud Sudan è dovuto transitare padre Diego per andare a trovare i suoi confratelli a Kosti, passando da Renk, una delle zone dove continuano a confluire migliaia di persone in fuga. Secondo l’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR) sono oltre un milione quelli che hanno già varcato la frontiera. Di questi, circa 700 mila sono considerati retournees, ovvero sud sudanesi di origine che vivevano nel Nord. Molti di loro però non hanno più niente e nessuno a cui tornare, in un Paese, peraltro, come il Sud Sudan, che è tra i più poveri al mondo, completamente sprovvisto di qualsiasi tipo di infrastruttura, e spesso segnato da conflitti interni. E così, commenta padre Diego, «da una parte come dall’altra della frontiera moltissime persone in fuga portano con sé enormi bisogni e difficoltà».ù

Lo scorso mercoledì 19 marzo, al Centro PIME di Milano, si è parlato di Sudan con Irene Panozzo, analista politica, p. Diego Dalle Carbonare, missionario comboniano a Port Sudan, e Adoum Ismail, rifugiato sudanese in Italia. A questo indirizzo si trova la registrazione dell’incontro. La Fondazione PIME continua ad aiutare coloro che sono fuggiti in Ciad con il Fondo S148 Emergenza profughi Sudan per andare incontro principalmente ai bisogni primari di acqua e cibo (cf. qui per contribuire).

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