Tensioni in Bosnia Erzegovina

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Banja Luka. Nelle ultime settimane, si sono levate diverse voci allarmate che chiedono di intervenire su una nuova crisi che si starebbe aprendo in Bosnia Erzegovina. Il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo d’approfondimento a cura di due analisti della Foundation for the Defense of Democracies dal titolo inequivocabile: “Putin vuole la guerra nei Balcani”.

Alcuni media balcanici hanno rilanciato l’articolo attribuendo la tesi a fonti di intelligence occidentali anziché a degli analisti di think tank, facendo così credere che esso riveli un fatto, quando invece si limita a tracciare un quadro geopolitico basato sull’analisi di una serie di notizie pubbliche. Ciò dà la misura di come gli animi si stiano infiammando nell’ex Jugoslavia e di come i mesi di aprile e maggio rischino di essere cruciali per il futuro del paese. Vediamo perché.

I timori dei serbi

In questa prima metà dell’anno si sono verificati diversi eventi che i serbi percepiscono come una minaccia e che dunque costituiscono un rischio di instabilità per la regione. Tutto sembra cominciare dal problema dell’adesione della Bosnia Erzegovina alla NATO, fortemente voluta dai bosgnacchi e dai croati ma osteggiata dalla Republika Srpska, l’entità a maggioranza serba del paese.

Secondo molti esperti, l’ingresso nell’alleanza atlantica) sembra ormai inevitabile, soprattutto alla luce della guerra in Ucraina che ha rafforzato la posizione dei sostenitori dell’adesione della Bosnia all’organizzazione, data la minaccia russa e la necessità di garantire una stabilità regionale superando le divisioni etniche e politiche interne. Tuttavia, la parte serba, ricordando i bombardamenti su Belgrado negli anni ’90 e il conteso stato del Kosovo, spinge per la neutralità della Bosnia.

All’inizio di febbraio, una delegazione NATO di alto livello, guidata dal Vice Segretario Generale, il rumeno Mircea Geoana, ha visitato Sarajevo per due giorni di colloqui. L’obiettivo era discutere sulle minacce secessioniste che potrebbero mettere a rischio le aspirazioni dell’adesione della nazione balcanica all’alleanza militare occidentale. Il primo giorno, la delegazione NATO ha incontrato due membri della presidenza tripartita bosniaca, Denis Bečirović e Zeljko Komšić. Zeljka Cvijanović, il terzo membro che rappresenta l’entità serba, non ha partecipato all’incontro.

Un altro fatto rilevante accade a metà marzo, quando l’Alto Rappresentante, il tedesco Christian Schmidt, impone una serie di riforme alla legge elettorale bosniaca ponendo fine a una disputa tra i politici locali che durava da più di due anni (Settimana News ne aveva parlato qui). Schmidt ha introdotto una serie di misure significative fra cui spiccano l’esclusione dalla candidatura dei condannati per crimini di guerra, l’adozione di tecnologie avanzate per la scansione e il conteggio delle schede elettorali e l’introduzione di controlli più severi sull’identità degli elettori.

Tali riforme mirano a combattere le numerose frodi e irregolarità osservate nelle scorse elezioni, spingendo il paese verso una maggiore conformità agli standard di trasparenza e al rispetto dello stato di diritto, come richiesto dalla Commissione Europea. Questo impegno verso il cambiamento si è reso particolarmente necessario dopo che, il 12 marzo, la Commissione ha suggerito al Consiglio d’Europa di iniziare i negoziati per l’ingresso della Bosnia nell’UE.

La reazione di Milorad Dodik, il leader nazionalista e filorusso della Republika Srpska, è stata immediata. In risposta agli emendamenti proposti da Schmidt, il governo della Republika Srpska ha adottato una legge propria che estende le competenze della commissione che supervisiona le elezioni locali alle elezioni legislative. Contemporaneamente, ha chiesto lo scioglimento della Commissione Elettorale statale e l’espulsione di alcuni funzionari stranieri, tra cui l’ambasciatore tedesco, accusato di manovrare l’Alto Rappresentante contro gli interessi dell’entità.

Una memoria per Srebrenica

Oltre a tutto ciò, un progetto di risoluzione delle Nazioni Unite che dichiara l’11 luglio “Giornata Internazionale di Riflessione e Memoria del Genocidio di Srebrenica del 1995” sta per essere sottoposto all’Assemblea dell’ONU e sarà votato dai 193 stati membri dell’Assemblea Generale nel mese di maggio. Sebbene il documento non menzioni in nessun punto la Serbia o il popolo serbo, esso ha provocato reazioni accese da parte delle autorità di Banja Luka e di Belgrado. Dodik si è spinto a dichiarare che «la Bosnia Erzegovina potrebbe non sopravvivere» se l’ONU dovesse adottare questa risoluzione. Il 18 aprile si è tenuta una grande manifestazione a Banja Luka con la partecipazione di molti manifestanti venuti apposta dalla Serbia con dei trasporti organizzati.

Il Capo dello Stato serbo Aleksandar Vučić, per parte sua, ha espresso il proprio disappunto per la scelta, percepita come un gesto di sfida, di far votare la risoluzione dall’Assemblea Generale piuttosto che dal Consiglio di Sicurezza, luogo in cui la Serbia avrebbe potuto beneficiare del veto russo, come già avvenuto in passato.

A fine marzo, la commissione Affari politici e Democrazia dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha raccomandato che il Kosovo diventi membro del Consiglio stesso. La commissione ha elogiato gli impegni presi dal Kosovo e ha sottolineato che l’adesione migliorerebbe le norme sui diritti umani nel paese, garantendo l’accesso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Vučić non ha reagito positivamente e ha affermato che la risposta della Serbia all’eventuale ammissione del Kosovo al Consiglio d’Europa sarà energica, senza però entrare nei dettagli e sottolineando che Belgrado è comunque aperta al dialogo.

Il presidente e il patriarca

Di fronte a questa serie di sfide, il Presidente serbo Aleksandar Vučić, il leader della Republika Srpska Milorad Dodik e il Patriarca Porfirije della Chiesa Ortodossa Serba si sono incontrati a Belgrado per una consultazione presentata al pubblico con grande solennità.

Al termine dell’incontro, hanno annunciato l’intenzione di organizzare un’assemblea popolare e di formulare una dichiarazione mirata, secondo quanto dice il comunicato, «alla salvaguardia della sopravvivenza, dello sviluppo economico e della preservazione dell’identità del popolo serbo nelle sue terre storiche». Questo evento è previsto per il 5 e 6 maggio, coincidendo con la Pasqua ortodossa e la festività di San Giorgio.

L’iniziativa che è stata evocata è gravida di suggestioni perché si tratta di un politički i narodni sabor (letteralmente assembla politica e popolare), ovvero un modo tradizionale di prendere decisioni che affonda le sue radici nel Medioevo, quando coinvolgeva solo il Sovrano, la nobiltà e la Chiesa, trasformata nel corso del tempo in una sorta di assemblea generale per discutere del futuro della nazione.

Storici e antropologi vedono il sabor più come un rituale politico e una manifestazione simbolica che come un’istituzione decisionale reale e sono critici verso il tentativo di ottenere legittimità attraverso il richiamo alla storia. Particolarmente famoso è il raduno a Gazimestan, in Kosovo, nel 1989, organizzato dall’allora presidente serbo Slobodan Milošević in occasione del 600° anniversario della Battaglia della Piana dei Merli.

In quell’occasione Milošević fece dichiarazioni che prefigurarono la dissoluzione della Jugoslavia. Per converso, sette anni fa fu annunciata un’altra Dichiarazione sulla sopravvivenza del popolo serbo che avrebbe dovuto essere preparata congiuntamente da Serbia e Republika Srpska, ma quel documento non è poi mai stato pubblicato. La situazione oggi sembra tuttavia essere diversa ed esiste una diffusa preoccupazione che il sabor possa portare a ulteriore polarizzazione politica e influenzare la stabilità regionale.

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