È un momento di grande spaesamento, per molti. Perciò ritengo importante ridefinire al più presto un’azione politico-culturale europea, quanto più condivisa, dinnanzi alla guerra in Ucraina.
L’effetto culturalmente più grave delle guerre è quello di produrre la polarizzazione. Ragione e torto sembrano così definiti, nitidi, netti: ma questo non è mai, pur nell’evidenza di verità indiscutibili. Difficilmente si oppongono il bene e il male in assoluto. Perciò viene chiamata in causa la Seconda Guerra Mondiale: per trovare quella nettezza di cui abbiamo bisogno per scegliere, per schierarci.
Pace, giustizia e… riconciliazione
Da decenni è emerso un campo alternativo – quello pacifista – che tuttavia nessuno sa declinare con certezza davanti alla concretezza dei conflitti. Tale campo, in ogni caso, può esistere solo ove c’è libertà d’espressione.
I pacifisti occidentali possono esserlo in polemica con i propri governi, per i russi non è così. Comunque, il movimento per la pace ovviamente chiede la pace: e chi non la chiede? Putin e Biden non perseguono la “loro” pace? Dunque, il problema è capire di quale pace si stia parlando.
Colpisce la rimozione del vocabolo “giustizia”, accanto a pace. “Pace e giustizia” dovrebbero essere inscindibili, sebbene ancora insufficienti a risolvere la disputa: tutte le propagande si ammantano pure dell’ordine giusto.
Occorre, dunque, un riferimento aggiuntivo. Provo a dire: «pace e giustizia e riconciliazione». La riconciliazione va spiegata. Nessuno voleva la riconciliazione con Hitler nella guerra divenuta modello di tutte le guerre “giuste”.
Potremmo allora aggiungere che la pace giusta nella riconciliazione è quella che ripristina il diritto internazionale e, soprattutto, i diritti universali degli esseri umani, una cosa ben diversa dalla fine delle operazioni belliche. Ma da questa fine bisogna necessariamente passare, sapendo che, per fare la pace, non è affatto indifferente il momento in cui si smette di sparare. Penso che l’orizzonte indicato sia quasi impossibile da raggiungere, ma che debba restare tendenziale: in assenza di quello, qualsiasi orrore potrebbe essere scambiato per la pace.
No alla pace dei sottomessi
La migliore scioltezza dello stretto nodo la trovo scavando nei miei ricordi, nelle mie emozioni, tornando all’inizio del dramma siriano. In quei tempi, il patriarca maronita, il card. Beshara Rai, ritenne di compiere un viaggio senza precedenti, a Damasco. Nel gelo storico tra maroniti e regimi di Siria, quel viaggio si pose come davvero storico. Arrivava, forse, nel momento più drammatico: quello dello scontro tra gran parte del popolo siriano e il regime di Assad. Era ormai guerra civile.
In quella circostanza Beshara Rai disse che la vita è il dono più grande e che chiedere libertà e giustizia – se comporta la perdita anche di una sola vita umana – non vale quanto quella vita.
Tale è la pace nel silenzio, ovvero la pace dei sottomessi: seducente, ma io non posso essere d’accordo. Nei tormenti della coscienza, c’è l’onesta intellettuale con sé stessi e con gli altri.
Saddam, Kuwait, Bosnia
Per andare più a fondo, faccio un altro esempio, molto più scomodo: cosa fu la lunga guerra contro Saddam Hussein. La scelta di George W. Bush fu fondata sull’imbroglio dell’antrace. Le immagini di Colin Powell con la fialetta di veleno in mano, al Palazzo di Vetro, sono entrate nella storia.
La democrazia non si esporta certamente con le baionette e neppure con le menzogne! Ma i crimini contro l’umanità di Saddam restano pure tali! Lasciare indisturbato il manovratore era una scelta impossibile, come aveva indicato la scelta di Bush padre dopo la liberazione del Kuwait, nel 1991.
Non proseguì su Baghdad, e chi contestò il tiranno sconfitto in Kuwait – curdi e sciiti in primo luogo – fu massacrato senza pietà: donne, anziani e bambini inclusi.
Ricordo, in proposito, il racconto dell’allora pacifista Roberto Formigoni che incontrò Saddam nel 1990, dopo l’invasione del Kuwait: chiese il rilascio degli ostaggi internazionali che Saddam avrebbe posto “a difesa” delle sue installazioni strategiche. In quell’occasione Saddam disse a Formigoni e alla delegazione pacifista che il Kuwait non è mai esistito, perché parte dell’Iraq.
Non è la stessa tesi, ora, di Putin sull’Ucraina? Il nazionalismo imperialista non conosce il diritto internazionale, non conosce la legalità. Saddam rilasciò tutti gli ostaggi nelle mani di Formigoni, ma solo per difendere – influenzandoci – la sua pretesa imperiale.
Pochi non convengono che il Kuwait sia uno stato inventato dai giochi delle potenze coloniali, ma esisteva – esiste tuttora – ed è riconosciuto dall’ONU. Un criminale può calpestare il diritto internazionale?
Il Kuwait, a mio avviso, è l’esempio opportuno a dimostrare la necessità della formula «pace giusta per una riconciliazione che rispetti il diritto internazionale e i diritti dell’uomo».
Saddam resterà sempre un responsabile di crimini contro l’umanità, dal suo primo giorno di governo all’ultimo, ma questo non può portarci dove è arrivato nel 2003 Bush figlio, perché anche quella è violazione del diritto internazionale, e non solo.
Stessa è l’essenza degli accordi di Dayton sulla Bosnia, stipulati con Milosevic. Sappiamo bene che, allora, non si è fatta la pace con giustizia e riconciliazione, si è rimosso il problema: a tempo.
Il discorso è molto complesso, ma gli approcci sono diversi: costruzione della pace o soluzione di un problema? Il compromesso può esserci, ma bisogna sapere che siamo davanti a due poli, l’uno non deve escludere l’altro.
La lezione di padre Dall’Oglio
Chi mi ha fatto capire la differenza di fondo tra i due approcci è stato padre Paolo Dall’Oglio, scrivendo della missione in Siria di Kofi Annan e quindi degli osservatori dell’ONU, nel 2011: «In occasione degli incontri con gli osservatori, mi sono reso conto di un certo scetticismo nella volontà di operare affinché i popoli abbiano diritto alla democrazia. Kofi Annan voleva una soluzione. Per lui l’essenziale era fermare i combattimenti, non fare la pace nella giustizia. È un rassegnarsi di fronte al gioco politico».
Dall’Oglio aveva ragione, anche nel passaggio più drammatico, connesso, quando chiese a Kofi Annan e al mondo una cosa molto sensata: «Ho reclamato una forza di interposizione non violenta dell’ONU e la venuta di cinquantamila attori nonviolenti della società civile mondiale, i quali avrebbero potuto in certi casi, con l’aiuto della polizia siriana, garantire l’espressione della libera opinione dei siriani».
Questa libertà di espressione era stata formalmente accettata da Assad, per tenersi buona l’ONU. Ma i cinquantamila attori nonviolenti si sono mai visti? Chi ne ha più parlato? Era una speranza che il piano di pace di Kofi Annan, teoricamente, avrebbe reso possibile, se qualcuno ci avesse davvero creduto. L’orizzonte tendenziale della pace, nella giustizia e nella riconciliazione, era quello, non l’ennesima legittimazione del regime di Assad. Chi ricorda – anche tra i pacifisti – la proposta di padre Dall’Oglio?
Piantare in Ucraina tende di pace
Penso basti questo per dire due cose: ai pacifisti, di non limitarsi all’orizzonte della soluzione del problema nostro e, agli interventisti “puri”, di superare l’astratto idealismo. Ad entrambi suggerisco, sull’Ucraina, la proposta che fece Dall’Oglio, per avvicinare i popoli. Ai pacifisti chiedo: come si può fermare la guerra in Ucraina senza andare lì? Ai bellicisti: salvare l’Ucraina non vuol forse dire anche evitare che il loro Paese sia totalmente distrutto?
La domanda di base, per me, è ora la seguente: se l’Ucraina non fosse stata armata tramite il suo legittimo governo, la storia sarebbe presto finita con la capitolazione o con la nascita di altri gruppi del tipo del battaglione di Azov (definito dai più di estrema destra o neonazista)?
Non guardare dritto negli occhi la realtà significa che non interessa la pace, ma la soluzione di un problema. Certo: il problema è enorme. Molto più che in Siria, posto che la Russia dispone di armi nucleari. Ma ciò non può bastare a farmi accettare la pace del silenzio. Non l’accetto io? No, non l’accettano i popoli.
Dunque, in Ucraina il rischio sta nell’escalation, ma anche nella perdita dell’orizzonte della giustizia, una tendenza che definirei “verso l’Europa dei popoli”.
Per questo va avviato un processo lungo e difficile. Unire l’Europa, compresa quella che ricorda i drammi del socialismo reale, richiede un grande impegno, con attivisti impegnati e personalità di spicco pronte a piantare le loro tende di pace – non idealmente ma concretamente – in Ucraina.
Mi si dirà: dove cadono le bombe? Eh, sì, certo! Altrimenti, dove? Solo una mobilitazione di tal fatta testimonierebbe il desiderio più profondo di una pace che non rimuove la tendenza alla libertà, alla riconciliazione e alla giustizia.
Farlo oggi in Ucraina – almeno sul piano pratico, ma anche culturale, visto che in Ucraina la questione islamica c’entra poco – sarebbe più facile che dieci anni fa in Siria.
Francesco non ha forse sollecitato il movimento per la pace a pensare anche le cose impossibili? Non potrebbe aver pensato anche a cose così?
Un dubbio: perché 1.000 o 10.000 pacifisti distribuiti nelle località bombardate dall’esercito russo, dovrebbero provocare un ripensamento da parte dell’aggressore? Avremmo probabilmente un numero più alto di vittime. Non sarebbe difficile per la propaganda russa accusare i pacifisti di essersi schierati a fianco degli “aggressori” occidentali…
Anche l’interposizione tra due eserciti di una forza di pace, tanto più se disarmata, prevede un accordo
preventivo tra le parti.