Questo finale di anno invita al pessimismo sulle sorti dell’Ucraina. Ma almeno ci costringe a risolvere qualche equivoco, a separare la tregua dalla resa, a definire gli obiettivi del sostegno militare all’Ucraina o a giustificare il disimpegno.
Nei giorni scorsi Il Fatto Quotidiano ha titolato a caratteri cubitali «Abbiamo perso la guerra», come se a Bruxelles Volodomyr Zelensky fosse andato a incontrare i leader europei per annunciare la resa. Non è così. Zelensky è andato a chiedere molte più armi, subito, per continuare a combattere. Ha semplicemente riconosciuto un’ovvietà, che peraltro gli ucraini ammettono da oltre un anno: che in questo momento non sono in grado di riconquistare le regioni occupate dalla Russia, Crimea e Donbass.
Non è la volontà che manca, ma le armi, il sostegno occidentale. Quell’interpretazione del Fatto Quotidiano, rilanciata da molti sui social e in televisione, si basa su un equivoco: la guerra di Zelensky dal 24 febbraio 2022 non è una guerra irredentista, il punto non è riprendere regioni occupate, ma evitare il crollo dello Stato, la capitolazione dell’Ucraina (e, dettaglio non irrilevante, l’uccisione del suo presidente)
Perché Vladimir Putin ha occupato il Donbass come tappa verso la conquista dell’intero Paese: in inglese si usa sempre l’espressione full scale invasion per descrivere l’operazione lanciata ormai quasi tre anni fa, proprio per distinguerla dall’annessione comunque illegale della Crimea nel 2014.
Cosa vuole Putin
Putin non ha alcun interesse a un compromesso territoriale, e lo ha già dimostrato e dichiarato molte volte, l’ultima nel discorso di fine anno seguito alla trasferta di Zelensky a Bruxelles: la Russia sta vincendo sul campo, ha sostenuto, dunque non c’è ragione di fermarsi. E in ogni caso, lui non è disposto a trattare con Zelensky ma soltanto con il Parlamento ucraino: la motivazione è risibile, Zelensky non è un presidente legittimo perché ha sospeso le elezioni presidenziali previste per il 2024.
Ovviamente le elezioni sono state sospese perché l’Ucraina è in guerra con Putin, un leader che vince elezioni truccate da 25 anni. E sarebbe una situazione ben bizzarra quella nella quale un capo di Stato con pieni poteri trattasse con un parlamento, invece che con un omologo: già questa richiesta indica che Putin non ha alcuna intenzione di trovare compromessi territoriali, perché la sua guerra è sempre stata per contestare la sovranità dell’Ucraina e abbattere il suo governo-filo occidentale per tornare ai bei tempi andati di governi manovrati da Mosca.
Putin non vuole una Ucraina divisa in due, vuole un’altra Bielorussia sotto il suo pieno controllo. Il presidente russo è disposto a parlare e incontrare Donald Trump, e ci mancherebbe pure: per Putin, un criminale internazionale che rischia l’arresto in ogni Paese che riconosce la giurisdizione della Corte penale internazionale, un vertice con il presidente degli Stati Uniti sarebbe un prezioso riconoscimento di legittimità.
Ma Putin non ha mai detto o dimostrato di essere pronto a congelare il conflitto o a discutere una pace. È pronto ad accettare la capitolazione dell’Occidente, certo, questo sì. Ma neppure la resa dell’Occidente e il sacrificio dell’Ucraina fermerebbe la guerra.
Alcuni pacifisti, spesso anche in buona fede, pensano che basti dire: «Caro Putin, tieniti pure il Donbass e la Crimea, lasciamo l’Ucraina fuori dalla NATO per sempre e siamo a posto così». Ma per quale ragione Putin dovrebbe fermarsi?
Putin ha già dimostrato di avere un’agenda molto più ambiziosa della sola Ucraina: Mosca sta cercando di sottrarre all’influenza europea e occidentale la Georgia, Paese candidato a entrare nell’Unione Europea entro il 2030, sostiene la Serbia nel suo tentativo di spaccare la Bosnia e far deragliare l’ingresso nell’UE dei Balcani occidentali, ha lanciato operazioni di interferenza nel voto presidenziale in Romania che hanno spinto la Corte costituzionale locale a invalidare le elezioni, usa la Bielorussia per tenere in costante allarme la Polonia, soprattutto con l’uso dei migranti spinti verso il confine come fossero armi umane.
Indietro non si torna
Inoltre, Putin ha riconfigurato l’economia della Russia in modalità di guerra: non è realistico pensare che possa tornare alla normalità da un giorno all’altro se Stati Uniti, NATO e UE riconoscessero qualcosa che Putin considera già acquisito, cioè il controllo sulle regioni ucraine del Donbass.
Come scrivono Andrea Kendall-Taylor e Michael Kofman su Foreign Affairs, Putin ha riorientato la sua economia intorno allo sforzo bellico: la spesa militare è il più del doppio che nel 2021, 145 miliardi nel 2025 contro 66.
Le fabbriche si sono riconvertite alla produzione militare, i lavoratori si sono spostati dal settore civile a quello bellico, il welfare ruota ora intorno agli indennizzi alle famiglie delle vittime, che consentono di fare spesa pubblica assistenziale in regioni remote senza troppe conseguenze sull’inflazione, visti anche i tassi alti imposti dalla Banca centrale russa che evitano il crollo del rublo.
Un equilibrio fragile, sempre sul punto di crollare perché aumentano le spinte inflazionistiche e quelle al ribasso sul rublo, ma un equilibrio che per ora regge.
Le entrate per lo Stato non sono un problema finché l’India, la Cina e la Turchia comprano il petrolio russo che gli Stati occidentali non comprano più dopo la guerra.
Secondo argomenti molto diffusi nel mondo pacifista anche italiano, sarebbero i Paesi occidentali a voler proseguire la guerra, a spingere per una specie di conflitto permanente con la Russia in nome di qualche ossessione ideologica o vantaggio economico.
È vero il contrario, è la Russia che non ha alternative alla modalità di guerra. Per le imprese occidentali le sanzioni sono un problema, tanto che vengono spesso aggirate passando da Paesi che fanno da intermediari, come il Kazakistan.
La necessità di un riarmo per arginare le aggressioni della Russia o anche soltanto per recuperare qualche forma di deterrenza, è un gigantesco problema politico per tutti: gli Stati ad alto debito non possono davvero permetterselo, l’Italia è ferma all’1,5 per cento del PIL di spesa militare mentre la NATO discute se innalzare la richiesta di contributo minimo dal 2 al 3 per cento.
La Germania ha superato il 2 per cento, ma è stretta tra una crisi economica e una cultura del bilancio in pareggio, una tensione che ha portato alla caduta del Governo Scholz e a elezioni anticipate in febbraio.
La Francia è in una crisi politica permanente che si intreccia con una finanza pubblica fuori controllo che rende il Paese incapace di guidare uno sforzo militare convinto.
Soltanto i Paesi dell’Est, guidati dalla Polonia, hanno intrapreso una decisa via del riarmo, ma sono dipendenti dalle scelte degli Stati Uniti e ora si trovano in balia dell’imprevedibile Donald Trump.
La guerra sta facendo esplodere l’Unione Europea: senza una tregua, bisognerà trovare le risorse anche soltanto per evitare il tracollo dell’Ucraina, in caso di tregua bisognerà trovare gli uomini per formare una forza di peacekeeping a guardia del confine della quale gli Stati Uniti non vogliono farsi carico.
Ma dove si trovano 40.000 soldati, o forse 100.000, disposti a presidiare 2.000 chilometri di frontiera di guerra tra le due parti dell’Ucraina? Quanti governi sono disposti a bloccare lì il grosso delle proprie forze armate con l’obiettivo, nella sostanza, di farsi sparare addosso?
L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea, Kaja Kallas, ha detto nei giorni scorsi che «non ha senso spingere Zelensky a trattare se Putin non vuole trattare». E sui militari da usare come peacekeeper, Kallas sottolinea l’ovvio, cioè che se non c’è alcuna pace non servono militari che la difendano.
Al momento sostenere militarmente l’Ucraina è la soluzione più conveniente, anche per l’UE, tutte le alternative sono peggiori, sostiene Kaja Kallas. Ma se il sostegno non è neppure sufficiente a resistere, serve a poco.
In nome della pace, molti anche in Italia sono disposti cedere qualunque cosa a Putin pur di evitare l’estensione della guerra, anche a esporre al rischio di invasione il fianco Est dell’Europa: la premessa a questa arrendevolezza è che nessuna concessione è eccessiva, perché tutte sono legittime visto che l’aggressione di Putin si spiega con l’eccessiva estensione della NATO.
Quello che però sfugge al partito della resa – più corretto definirlo così che della pace – è che la Russia e Putin non sono più completamente padroni del loro destino: come ha ricordato nei giorni scorsi il segretario di Stato americano uscente, Antony Blinken, in un dibattito al Council on Foreign Relations, se la Russia continua a combattere è grazie all’Asia.
Putin può tenere insieme lo Stato grazie ai soldi che arrivano da India e Cina per comprare il suo petrolio, grazie ai soldati Nord Coreani che muoiono ora nella regione russa di Kursk controllata dall’Ucraina, grazie ai droni forniti dall’Iran. Non è più Putin che agisce nel resto del mondo, come dimostra la sua incapacità di sostenere il regime vassallo di Bashar al-Assad in Siria, è il mondo non-occidentale che agisce in Ucraina attraverso Putin.
Questo rende ogni ipotesi di tregua più complessa, perché non si tratta di negoziare soltanto il nuovo assetto del Donbass, ma si tratta di definire nuovi equilibri in tutte le aree connesse al conflitto ucraino. Il Medio Oriente, l’indopacifico, Taiwan.
L’equazione, insomma, ha molte variabili. E a complicare il tutto c’è che gli interessi vitali di Stati Uniti ed Europa iniziano a divergere: Trump vuole disimpegnarsi dall’Ucraina mentre l’Unione Europea non può farlo, gli Stati Uniti promettono guerra commerciale alla Cina mentre l’UE non può permetterselo e forse non ne ha convenienza, visto che una maggiore chiusura dell’economia americana favorisce l’integrazione di quella europea con cinesi, indiani o mercati sudamericani, come dimostra la recente firma del trattato UE-Mercosur.
Insomma, l’esultanza di alcuni pacifisti per la fine imminente delle ostilità è una reazione che può anche essere umanamente comprensibile, ma è quantomeno prematura.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 22 dicembre 2024