Il modello espansionistico della Russia di Putin e l’afasia della Chiesa ortodossa di Mosca caratterizzano l’aggressione militare all’Ucraina.
Dopo un lungo e teso discorso televisivo e dopo il riconoscimento dell’indipendenza delle regioni di Donetsk e di Lugansk (Donbass), il 21 febbraio il presidente russo ha ordinato ai militari di oltrepassare il confine.
Il modello di conflitto post-sovietico
Era già avvenuto nel 1992 rispetto alla Moldova (russificazione della Transnistria). Si è ripetuto con Putin nel 2008 nella guerra russo-georgiana (occupando parte dell’Ossezia e dell’Abcazia) e ancora nel 2014 nell’occupazione militare della Crimea (sottratta all’Ucraina).
Putin crea alle sue frontiere nuove formazioni “statali” che, da un lato, bloccano questi territori in una funzione di cuscinetto e, dall’altro, avvelenano i rispettivi paesi nel loro cammino democratico e nel riscatto economico. Sempre sottomessi alla minaccia del grande vicino. Ma soprattutto alimentano la pretesa della “grande Russia”, del ritorno ai territori e ai condizionamenti dell’Unione Sovietica.
La fine dell’Unione è per il presidente russo la grande tragedia del secolo a cui è necessario porre rimedio, anche stracciando i patti bilaterali e multilaterali firmati (come l’accordo sui missili a media gittata – peraltro annullati anche da Trump – e il trattato sulle forze convenzionali in Europa).
L’espansione della Nato (alleanza atlantica) è invocata per rafforzare le difese russe e per indebolire la forza di attrazione dell’Unione Europea. Come ha detto l’arcivescovo greco-cattolico Borys Gudziak (responsabile per il Nord-America), la ragione dell’aggressione russa non è l’opportunità di uno sbocco militare sul Mar Nero.
Non è la difesa dei russofoni «perché i russofoni costituiscono la maggioranza dell’esercito che difende l’Ucraina e sono quelli uccisi dai razzi e dai cecchini. Essi sono la maggioranza delle 14.000 vittime negli otto anni di guerra». Non si tratta neppure della difesa della Chiesa ortodossa di obbedienza russa, «perché molte delle persone uccise sono state battezzate nella Chiesa ortodossa russa». Il vero motivo «è perché l’Ucraina è una democrazia nascente e, per molti versi, vivace».
Un paese in transito dal totalitarismo alla libertà è intollerabile ai confini russi perché quanto succede a Kiev potrebbe succedere a Mosca. Fra i primi risultati dell’operazione miliare vanno registrati il ricompattamento dell’alleanza atlantica (Svezia e Finlandia avviano la domanda di ingresso), la convergenza nell’Unione Europea, la rinnovata centralità degli Stati Uniti.
Ma anche l’attesa su dove si fermerà l’esercito russo, sul rafforzamento dei nazionalismi di destra dei paesi vicini (Polonia, Lituania, Estonia), su quale legittimazione fornirà alla Cina per procedere all’occupazione di Taiwan.
Preghiera e pace
Il clima di guerra ha obbligato, soprattutto le Chiese, a rafforzare la predicazione della pace. Papa Francesco ha chiamato tutti i cattolici a una preghiera per l’Ucraina il 26 gennaio, come aveva fatto per il Libano nel 2020.
Tre giorni prima ha detto: «Seguo con preoccupazione le tensioni crescenti che minacciano di infliggere un nuovo colpo alla pace in Ucraina e rimettono in causa la sicurezza del continente europeo, con ripercussioni molto più larghe». «Com’è triste, quando persone e popoli fieri di essere cristiani vedono gli altri come nemici e pensano a farsi la guerra!».
Sulla stessa onda il nunzio in Ucraina, mons. Visvaldas Kulbokas, il card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, il Consiglio delle conferenze episcopali europee, il patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo, («chiediamo pace, stabilità e giustizia durature nella regione»), la presidente della Chiesa protestante tedesca, Annette Kurschus. I vescovi polacchi, forti della vicinanza all’anti-occidentalismo russo e ai rapporti storici con l’Ucraina, propongono, con qualche ambizione, un incontro di tutte le confessioni interessate al conflitto.
Dall’interno dell’Ucraina le invocazioni alla pace si moltiplicano. Il patriarca ortodosso Epifanio (Chiesa autocefala) denuncia la minaccia russa e invoca pace. Il vescovo latino di Kiev, Vitalii Kryvytskyi, afferma che non vi è panico, ma molti pensano a trasferirsi nelle regioni occidentali del paese. L’arcivescovo maggiore degli ucraini (greco-cattolici), Sviatoslasv Shevchuk, afferma: «La gente dice che, se il papa viene in Ucraina, la guerra finirà». Il vescovo greco-cattolico Tuchapets guida la recita quotidiana del rosario per la pace nella sua eparchia.
L’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andriy Yurash, ricorda che il governo è favorevole a colloqui diretti fra Ucraina e Russia in territorio neutro come il Vaticano. Il 16 febbraio, proclamata giornata dell’unità nazionale, il Consiglio pan-ucraino delle religioni si riunisce nella cattedrale di Santa Sofia a Kiev per una preghiera comune.
Da parte della dirigenza ecclesiale russa, normalmente assai loquace, un sostanziale silenzio. Un silenzio che vede allargarsi il fossato fra le due Chiese ortodosse ucraina, quella filorussa (vescovo Onufrio) e quella autocefala (vescovo Epifanio). Le ultime indagini demoscopiche danno la maggioranza della popolazione ortodossa a quest’ultima Chiesa. La frattura ecclesiale del 2019, con la concessione dell’autocefalia da parte di Bartolomeo, ha alimentato i reciproci sospetti.
Dalla parte politico-ecclesiale filorussa è giunto l’allarme per un ipotizzato concordato fra Ucraina e Santa Sede. Sarebbe, dicono, una ulteriore ferita alla relazione reciproca fra le confessioni. Mons. Borys Gudziak conclude: «Che la Chiesa ortodossa russa cammini a braccetto con l’aggressivo assalto militare a un paese e a una società democratica è davvero sbalorditivo».
Russkiy-mir e sogno imperiale
A parte il caso dei vescovi ortodossi del Donbass direttamente coinvolti, come mons. Hilarion di Mariupol che ha chiesto ai monasteri di aprire le porte ai profughi, da Mosca, solitamente interventista, giungono poche parole. Mons. Hilarion, presidente del dipartimento per le relazioni estere del patriarcato, dà per assodata la distanza fra le due repubbliche autonome del Donbass e l’Ucraina e invoca la ripresa dei dialogo fra le parti, spostando la questione sul conflitto fra Russia e Occidente.
La piena adesione della Chiesa ortodossa russa alla politica di Putin viene ulteriormente rafforzata. Nessuna voce della dirigenza ecclesiale si è alzata per porre interrogativi sugli interventi in Georgia, in Azerbaigian, in Ucraina (prima per la Crimea, oggi per il Donbass). In qualche maniera la cupola ecclesiastica, e in particolare il patriarca Cirillo, ha anticipato il progetto governativo, teorizzando il Russkiy-mir (pensiero russo), cioè l’estensione della responsabilità moscovita sulle Chiese delle nazioni che prima facevano parte dell’Unione Sovietica e sui territori più o meno prossimi.
Sopportato a fatica il caso georgiano (sede di un antico patriarcato), un pronto intervento (la rapida sostituzione del vescovo metropolita) ha appianato il pericolo di scissione in Bielorussia. La sconfitta ucraina (autocefalia) è tutt’altro che digerita. I confini geografici sono stati così ripetutamente definiti da mons. Hilarion: Russia, Ucraina, Bielorussa, Moldova, le ex Repubbliche asiatiche, Lettonia, Lituania, Estonia (oltre a Giappone, Cina e Mongolia).
Più recentemente, l’apertura di un esarcato per l’Africa. Il 2 febbraio mons. Hilarion ha ricevuto da Putin una delle più importanti onorificenze russe, l’ordine di Aleksandr Nevskij. In quell’occasione si è così espresso: «Il nostro dipartimento è talvolta chiamato ministero degli affari esteri della Chiesa. Il che non è esatto perché non ci occupiamo solo di affari esteri, ma anche di relazioni interreligiose nella nostra patria. E negli ultimi anni ci sentiamo sempre più una sorta di dipartimento di difesa, perché dobbiamo difendere le sacre frontiere della nostra Chiesa».
«La Chiesa russa si è formata nel corso di più di dieci secoli e l’abbiamo ereditata entro i confini in cui è stata creata. Non l’abbiamo creata noi e non possiamo distruggerla. Per cui continueremo a resistere alle sfide esterne che dobbiamo affrontare oggi».
Putin parla come Cirillo
Putin, nel discorso fiume accennato all’inizio, dopo avere accusato il governo e la dirigenza ucraina di essere un regime di marionette, corrotto, neofascista ed economicamente alla bancarotta, si è fatto paladino della libertà religiosa, invocando la difesa della Chiesa ortodossa ucraina filo-russa, con gli stessi argomenti usati dal patriarcato: «Le autorità ucraine hanno cinicamente trasformato la tragedia della scissione della Chiesa in uno strumento di politica statale. L’attuale dirigenza del paese non risponde alle richieste dei cittadini (ortodossi filo-russi) di abrogare le leggi che violano i diritti dei credenti».
Anzi vi sono nuovi progetti di legge punitivi nei confronti della Chiesa che fa riferimento a mons. Onufrio. «Kiev sta continuando a preparare un giro di vite contro la Chiesa ortodossa ucraina del patriarcato di Mosca».
Oltre al Russkiy-mir (pensiero russo), pesa la lunghissima tradizione ortodossa della «sinfonia» tra Chiesa e stato, Chiesa e potere. Nella lunga storia dell’ortodossia non c’è un’elaborazione del possibile conflitto fra potere civile e potere ecclesiale. E, pur sperimentando periodi assai lunghi di persecuzione (come nel caso del regime sovietico), non ha ancora costruito una dottrina in merito, a parte un testo russo sulla dottrina sociale del primo decennio del secolo e un secondo, più recente, esito del concilio di Creta.
Il futuro dell’ecumenismo
Se lo scisma intra-ortodosso ha alimentato il conflitto russo-ucraino, l’uno e l’altro mettono in seria difficoltà il cammino ecumenico delle Chiese, che è oggi, in gran parte, in capo alla Chiesa cattolica.
È vero che il papa può parlare con tutti gli ortodossi e che le altre confessioni cristiane favoriscono lo sforzo ecumenico, ma lo scisma fra ellenisti e slavi ortodossi ridisegna i colloqui (sempre meno possibili quelli teologici) e ridefinisce gli appuntamenti come l’atteso secondo incontro con il patriarca Cirillo. Il papa non potrà ignorare il caso ucraino.
Ma forse è proprio il disastro umano già in atto (14.000 vittime, un milione e mezzo di profughi) e che un ampliamento della guerra esplodere ulteriormente che costringerà tutti i credenti a quei rapporti di stima e di vicinanza, di aiuto e di comprensione, di preghiera e di perdono che permetteranno di ascoltare l’imperativo di Gesù all’unità della sua Chiesa.
Grazie a Lorenzo Prezzi per l’articolo sempre intelligente e ben documentato, attenzione però: Epifanio della Chiesa autocefala non è patriarca.
Preghiamo!
Il nodo critico per le Chiese ortodosse, e russa in particolare, è a ragione dall’articolo identificato nella mai maturata distinzione tra potere religioso e secolare nel modo ortodosso. Quanto deleteria ed evangelicamente insostenibile sia la commistione tra Cesare e Dio, la Chiesa latina lo ha compreso nella storia con grande fatica ma alla fine con innegabili benefici. È una tragedia la guerra e lo è ancora di più quando le religioni ed i loro rappresentati non rompono tutte le ambiguità al riguardo finendo (più o meno inconsapevolmente) per essere ostaggi di più ampi (e meno nobili) interessi geopolotoco ed economici. La speranza è da questa tragedia tutte le Chiese capiscano che in ballo non ci sono conflitti di civiltà e culture o conflitti di natura giurisdizionale, ma molto più semplicemente la difesa della vita umana e la credibilità della loro missione di annuncio e testimonianza del Vangelo