L’invasione russa dell’Ucraina sta ricreando le basi di una politica continentale e transatlantica, ma anche sta aiutando a gettare le fondamenta di un nuovo sistema di valori e tradizioni che uniscono più di ieri una parte del mondo.
Atto I: la Germania
Uno degli obiettivi del presidente russo Vladimir Putin all’inizio dell’invasione dell’Ucraina era spaccare l’Unione Europea (UE) e, in generale, il vecchio continente in un fronte (più forte) favorevole a Mosca e lontano da Washington e un altro (più debole) favorevole a Washington e lontano da Mosca.
Il primo, a grandissime linee, poteva avere tre centrali, Germania, Italia e Francia; il secondo era di paesi ex sovietici più eventuali frange di altri paesi europei. I secondi si sarebbero piegati sotto la morsa congiunta da est e ovest.
A grandi linee, somigliava ad accordi antichi o più recenti che spartivano il centro Europa tra un impero russo e imperi tedeschi, prussiani o austroungarici. Il piano agiva su antichi sentimenti e percezioni e opponeva l’idea di una storia secolare a quella di una storia nuova, tutta da inventare, per un’Europa diversa.
Il piano, come si è visto, è fallito. Ciò non toglie che linee di frattura in Europa continuino a esistere e possano allargarsi anche al di là della fine della guerra in Ucraina.
Infatti, l’attacco russo ha messo in luce una ferita profonda della strategia tedesca ed europea degli ultimi 30 anni. A Berlino e a Bruxelles, ma anche a Parigi e tanto più a Roma, pensavano che la politica, la realpolitik, inventata dai tedeschi come dice il nome, avesse smesso di esistere e solo l’economia avrebbe dominato il mondo.
Così la Germania ha fatto una doppia scommessa di legarsi alla Russia per la fornitura di energia a basso costo e alla Cina come base produttiva e di mercato. Una scommessa politica che poteva anche essere giusta 30 anni fa, ma compiuta senza hedging the bets, senza assicurazioni.
Cioè la Germania, e per estensione l’intera Europa che gravita economicamente su Berlino, ha smesso gradualmente di considerare alternative agli investimenti politico-economici in Russia e in Cina.
I motivi sono stati tutti ragionevoli e ragionati al momento, ma oggi si rivelano errati, purtroppo per la Germania e per tutta l’Europa, che le va al traino.
Oggi non solo sono a rischio le forniture di energia russe, ma anche il mercato cinese. Perché, a meno che la Cina non cambi rapidamente e radicalmente rotta, dopo la guerra in Ucraina, ci sarà un decoupling economico con Pechino, e Pechino ne è cosciente[1].
Infatti, come non si possono più azzardare forniture energetiche da paesi “a rischio”, così paesi “a rischio” come la Cina non possono più essere nella catena delle forniture.
Tale decoupling non avverrà solo per volontà degli USA, ma per pressioni crescenti di paesi asiatici che vedono un’opportunità di crescita nell’ospitare investimenti in fuga da Pechino. E perché qualunque gnomo finanziario di Zurigo aumenterà interessi ed elementi di rischio per avventure legate alla Cina.
Questo è il prossimo futuro per Berlino mentre già il presente incalza. L’inflazione a due cifre non riporta solo a scenari di panico di cento anni fa, quando la crisi economica fu lo scivolo che diede il potere a Hitler, ma è realtà concreta.
Solo la metà dei tedeschi possiede una casa e quindi l’inflazione, con gli aumenti degli affitti, incide di più che in Italia dove oltre l’80% possiede la casa in cui vive. Questo dipende a sua volta da molte cose, tra cui tasse più alte sulla proprietà degli immobili a Berlino rispetto a Roma, e una diversa propensione al risparmio privato, minore in Germania, maggiore in Italia, forse dovuta anche alla fiducia nello stato, più in Germania, meno in Italia.
Questo errore di strategia, quindi, arriva nel profondo delle cellule dell’organismo tedesco. Così, mentre gli italiani, più scettici dello stato, sono più pronti anche psicologicamente ad affrontare una crisi, i tedeschi più fiduciosi del loro governo, lo sono meno.
D’altro canto, la storia degli ultimi decenni ha mostrato che la Germania non ha avuto bisogno di aiuti esterni, mentre altri paesi ne hanno avuto necessità. Quindi, cosa farebbero gli altri europei di fronte a una grave, eclatante crisi tedesca? Forse niente?
I duecento miliardi del fondo per il caro-gas e la resistenza fino a ieri per il price-cap sul gas, pietra importante sulla strategia pro Russa ma anche ipoteca sulla strategia pro Cina, forse rispondono anche a questo groviglio di sentimenti e di percezioni.
Atto II: il regno di Polonia-Ucraina
D’altro canto, paesi ex sovietici come la Polonia o la Repubblica Ceca si sentono vendicati nella loro militanza anti russa. Inoltre, come documenta John Pomfret nel suo From Warsaw with Love, la Polonia è legatissima agli USA.
Infine, l’economia polacca corre, non è nell’euro e, dopo la guerra, con l’Ucraina potrebbe creare un asse politico formidabile che sposterebbe molti equilibri europei, specie con la crisi della Germania.
Con la crisi della Germania entra in crisi anche la Francia, e l’Italia, già di per sé debole, che fine fa?
Ciò poi non è solo una questione di politica estera, si mischia con scelte di politica interna. Polonia e Repubblica Ceca, viste da Bruxelles, vanno verso una deriva autoritaria, che non piace a Berlino o a Parigi.
Né il nuovo assetto concordante, che scende da Svezia-Finlandia e passa dai Baltici e dalla Polonia e precipita verso l’Ucraina, la Romania e la Bulgaria, può essere una riedizione del potere del ’500-’600 che spaccava l’Europa secondo direttrici diverse di quelle franco-tedesche.
Tale deriva sembra incoraggiare forze oltranziste che in Francia hanno sfiorato il potere e che in Germania potrebbero crescere. Del resto, il 28 ottobre ci sarà il centenario della Marcia su Roma con un premier in pectore post fascista Giorgia Meloni. Una coincidenza che non sfugge in Europa e che incute prudenza nonostante tutte le cautele e le attenzioni della Meloni stessa.
Ha ragione Luca Ricolfi, nel suo articolo su Repubblica del 10 ottobre, a scrivere che le questioni scottanti per il prossimo governo italiano sono quelle economiche e che la Meloni probabilmente dovrà battere cassa a Bruxelles nei prossimi mesi. Ma, con la crisi politico-economica tedesca, questioni di cassa possono diventare anche di valori.
Tutto questo dà oggetivamente, per la prima volta da molti anni, un grande potere equilibratore all’Italia, ma con il potere arrivano anche enormi responsabilità.
Si deve, infatti, aiutare con tutte le forze possibili la Germania a trovare un nuovo orizzonte politico-economico e, allo stesso tempo, non ostracizzare la Polonia ma aiutarla a rientrare appieno nell’alveo europeo. Queste due cose già da sole impongono un ripensamento profondo dell’Europa.
Tale ripensamento non può non avvenire anche con una profonda discussione con Washington. Infatti, molti degli errori strategici della UE in Ucraina sono passati lungo la distanza che si è creata nel rapporto transatlantico.
Atto III: i valori
Qui il terzo atto del dramma: la questione dei valori. Questa spacca profondamente la società americana ed europea e questa faglia tettonica è forse la grande linea di continuità e di unione che si realizza attraverso l’Atlantico.
Questi valori sono comprensibili, se pur molto controversi, sulle due sponde dell’Atlantico, ma appaiono talvolta imperscrutabili per esempio in Asia, come accade per i colori con i daltonici.
Una geopolitica unitaria transatlantica potrebbe imporre di saltare a piè pari questi valori, ma ciò è impossibile visto quanto tali temi sono radicati e profondi. Inoltre, alcuni elementi essenziali, come la questione della libertà, che vanno dalla persona alla politica e al mercato (compresi i limiti di tale libertà), sono dirimenti anche tra società più o meno libere.
Allora occorre guardarci un po’ dentro.
Dio, patria, famiglia sono stati i tre lati del triangolo conservatore-reazionario che ha marcato la destra europea per almeno due secoli, dalla Rivoluzione francese del 1789 al crollo del Muro di Berlino nel 1989. Ora tutto ha cominciato a girare in modo diverso.
Nel secolo scorso, l’assalto congiunto dell’ateismo comunista e del neopaganesimo fascista ha tentato di abolire Dio. Sotto spinte simili la patria è stata dichiarata nulla dai comunisti in nome di un neo-universalismo proletario che metteva tutto sotto il comando di Mosca, oppure è stato estremizzato da chi vedeva solo la propria patria e ignorava i diritti e le esigenze delle patrie altrui.
La famiglia, che era quella patriarcale, è finita per la semplice universale emancipazione femminile che continua e continuerà a spostare l’ago degli equilibri dello stare insieme.
Ora il grande slancio comunista è finito, ci si sente persi in un mondo che cambia a velocità sempre più grande e ritorna la voglia di valori e di tradizioni che valgano per tutti.
Un problema naturalmente è: quali valori e quali tradizioni? Valori africani, cinesi, indiani, europei, arabi sono tutti uguali?
Se sono tutti uguali, il mondo diventa atomizzato, non ci sono più giudizi, regole, e quindi manca la comunicazione. È anarchia basata sul potere del più forte. La semplice applicazione dei “valori occidentali” è praticamente impossibile, nessuno li accetterà, nemmeno gli occidentali. Inoltre, i “valori occidentali” esistono forse solo nella mente di coloro che si battono contro la libertà.
Occorre, invece, una base pratica di dialogo tra culture e popoli. In effetti, questo già comincia a esserci.
Dio è tornato. Si tratti di quello intollerante dei fondamentalisti o di quello misericordioso di papa Francesco. Ci sarà un’assenza di folle oranti nei luoghi di culto, ma non l’ateismo perché esso non è più teorizzato. È finito quel tipo di odio contro Dio cominciato con la Rivoluzione francese. Poi, una volta tornata la percezione di Dio, praticamente la maggior parte della gente, senza manie suicide, sceglierà il Dio misericordioso del papa.
L’universalismo comunista è finito e non c’è spazio neanche per una patria che calpesta le patrie altrui, come i russi hanno tentato di fare contro Ucraina. Se i russi non hanno potuto farlo, è improbabile che ci riescano altri.
C’è, invece, il ritorno di una patria che allinea suoi interessi a quelli del mondo.
La famiglia. Non c’è la vecchia tirannia patriarcale, ma c’è una nuova voglia di un nucleo di affetti che si coagula intorno a una coppia con dei figli. Il fatto che gli Lgbt vogliano il diritto di sposarsi è prova del ritorno della forza della famiglia. Detto questo, bambini adottati da coppie Lgbt, gravidanze surrogate, aborti facili, contraccezione stanno allontanando l’antica contiguità fra sesso e riproduzione e famiglia patriarcale.
Eppure, nei tempi andati, la contiguità tra sesso e riproduzione si pagava con aborti clandestini, figli non riconosciuti dai padri, bambini di genitori poveri dati come servi alle case dei ricchi. Avere papà e mamma era una fortuna.
Ora che sarebbe possibile avere facilmente una famiglia “normale”, farne a meno sembra uno schiaffo alla miseria. Ovvio che questo appaia contro natura, ma, del resto, una popolazione esplosa in un secolo da uno a otto miliardi, con una vita media nel frattempo raddoppiata da meno di 40 anni a quasi 80 anni, è altrettanto “innaturale”.
La verità pare essere che la “tradizione” si stia riassestando su parametri diversi di quelli di prima della Rivoluzione francese o sovietica.
Insomma, in tante delle manifestazioni “nuoviste” non c’è voglia di stravolgimenti come quelli del secolo scorso, fascisti o comunisti, prende forma un neo-tradizionalismo. Anche nelle manifestazioni “woke”, che negano la “cultura bianca”, c’è la voglia di stabilire un’altra tradizione culturale.
Qui il discrimine non è la cultura bianca o nera, rossa o verde, ma semplicemente cultura sì o cultura no. A chi si oppone allo studio dei classici greci si diano da studiare anche i classici cinesi, o quelli indiani, o i geroglifici maya.
Le statue abbattute e ricostruite, infine, sono parte essenziale della cultura occidentale, sono l’iconoclastia che ha tormentato il cristianesimo per secoli e che strazia ancora il mondo musulmano, come si legge ne Il mio nome è rosso di Orhan Pamuk. Niente di nuovo sotto il sole, è parte della nostra tradizione.
L’essenza di questa tradizione, al di là delle polemiche quotidiane, è un cemento profondo sui due lati dell’Atlantico che si proietta nel futuro, se e in quanto si riesce a trovare una sintesi, per quanto traballante.
La posizione estrema, “neo-zarista” sostenuta da Mosca e da suoi adepti occidentali, invece è destinata a scomparire, sconfitta dalla guerra, come accadde al fascismo dopo la seconda guerra mondiale, o al comunismo dopo la guerra fredda. Questo poi si accompagna alla trasformazione del mondo musulmano che sta guardando culturalmente e religiosamente di più a un dialogo con la Santa Sede e politicamente ed economicamente ad un rapporto con Israele.
La crisi in corso in Iran, contemporanea a quella russa, pare indicare un altro aspetto di questa trasformazione profonda, il mutamento e la marginalizzazione dell’islam più radicale esploso proprio a partire dalla rivoluzione di Khomeni a Teheran 40 anni fa.
Questa trasformazione in atto pone poi opportunità e sfide culturali, politiche ed economiche importantissime all’Asia, patria del 60% della popolazione mondiale.
Un quesito prima di tutto va alla Cina: se Mosca, parte della cultura europea, non è riuscita a spaccare politicamente e culturalmente l’Europa e il rapporto transatlantico, potrebbe riuscirci Pechino? E ,se non può riuscirci, che strategie può adottare la Cina per affrontare il suo prossimo futuro per evitare un pericoloso isolamento?
Da queste risposte potrebbe davvero cominciare il dopoguerra ucraino.
[1] See Zongyuan Zoe Liu China Is Hardening Itself for Economic War https://www.tbsnews.net/analysis/china-hardening-itself-economic-war-442278