«Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta» (Carlo Maria Martini).
«Se piangete solo per i bambini israeliani, o solo per i bambini palestinesi, avete un problema che va oltre i vostri condotti lacrimal» (Nicholas Kristof).
Se non si è cinici o apatici fino al midollo, quando scoppiano conflitti come quello in atto in Israele-Palestina è impossibile non interrogarsi sull’atteggiamento che sarebbe sensato assumere.
Non possiamo essere bombardati – è la parola giusta – da fatti tragici e rischiosi senza proteggerci in qualche modo, se non altro stabilendo “che faccia fare”. Se non siamo megalomani o fuori dal mondo – ce ne sono parecchi in giro –, dovremmo ugualmente sapere che, nel breve periodo, non saremo in grado di contribuire in nulla alla soluzione del problema, ma almeno ci saremo dati una prospettiva su cui convogliare le nostre reazioni e le nostre emozioni, e questo forse potrà essere di qualche effetto, se non ora, domani.
Questo elementare meccanismo di sopravvivenza – non so dire se morale o solamente psicologica – è in tempi come questi oggetto di incursioni continue da chi vorrebbe a ogni piè sospinto indurci a ragionare in base al binomio amico/nemico.
Essere di parte o equidistanti o equi-vicini?
Si tratta di decidere sempre da che parte stare, a prescindere da ogni specificità del caso e della storia, come se la ragione avesse questa strana tendenza a rifugiarsi sempre da una parte e si trattasse semplicemente di decidere quale essa sia.
Nulla di più irritante per coloro che ragionano in questo modo di chi rifiuta questa logica “armata”, indicato come persona dall’animo ignavo e indolente, sostanzialmente irresponsabile. Come se alle guerre, sempre, si dovesse partecipare iniziando con il decidere qual è la propria squadra.
Ma se, in questa tragica vicenda, un mattino proviamo a metterci nei panni degli israeliani e il pomeriggio in quelli dei palestinesi – non in quelli di Netanyahu e di Hamas – e lo facciamo pur sapendo che queste operazioni riescono fino a un certo punto, non sarà piuttosto intuitivo concludere che si possono capire le ragioni degli uni e degli altri, per quanto speculari esse siano e per quanto amaro possa essere il sentimento della loro ardua componibilità?
È possibile allora un altro modo di porsi? È l’equidistanza ciò che andiamo cercando? Certamente no. La parola suscita qualcosa di algido e apatico.
L’equidistanza è molto vicina alla posizione che l’Europa ha mantenuto per lunghi anni, non facendo nulla perché il seme dell’odio si placasse in Palestina e sperando che un velo magico si stendesse sulle paure degli uni e le sofferenze degli altri.
Verrebbe allora in mente una parola come “equivicinanza”, solo che essa non c’è nei dizionari della lingua italiana e anche questo è significativo: si può essere equanimi solo nella lontananza, non nella vicinanza.
Il Treccani, mettendola tra le parole che vengono usate, anche se non hanno dignità linguistica la definisce: «Posizione di neutralità che si preoccupa di recepire e comporre con equanimità istanze contrapposte», una definizione ancora troppo distaccata per scaldare i cuori. Manca quella componente di compassione (da cumpati: patire con) che invece andiamo cercando. In ogni caso, il Treccani subito dopo riporta citazioni che la definiscono un «orribile neologismo”» «di cui non si sentiva il bisogno». Non si sentiva il bisogno? Ma scherziamo?
La parola, del resto, ha una bizzarra genealogia. Fu usata dal ministro degli esteri D’Alema nel 2006 proprio a proposito del conflitto in Palestina. D’Alema raccontò poi al Corriere che «in Italia [lo] presero in giro».
Egli riconobbe di averla ripresa da Andreotti il quale fu il primo ad usarla, si dice su suggerimento dell’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede. «Non si può pensare di risolvere i problemi dicendo semplicemente: o sei con i palestinesi o sei con gli israeliani», disse in un intervento al Senato. Con i tempi che corrono può succedere anche di rimpiangere Andreotti…
Qui non risolveremo il problema linguistico e, in ogni caso, non è (solo) linguistica la questione. Ma qualcosa di sensato si può forse dire appoggiandosi a una persona che l’“equivicinanza” ha provato a incarnarla e a soffrirla.
Un nostro caro amico, Stefano Bertin, tra i promotori del Forum di Limena, qualche giorno fa ci ha raccontato che: «Quando, in piena seconda intifada, portammo come Azione Cattolica Nazionale aiuto all’Azione Cattolica di Betlemme, avemmo modo di incontrare per due giorni il card. Martini, al quale chiedemmo come si poneva nel persistente conflitto in atto. Egli ci sorprese perché non distribuì giudizi a destra e a manca, ma condivise con noi la sua scelta di “intercedere” tra i fronti in guerra. Con questo egli intendeva: ascolto profondo (in latino “obbedire”) delle ragioni dell’uno e dell’altro, interiorizzare il dolore di tutti (abitarlo) e avviare con paziente tenacia sentieri di dialogo e di convivenza pacifica…».
Il teologo Brunetto Salvarani, nei giorni scorsi, ha postato su Facebook una citazione di Martini che chiarisce ulteriormente la sua posizione: «Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che, mentre tiene in vita, insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di sé stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma, se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace».
Potremmo provare a confrontarci di tanto in tanto con queste parole, tentare di esprimere un qualche lampo di incarnazione, anche se esse, nella loro serietà, dicono implicitamente quanto sia lunga e faticosa la via della pace.
Tre miti ostacolano la pace. Un articolo del New York Times
Tre settimane fa, il 15 di novembre, The New York Times ha pubblicato un editoriale che, in un certo senso, va nella direzione indicata da Martini. Ne è autore il giornalista Nicholas Kristof, vincitore di due premi Pulitzer e particolarmente attento alle ingiustizie sociali, tanto da essere chiamato dall’arcivescovo Desmond Tutu «africano onorario».
Dopo la fine della tregua e la ripresa dei bombardamenti “imprecisi” su Gaza, le sue considerazioni paiono ancora più centrate. Di seguito una sintesi.
Il confronto su quello che Kristof chiama «massacro bilaterale» appare reso incandescente dal prevalere di tre “miti”, nel senso di racconti privi di fondamento.
- Il primo mito è che, nel conflitto in Medio Oriente, ci sia il giusto da una parte e il torto dall’altra. Ma la tragedia del Medio Oriente sta proprio nel fatto che si tratta di uno scontro tra diritto e diritto. Ciò non giustifica i massacri “bilaterali”, ma rende necessario capire che, alla base del conflitto, ci sono aspirazioni legittime che meritano di essere soddisfatte, da entrambe le parti. E perciò «qualunque sia la vostra posizione, ricordate che l’altra include esseri umani disperati che sperano semplicemente che i loro figli possano vivere liberamente e prosperare nella propria nazione».
- Il secondo mito è che i palestinesi possano essere lasciati indefinitamente senza una soluzione del loro problema nazionale. Gli israeliani hanno le loro ragioni nel non sentirsi sicuri, ma dovrebbero comprendere – e noi con loro – che la mancanza di uno stato palestinese non ha reso Israele più sicuro. Una soluzione a due stati non sarebbe perciò una concessione agli arabi, ma il riconoscimento pragmatico dei propri veri interessi.
- Il terzo mito è quell’idea diffusa in entrambi i lati del conflitto che dice più o meno così: è un peccato dover ricorrere a questo spargimento di sangue, ma le persone dall’altra parte capiscono solo la violenza. È questo ragionamento che finisce per giustificare qualsiasi costo umano, per quanto grande esso sia.
Ma proprio il modo eccessivo con cui si reagisce alle organizzazioni terroristiche può diventare la ragione di una loro possibile vittoria. Così Israele sta progressivamente dissipando la simpatia che inizialmente aveva.
Se c’è una strada verso la pace, questa inizia con il superamento degli stereotipi da parte di tutti noi.
Kristof dice di essere «esasperato dalle persone che sanguinano solo per una parte, o che dicono del prezzo da pagare dall’altra, quelle che si rifugiano nel: “È tragico, ma…”. Nessun “ma”. A meno che non si creda nei diritti “umani” solo per alcuni e non per tutti.
Se piangete solo per i bambini israeliani, o solo per i bambini palestinesi, avete un problema che va oltre i vostri condotti lacrimali. I bambini di entrambe le parti sono stati massacrati in modo sconsiderato e, per risolvere questa crisi, bisogna riconoscere che «la vita di tutti i bambini ha lo stesso valore e le brave persone arrivano da tutte le nazionalità».